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Emanuele Crialese e la sua immensità

di Lorenza del Tosto

Quando Lorenza è tornata dal suo annuale impegno di lavoro alla Mostra del Cinema di Venezia, siamo stati in molti a chiederle di darci qualche dritta, di scriverne qualcosa. Ma lei muta rrimase! ‘Muta’ di scritti, perché poi a mezzavoce ci ha detto che le erano piaciuti tra i film che là aveva visto, L’immensità di Emanuele Crialese, e Argentina 1985, di Santiago Mitre, quest’ultimo film secondo lei mal trattato al Festival.
Poi però per oscure vie ci ha ripensato e ci ha mandato la trascrizione (messa in bella copia) dell’intervista che ha curato di Crialese con la stampa. Che ‘devotamente’ pubblichiamo, perché per esperienza sappiamo che le interviste di Lor ci aprono finestre impensate.
S. R.

Emanuele Crialese alla 79^ Mostra del Cinema di Venezia (foto Ansa/Ettore Ferrari)

Villa Zavagli, ex Villa degli Autori, sorge sul Lido di Venezia appartata dal caos del Festival, con il mare che si frange rumoroso e invisibile oltre la siepe di recinzione, con resti di mosaici sui muri del terrazzo e poche stanze spoglie, abitate solo dalla luce e dal vento tra le tende, che diventano scenario di trame e storie che ogni giorno, durante la Mostra del Cinema, vi vengono raccontate.

Al secondo piano, arredato per l’occasione in stile salotto di famiglia: grande divano e comode poltrone, è atteso Emanuele Crialese, e noi che, per chissà quale suggestione, lo immaginavamo alto e taciturno, restiamo spiazzati dal piccolo vulcano che ci viene incontro: calvo, forme morbide e rotonde, giacca beige, maglietta e pantaloni blu, mocassini nei piedi piccoli. Sprigiona energia, un’eruzione di sorrisi, gesti e parole.

La stessa energia di alcune scene de L’immensità, il film che ha appena presentato qui alla Mostra del Cinema. Come la scena del ballo scatenato con cui madre e figli apparecchiano la tavola per la cena, dove immaginazione e fantasia, ingredienti della Tv italiana degli anni ’70, servono a catapultare il cuore fuori dalla realtà dolorosa. Perché quanto più è dolorosa la realtà tanto più sfrenata deve essere l’energia necessaria a superarla.

Crialese con le sue interpreti nel film: Penelope Cruz e Luana Giuliani (Getty images)

A ben guardare anche l’energia con cui Crialese, ora seduto in poltrona, racconta il suo film sembra servire ad aiutarlo a superare qualcosa. Non deve essere facile parlare di sé, raccontare, con i dovuti distinguo, la propria storia sullo schermo – famiglia infelice, questioni di genere – ed esporsi alle domande di giornalisti, di ogni parte del mondo, che trattengono a stento la curiosità di sapere fin dove si è spinta la verità di questo film che entra nel cuore. Stamattina, usciti dalla sala, siamo rimasti a lungo, seduti davanti alla laguna, ad assaporarne le scene. Una famiglia borghese, benestante e infelice. Una madre che non lavora e, chiusa in casa, rischia di impazzire di solitudine e frustrazione. Un marito che trascorre il giorno fuori e la tradisce. Tre bambini che non capiscono e reagiscono al dolore come possono. Ognuno a modo suo. Il ritratto di una Roma anni ’70: sviluppo edilizio, nascita di nuovi quartieri, vacanze e interni domestici, ricostruito con precisione assoluta, un viaggio nella memoria.

“All’epoca la TV aveva coraggio.” Le parole di Crialese ci strappano ai nostri pensieri. “Non fingeva di essere la realtà. Non come adesso che prima ti mette paura e poi dichiara di proteggerti.”

All’epoca la TV era libertà, anche dalla tristezza.  Raffaella Carrà e Patty Pravo cantavano in televisione: erano le prime donne a dire “basta, non ci va bene questa vita in cui ci confinate: essere donna è molto altro.” Così i bambini impotenti di fronte alla tristezza della loro madre potevano sognare di vederla trasformata nella Carrà e trovare un po’ di respiro. Perché l’infelicità senza rimedio di una madre è come il mare che ora si intravede, inondato dalla luce di settembre, oltre la terrazza. Le sue onde tornano sempre, incessanti, a frangersi contro la riva.

“Se faccio film è per la libertà che quei varietà mi davano.” Dice Crialese con vigore “Erano una fuga dal mio dolore. Sono diventato regista per la pressione che ho sentito e il bisogno di uscirne. Per costruire storie e avere la libertà che la vita non mi dava.”
A sentirne la foga ci si aspetterebbe di vederlo sfornare film uno dietro l’altro.

“Allora perché lei fa un film ogni dieci anni?” Gli chiedono. Il suo ultimo film Terraferma, presentato qui a Venezia, risale al 2011.

“Perché se devo raccontare qualcosa di nuovo, e io detesto ripetermi, prima devo viverlo. Voglio che ogni mio nuovo  film mi sorprenda, sia un’esplorazione. Appena un film mi dà un po’ di soldi, io parto. Ho bisogno di immergermi nella vita vera. Amo il mio lavoro, ma a volte ho bisogno di frequentare amici con un ego più equilibrato, fuori da questo mondo. E poi ho i tempi lunghi: mi servono minimo quattro anni per un film.” Nei tempi lunghi a volte rientrano le battaglie con sé stessi, con le onde che tornano a frangersi sul cuore. Momenti in cui anche il cinema, lo strumento per creare altre mille vite possibili, per vivere la libertà che non abbiamo avuto, forse non basta. Perché libertà, diventare ciò che si è, non vuol dire vita spianata e terreno in discesa. La Carrà, Patty Pravo avranno sempre avuto voglia di cantare? Certo che no.

Nei suoi film che mai si ripetono, gli fa notare un giornalista inglese, c’è però sempre il tema della famiglia. Della madre.

“Anche in Respiro c’è una madre sofferente.” E, vincendo il suo pudore britannico, il giornalista chiede: “Ma la sua famiglia cosa ne pensa? Sua madre ha visto il film? Le è piaciuto?”

Crialese scuote la testa, trattiene la foga.

“Non importa se mia madre lo ha visto o no.” Fa un gesto con la mano ad indicare che queste sono cose irrilevanti. “È vero che anche la madre di Respiro stava male, ma lì era diverso: c’era un marito che l’amava. La mia famiglia è abituata, sa che trasformo i nostri affari in film, e comunque ci sono anche cose che non ho vissuto, ci sono le mie paure e i miei desideri. Mia madre non è mai stata ricoverata in un istituto psichiatrico…” La frase resta in sospeso. La paura che potesse esserlo è stato il suo più grande terrore nell’infanzia, le paure che ti entrano dentro e ti fanno diventare chi sei. “D’altronde i nostri mostri sono anche il nostro tratto più importante.”

Allora per sottrarlo all’imbarazzo del troppo personale una giornalista torna su questioni più tecniche:
“I giovani attori sono straordinari: come li ha trovati?”

Emanuele Crialese è felice dei suoi ragazzini. La felicità sembra riversarsi dalla sua poltrona, inondare il salotto.
“All’inizio li ho cercati in città. Per il personaggio di Adri avrò visto tremila ragazzine.  Chiedevo ai bambini di guardare l’orizzonte” Punta il suo sguardo sul mare lontano “Guardavano un istante e poi mi chiedevano: e adesso? Il loro sguardo è veloce. Con i primi piani non avrebbe funzionato. Non riescono a stare concentrati.  Alla mia epoca eravamo diversi. Noi eravamo fisici.” Cerca di spiegare in cosa consista esattamente la diversità: la vita all’aperto, la noia che popolavi di giochi inventati, il tempo con te stesso. Mille dettagli che negli anni si sono sommati ed hanno trasformato il mondo. Cose di cui non ti accorgi, poi vedi un film e ti rendi conto di come eri e di come sei diventato.

“Noi ragazzini ce ne stavamo sempre per conto nostro. A nessuno interessava la nostra opinione. Ora invece sono interpellati su tutto… Alla fine ho capito che in città non avrei trovato quello che cercavo. Così ho cominciato a cercare in provincia.”
Si è accorto che in campagna, in provincia i ragazzi sanno guardare l’orizzonte più a lungo, i loro occhi sanno fermarsi, senza sentire subito l’urgenza di altro.

“Luana Giuliani, che interpreta Adri, bravissima, l’ho trovata a Pomezia. Una piccola città a sud di Roma.” Dice soddisfatto stupito lui stesso dal miracolo del loro incontro “ Non volevo una ragazzina che avesse questioni di genere.”  Si capisce che i giornalisti vorrebbero chiederglielo: “Lei da piccolo era proprio come Adri?”  Si capisce che anche lui vorrebbe che glielo chiedessero purché in un modo aggraziato. Senza avida curiosità. Ma nessuno dice niente e il racconto riprende:

“Così l’ho cercata negli ambienti degli sport più maschili: karate, moto e l’ho trovata. Luana corre con le motociclette. È una sua passione da quando era piccola, l’ho scelta quando aveva dieci anni, c’è stata la pandemia e l’ho ritrovata cresciuta, ma andava bene lo stesso.“ Ride pensando alla ragazzina, alla sua libertà “Non ha nessun desiderio di essere un ragazzo, ma quando le hanno chiesto se voleva gareggiare nella sezione femminile o in quella maschile, dove le ragazze ovviamente sono svantaggiate, lei ha scelto la sezione maschile e ha vinto. Capito?” Ride “ Ha vinto.”

“Senza che io gli avessi raccontato la storia i miei attori hanno creato esattamente la famiglia che avevo scritto: la casa è il corpo e la famiglia ne è il cuore malato.”

Ai bambini, con cui fa tanti laboratori, non racconta mai la trama, magari dà un tema. Come reagiresti, cosa faresti se qualcuno dicesse o facesse questo? A volte sono i bambini stessi a offrirgli interpretazioni che lui poi inserisce in sceneggiatura.

E per i bambini de L’immensità che vivono in un cuore malato, le baracche dei figli degli operai, davanti alle loro finestre, sono la libertà, tutto ciò che loro non hanno. Per Adri sono l’attrazione e l’amore.

“Non sono zingari” Crialese corregge i giornalisti stranieri. “Sono operai che venivano dal sud a costruire le case di Roma, si portavano dietro la famiglia e, ad ogni lavoro, si costruivano una nuova baracca. Erano gente che riusciva a vivere bene.”

 

“Inizialmente per la madre, in sceneggiatura, avevo messo un nome inglese, sapevo che doveva essere una straniera per sentirsi ancora più in trappola, ma poi la scelta è caduta su Penelope Cruz”

Che poco fa ha attraversato il salotto per raggiungere il terrazzo dove l’aspettano i giornalisti, da cui ora arrivano voci e risate. Sorridente e splendida e in caloroso abbraccio con il regista, eppur sempre straniera, diversa da come è En los margénes, splendido film spagnolo da lei prodotto e interpretato presentato nella sezione Orizzonti,  dove sembrava risplendere nel suo mondo familiare ispanico.

“Penelope è il simbolo della donna universale. Senza tempo. Everlasting woman.” Crialese estende le braccia verso un tempo infinito “Timeless woman. Può essere madre, nonna, figlia, amante. È la donna.”
Che lui ritrae nel film con infinita tenerezza, con certosino scandaglio. Come se solo ora il figlio cresciuto potesse permettersi il lusso di indagare, addentrandosi con la macchina da presa nelle pieghe dei gesti, nelle espressioni dei volti e  dei silenzi. Avvicinarsi finalmente a situazioni misteriose che da bambino osservava da lontano e che, all’epoca, lo hanno sopraffatto gettandolo nell’impotenza.

“I tre fratelli non capiscono. Vedono madre e padre che non si amano. Una madre infelice. E si chiedono: noi da dove veniamo? I figli dovrebbero essere frutto dell’amore. Ma loro dell’amore non hanno un ricordo. Allora sono frutto di cosa? Dell’odio? Del disprezzo? I bambini non sanno fare domande, non sanno mettere a parole la confusione che hanno dentro e allora somatizzano. Chi diventa bulimico, chi anoressico, chi lascia i suoi escrementi in giro. E in Adri può darsi che avvenga dell’altro.”
Gli occhi di Crialese per un istante si perdono lontano, non è più qui, come chi afferra d’un tratto la chiave cercata a lungo, che apre una serratura che non si riusciva a forzare, una chiave ancora preziosa anche se la porta non c’è più da tempo.

“Forse il desiderio di Adri di essere un ragazzo è il desiderio di creare in sé l’armonia tra maschile e femminile, l’unione tra sua madre e suo padre che le permetta di sentirsi frutto dell’amore. Un tentativo di pacificare la tensione e l’odio che la circonda. Adri vede cosa succede a sua madre e non si sente sicura nel corpo di una donna.”

Ci tiene a ricordare che la violenza domestica, all’epoca, era considerato affare di famiglia, le donne dovevano accettarlo e lasciare che passasse il momento.

Il tempo scorre e la lingua inglese, usata con la stampa scritta anche se tra i presenti ci sono tanti giornalisti italiani, sembra dargli una libertà che, invece, con le televisioni si nega. Gli viene spontaneo, quando c’è di mezzo una macchina da presa, controllare tutto. Intuisce il tipo di inquadratura e di immagine che il servizio vuole creare, il messaggio che vuole mandare, e a lui a volte non va bene, preferisce sottrarsi, spostare sedie, non cadere nelle trappole delle risposte telegrafiche di una TV che non è più quella di un tempo. E poi lo ha detto: “preferisco guardare che essere guardato, riconoscere che essere riconosciuto, per questo ho bisogno di staccare. Ho bisogno di tempo per cambiare.”

Ma finite le televisioni, ora che si avvicina la fine, seduto in terrazzo con l’ultimo gruppo della stampa scritta, si lascia andare come se i giornalisti fossero amici invitati a cena che domani ricorderanno solo frammenti delle conversazioni notturne, le interpreteranno a loro modo, le scarteranno, le dimenticheranno.  Amici fuori dal giro del cinema, esponenti di quella vita vera a cui ha sempre bisogno di tornare.

L’immensità è una lettera d’amore alle madri.” Dice con un gran sorriso. Come se girare il film gli avesse permesso di passare al setaccio l’eterno dolore delle madri di cui ora sono rimaste solo pepite luminose.
Perché nella vita di ognuno, come ripete spesso, ci sono momenti in cui muori, per una separazione, per un lutto, e poi rinasci. Death and rebirth. E ogni volta cambiano le tue priorità e il tuo sguardo sulle cose.

“Non mi piace la parola transessuale mi piace la parola transizione. Transizione è cambiamento, ricerca di identità. Cosa me ne importa a me dei suoi genitali…” e indica in basso e qualcuno sorride. “L’immensità è un film sulla famiglia e sull’identità. Non c’entra l’identità di genere. L’identità ce la creiamo con le nostre relazioni: il modo in cui proiettiamo la nostra persona sugli altri e quello che gli altri ci rimandano. E per costruirla serve tutta una vita.”
E serve un bisogno costante di cercare, e cercare ancora, per sfuggire alle onde di quel mare.

“Mia madre all’epoca era sola. Non aveva nessuno a cui dire di me.” L’infelicità di sua madre veniva quindi anche da lui. È sua madre che lui sognava di vedere libera nei panni della Carrà o è lui con dentro sua madre, come nella scena finale? Perché per liberarsi davvero bisogna liberare anche i prigionieri che ci portiamo dentro.

Madre e fratelli che forse non vorrebbero neanche più essere liberati, forse hanno trovato altre strade, ma lui è qui a raccontare le loro storie. Perché un giorno ha capito che l’evasione della Carrà era possibile. Era il cinema. Non era solo stare lì davanti al piccolo schermo a fantasticare di essere lei, era possibile crearle e viverle le storie.

“Con la consapevolezza che si tratta sempre di una fuga, di creazioni da bilanciare con la verità.”
Ripete energico vulcanico, finché d’un tratto, dopo un’ultima eruzione di parole, lui non c’è più.

Scomparso oltre le tende che fluttuano nel vento della sera, scomparso dalle stanze deserte scomparso verso un altrove “dove poter guardare e non essere guardato, dove riconoscere senza essere riconosciuto.”
E, nei tempi lunghi, continuare a cercare.

2 Comments

2 Comments

  1. Sandro Russo

    30 Settembre 2022 at 14:09

    Pur avendo visto quasi tutti i film di Emanuele Crialese (1965, nato Emanuela) – Respiro (2002); Nuovo Mondo (2006); Terraferma (2011); L’immensità (2022) – non sapevo nulla della sua “transizione” come la chiama lui. E non è strano perché pare che il suo outing sia proprio quest’ultimo film presentato a Venezia.
    Ho cercato altre notizie e ho trovato due articoli, del Corriere delle Sera e del Post, entrambi recentissimi (del settembre 2022).
    Stralcio dal secondo:
    In un’intervista sul Corriere della Sera il regista italiano Emanuele Crialese (57 anni) ha parlato per la prima volta pubblicamente della sua transizione di genere, in occasione della presentazione alla Mostra del cinema di Venezia del suo ultimo film, L’immensità, che racconta tra le altre cose la storia di un adolescente trans.
    Nell’intervista, Emanuele Crialese ha detto che «per cambiare la A con la E del mio nome ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo, il pegno che mi ha chiesto la società, sennò non avrei potuto cambiare nei documenti». Anche se non lo specifica, Crialese si riferisce con ogni probabilità a una legge che in Italia è stata valida fino al 2015 e che prevedeva l’obbligo di sottoporsi a un’operazione chirurgica ai genitali (con la conseguenza della sterilizzazione) per le persone trans che volevano il riconoscimento legale del proprio genere.
    Grazie a due sentenze dalla Cassazione e della Corte Costituzionale, quest’obbligo in Italia non esiste più, ma per avere documenti aggiornati rimane necessaria una diagnosi psicologica. Chi si occupa di questi temi e chi ha fatto transizioni di genere prima del 2015 afferma con convinzione che l’obbligo di sottoporsi a un’operazione per ottenere un riconoscimento legale dell’identità che si sente propria fosse estremamente violento.
    L’immensità racconta la storia di una famiglia che si trasferisce a Roma negli anni Settanta: il padre è violento e la madre (interpretata da Penelope Cruz) è molto legata ai tre figli, tra cui l’adolescente Adriana che ha 12 anni e si fa chiamare Andrea. Nell’intervista Crialese ha detto che «non c’è film che non sia autobiografico»: citando altri suoi film precedenti, come Terraferma e Nuovomondo, ha aggiunto di aver «sempre fatto film sulle migrazioni, sulle transizioni anche da un luogo all’altro».
    Di L’immensità ha detto che è «il film che inseguo da sempre, il più desiderato. Ora sono pronto. Se l’avessi fatto prima sarebbe stato palloso e didascalico, un poveraccio che usa la crisi di genere. Ho aspettato per avere consapevolezza di me e del linguaggio cinematografico».

  2. Sandro Russo

    1 Ottobre 2022 at 10:01

    Rileggendo l’intervista a Crialese, ho stralciato questo passo, in particolare.
    Quando gli chiedono:
    “I giovani attori sono straordinari: come li ha trovati?”
    Emanuele Crialese è felice dei suoi ragazzini. La felicità sembra riversarsi dalla sua poltrona, inondare il salotto.
    “All’inizio li ho cercati in città. Per il personaggio di Adri avrò visto tremila ragazzine. Chiedevo ai bambini di guardare l’orizzonte”. Punta il suo sguardo sul mare lontano “Guardavano un istante e poi mi chiedevano: e adesso? Il loro sguardo è veloce. Con i primi piani non avrebbe funzionato. Non riescono a stare concentrati. Alla mia epoca eravamo diversi. Noi eravamo fisici”.
    Cerca di spiegare in cosa consista esattamente la diversità: la vita all’aperto, la noia che popolavi di giochi inventati, il tempo con te stesso. Mille dettagli che negli anni si sono sommati ed hanno trasformato il mondo. Cose di cui non ti accorgi, poi vedi un film e ti rendi conto di come eri e di come sei diventato.

    Ho notato due cose. Come è vero che lo sguardo è diverso tra i ragazzini di città e quelli abituati a spazi più aperti. Ho pensato alla mia esperienza di bambino e ragazzino sull’isola…
    Poi è vero che certe cose le focalizzi più che con un libro, attraverso un film, che è (anche e soprattutto) un’esperienza visuale.

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