Scrittori

È morto Javier Marias, lo scrittore

di Sandro Russo

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È morto l’altroieri a Madrid, sembra per un broncopolmonite, lo scrittore spagnolo Javier Marias.
Lo avevamo nominato l’ultima volta sul sito nel febbraio di quest’anno, in un articolo che riportava le opinioni di diversi scrittori su Il senso della scrittura e della lettura: il suo modo di intendere la scrittura, tra gli altri.

Quel che siamo stati e quel che avremmo potuto essere
“..Insomma noi persone forse consistiamo tanto in ciò che siamo quanto in ciò che siamo stati, tanto in ciò che è verificabile e quantificabile e rammemorabile, quanto in ciò che è più incerto, indeciso e sfumato; forse siamo fatti in egual misura di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere.
E mi spingo fino a pensare che sia appunto la finzione a raccontarci tutto questo, o meglio, a servirci da promemoria di quella dimensione che siamo soliti lasciar da parte al momento di raccontare e di spiegare noi stessi e la nostra vita. E oggi il romanzo è ancora la forma più elaborata di finzione, o così credo”
[Javier Marias – In epilogo al romanzo “Domani nella battaglia pensa a me” – Einaudi Ed.; 1998].

Amavamo questo scrittore. I suoi libri ci hanno fatto compagnia e aperto orizzonti.
Sono andato a cercare, nell’archivio del mio pc, le cose che ho messo da parte, scritte da lui o su di lui, nel nostro giro di amici interessati alla scrittura. E ho trovato uno scambio di diversi anni fa, in cui Javier Marias è nominato più volte.
Lo riporto integralmente:

Chiacchiere tra amici, Javier Marias e il piccione
Ci sono alcune caratteristiche che definiscono l’essenza dello scrivere: mestiere, arte o perversione, che con questo si voglia intendere.
Una specie di sguardo sul mondo, possiamo dire, che viene isolato, coltivato, con particolare impegno da alcune persone. Per trasformare questo sguardo, le sensazioni che ne derivano, in un universale trasferibile poi sulla pagina scritta.
In questo ambito, non è importante la differenza tra lo scrittore di successo e il neofita entusiasta; tra il professionista affermato e il naif che non ha mai pubblicato un rigo.
L’essenza, il modo di guardare il mondo e tra i pensieri, vengono prima di qualunque applicazione pratica delle proprie capacità.

Pensavo a queste cose leggendo – in apertura del romanzo di Javier Marias (Tutte le anime; 1989 – Einaudi) – la descrizione del portiere Will dell’università oxfordiana dove il narratore si trova a insegnare. Un uomo molto anziano, portatore di una lucida follia – sembrerebbe – che lo situa ogni mattina in un definito segmento del corso della sua lunga vita; così che il protagonista viene salutato ogni giorno con un nome diverso, mai con il suo vero nome. L’errore ricorre con una certa logica – viene spiegato – i nomi non sembrano inventati a caso da uno svaporato che ha perso la memoria. Alcuni di questi nomi – il narratore è andato a documentarsi – appartenevano a docenti che effettivamente avevano varcato quella soglia in altri tempi. Ma di altri non c’è traccia negli annali dell’università… tanto che il narratore si chiede – ecco l’unghiatina del vero scrittore – …se per caso Will non abbia la capacità di viaggiare nel tempo, e abbia preso quei nomi da un futuro che per la gente comune non è ancora arrivato.
Non è geniale? Un portiere dall’aria svampita che sembra fuori dal tempo, magari con una livrea guarnita di alamari, lo abbiamo visto tutti e la nostra mente si è soffermata per un attimo sulle implicazioni possibili; ma solo lui – lo scrittore – affabula, ci ricama dietro e intorno fino a scoprire  – in un’osservazione altrimenti banale, una logica: assurda e aberrante ma fascinosa.

Sempre più o meno nelle prime pagine dello stesso libro, il protagonista si trova a fare il pendolare tra Londra e Oxford ed è uso prendere l’ultimo treno della notte in una stazione remota, deserta e mal illuminata. Una sera c’è anche una donna che aspetta il treno. Tutti sanno che in Inghilterra non si parla tra sconosciuti; la privacy non è un’invenzione continentale, ma regola fondante e assoluta. Lui intuisce più che vedere, la presenza di questa donna, mentre dall’ombra emergono a tratti, nel cono di fioca luce del lampione, particolari delle sue scarpe e le sue caviglie bianche o, occasionalmente, una mano e un braccio che descrivono un arco, nel movimento di buttare un mozzicone di sigaretta.
Ecco: questa è un’altra peculiarità dello scrittore: isolare un particolare dal contesto della normalità, dall’ovvietà imperante…

Mi sono trovato a parlare, una sera a cena con amici, di una stupidaggine guardata appunto con l’occhio che ho cercato di descrivere, nei due esempi presi dal libro di uno “scrittore vero”.
Qualche giorno prima camminavo su un viadotto sospeso, subito dopo l’arrivo a Formia del traghetto dall’isola. Facevamo la stessa strada, io con la borsona, sul marciapiede, e un piccione, proprio sul bordo del viadotto, all’esterno del massiccio parapetto in tubi di ferro che mi proteggeva dal vuoto alla mia sinistra. Ci siamo guardati con indifferenza reciproca proseguendo ognuno per la sua strada. Poi il piccione si è sporto ancora di più nel vuoto (…potrebbe aver messo una zampetta in fallo?) e si è lasciato cadere. Sul momento ho pensato a un tentativo di suicidio (…perché un piccione non dovrebbe decidere di farla finita con la vita?). Poi, con una frazione di ritardo, ho realizzato che l’altro personaggio era, appunto, un piccione. Infatti un attimo dopo ha aperto le ali ed è rientrato nella realtà e nell’ordine del mondo.

Ho poi dovuto spiegare meglio – per scritto – ai miei amici questa sensazione, perché avevo avuto l’impressione  che mi avessero “guardato strano”.
Ma no! Erano anch’essi – gli amici – addentro alla perdizione della scrittura e una di loro (Lorenza) mi ha scritto a sua volta:
“Mi ha sorpreso che tu avessi notato uno sguardo strano al momento del racconto del piccione.
Pensa che la scena mi era talmente chiara e mi aveva così colpito, che per un lungo istante credo di essermi fermata a guardarla. Il molo bagnato con qualche schizzo d’acqua di mare. L’espressione sul tuo viso e, ti dirò, pure quella sul viso del piccione. E ho sentito il tuo tuffo al cuore, il sobbalzo quando il piccione si è buttato. E la placidità di lui che volava.
Quando qualcuno mi racconta una cosa che mi piace, io mi metto a guardarla, ci faccio qualche ritocco qua e là. E forse all’altro sembrerò distratta…”.

Poi Lorenza ha raccontato una stupidaggine che è capitata a lei.
“L’altra sera, mentre tornavo a casa ho visto davanti a me uno spazzino (anzi, un operatore ecologico), che spazzava la strada e spingeva un piccolo carrello-secchio con le ruote (avrà un nome tecnico?). Quando gli sono passata accanto ho visto un foglio di carta che si staccava dal mucchio che lui aveva sollevato per metterlo nel secchio. Ha cercato due volte di riafferrare il foglio, ma quello, leggero e dispettoso, si spostava.
Alla fine ha allargato le braccia e lo ha lasciato andare.
Cosa c’era scritto su quel foglio? Mi sono chiesta…
Parole, righe che qualcuno ancora doveva leggere? Come se il foglio non si rassegnasse a sparire con il suo messaggio? E mentre facevo questo pensiero, mi è venuto da sorridere, ho pensato a te Sandro, a Javier Marias e anche a Kieslowski. Credo che Kieslowski le avrebbe messe, in qualcuno dei suoi film, le scene del piccione e del netturbino. Non credi?
E ho pensato – ma era troppo tardi ormai – che avrei dovuto recuperarlo io in qualche modo, quel foglio volato via; sono questi i suggerimenti che il caso ti fa comparire davanti agli occhi e devi afferrare al volo.”.

Ecco di cosa parliamo, quando parliamo di scrittura.

Nota della Redazione
Su tutti i giornali la notizia della morte di Javier Marìas è stata ampiamente riportata:
Su la Repubblica di ieri ne Hanno scritto Francesco Piccolo (l’intestazione del suo articolo è riportata nella nostra immagine di copertina) e Paolo Di Paolo (qui sotto il suo trafiletto in ritaglio immagine). Cliccare per ingrandire.

 

 

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