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Formidabili quegli anni… e quei giornalisti (2)

proposto da Sandro Russo

Tiziano Terzani è davvero un pozzo senza fondo. La nostra generazione, me lo confermano Isidoro e anche altre persone che ho sentito – l’ha seguito nei suoi reportage, nelle sue avventure nel vasto mondo e anche dentro di sé, negli entusiasmi e nelle cantonate, nell’amore per l’India e per le tecniche di meditazione…  Per non dire che tutte le volte che sono stato in India è stato sulle sue tracce… me lo sono sentito al fianco.
In tutto quel che faceva, arrivava prima di noi, con totale  partecipazione e assoluta sincerità. Come non amarlo?
Perciò è stato con devozione che ho raccolto e riguardato le carte raccolte tra le pagine dei suoi libri, quando li ho ripresi in mano dopo decenni forse, in cui sono successe tante altre cose, nel mondo di fuori e nella mia vita.
Terzani è morto nel 2004. Sicuramente sono 18 anni che quei libri non li aprivo.
Questo articolo è per lui. È Bernardo Valli che scrive, su la Repubblica del 2002, la recensione al suo libro appena uscito: Lettere contro la guerra, ed è strettamente intrecciato con lo scritto precedente, qui pubblicato qualche giorno fa.
Leggi anche: Un altro giro di giostra con Tiziano Terzani. Il libro del figlio

Il lungo viaggio sulla mongolfiera indiana
di Bernardo Valli da la Repubblica dell’8 marzo 2002

Era scritto che un giorno Tiziano Terzani avrebbe cominciato a spogliarsi degli abiti occidentali per indossare quelli che porta nella fotografia copertina del suo ultimo libro (Lettere contro la guerra, Longanesi, pagg. 196, euro 10). E’ un abbigliamento che rammenta l’India, dove egli è approdato non sapendo ancora, quando vi ha messo piede per la prima volta, che quello è un paese in cui è più facile morire, perché in alcuni suoi angoli, forse sempre più rari, un occidentale perde il contatto con le immagini che hanno accompagnato la sua vita, e quindi ha meno rimpianti quando è sul punto di andarsene.
Non vorrei vantarmi, ma credo di avere contribuito (durante i nostri comuni soggiorni o semplici incontri a Singapore, a Pechino, a Hong Kong, a Saigon o a Tokio) a far nascere in lui l’ idea che l’ India potesse essere un’ esperienza utile, a conclusione di un quarto di secolo in Asia ritmato da delusioni.
Non pensavo certo a una sua ultima spiaggia. Sapevo che disponeva di tante vite, oltre quella, lunghissima, che l’attendeva in India. Le sue radici sono profonde in questo luogo senza scampo che ci vede contemporanei.


La “mia” India (e in generale la “mia” Asia) non è avvolta dalla nebbia della leggenda e di una vaga romanticheria. Se è approssimativa la colpa va attribuita a un’ irriducibile ignoranza. Quando mi rivolgevo a Tiziano sapevo comunque distinguere gli odori di Calcutta, di Madras, di Bombay, di Cochin, di Trivandrum; e avevo provato, sia pure brevemente, le vertigini dei grandi passi himalayani. Nella patria di Gandhi avevo già seguito tre guerre e un altro imprecisato numero di avvenimenti determinati dalla violenza. Ma vi avevo anche raccolto parole e gesti che altrove sarebbero apparsi banali e retorici, e che là conservavano invece tutto il loro valore. La frase di Jawaharlal Nehru, ad esempio, con la quale il primo ministro, amico di Gandhi, espresse la sua irrealizzabile ambizione: «Asciugare tutte le lacrime da tutti gli occhi». Un intellettuale che non faceva sorridere proponendosi di prosciugare l’ Oceano non poteva che essere un grande uomo. Certo, lo spaesamento, che in India poteva essere allora totale, confondeva facilmente le carte. Nobiltà e abiezione non erano sempre distinguibili. Ma dove lo sono? In India avrei vissuto volentieri. Suggerendolo a Tiziano, gli facevo un regalo: gli offrivo una mia tentazione. Una tentazione non priva di rischi. Giuseppe Tucci, che insegnò il tibetano e il cinese nelle università di Calcutta e di Santiniketan, diceva che là trovi «la stessa creatura che noi siamo»; e descriveva una creatura «sospirosa di serenità celestiali e intorbidita dal peso della carne e delle passioni, agitata dai medesimi dubbi, ansiosa degli stessi problemi». Ma aggiungeva che nessun bene sarebbe venuto a chi avesse rinunciato alle proprie esperienze e avesse reciso i legami con il proprio terreno spirituale per abbracciare l’ altro mondo. Il rischio era di trovarsi sospeso fra la terra e il cielo, tra l’Occidente ripudiato e l’Oriente abbracciato. O viceversa. Non pensavo tuttavia che Tiziano potesse correre questo rischio. Non riuscivo a immaginarlo fluttuante in uno spazio imprecisato. Ero sicuro che la sua energia gli sarebbe servita da zavorra impedendogli di involarsi, portato via dalla mongolfiera (indiana), come un personaggio di Jules Verne o il Cosimo, il Barone rampante, di Italo Calvino. Lo spaesamento indiano l’avrebbe liberato dalle sgradevoli esperienze che si trascinava dietro, come assordanti barattoli. Insomma, l’attendeva un riposo taumaturgico tra immagini e fantasmi diversi. Le nuove curiosità sarebbero state benefiche. Lo sono state a tal punto che l’India si è rivelata per lui non soltanto una terra di rianimazione, ma addirittura una terra di resurrezione. Un fenomeno collegato più alla trasmigrazione del corpo di anima in anima, che alla trasmigrazione (classica) dell’anima di corpo in corpo. Adesso è un uomo risorto quello che i lettori scoprono sulla copertina e nelle pagine del suo libro: un Tiziano risorto, avvolto nell’abito bianco di cotone e con la barba altrettanto bianca, anzi candida, e incolta. Abito e barba che riflettono la sua nuova anima. Non l’anima di un asceta, ma di un personaggio più che mai con i piedi piantati nel suolo.

Quando ho letto il suo libro più diffuso (Un indovino mi disse), che è anzitutto una riflessione sul destino, e poi più di recente il resoconto (bellissimo) di un suo ritiro, sempre in India, e i pensieri esistenziali che ne aveva ricavato, ho creduto che egli si stesse realmente alzando da terra, e rischiasse di restare a mezz’ aria, come secondo (il dimenticato) Giuseppe Tucci rimangono coloro che si aggrappano all’ India, tagliando del tutto gli ormeggi occidentali. Questa impressione veniva anche dal fatto che un giorno, a Hammamet, in Tunisia, dove mi era venuto a trovare, era scomparso. Si era incamminato sulla spiaggia invernale deserta e non trovavo più tracce di lui. Lo individuai, infine, con fatica, perché il colore dei suoi indumenti, nel tramonto grigio, si confondeva con quello della sabbia: era immobile, da un’ ora e forse più, come in trance, e guardava fisso il mare increspato. Era un falso allarme. Di solito si risorge da un sepolcro. Tiziano si è scavato il suo facendo quello che era il nostro comune mestiere.

Lui adesso non fa più il giornalista. Non insegue più le guerre, le rivoluzioni, le crisi, le alluvioni e in generale tutte le bizzarrie umane che fanno notizia, che possono incuriosire i lettori saggi o sadici. A quei tempi si vestiva spesso stile “safari”. E’ quel che scrisse di lui un cronista del New Yorker, raccontando gli incontri con i colleghi sulla terrazza dell’Hotel Continental, nella Saigon degli ultimi tempi della guerra americana. Con i suoi abiti bianchi, da un bianco diverso da quelli di oggi, Tiziano sembrava un primo attore giovane del cinema già parlato ma non ancora a colori. In bianco e nero. Il trasandato abbigliamento di oggi ha il valore del saio indossato da un personaggio mondano che decide di cambiar vita, come capita di leggere nelle agiografie. L’umiltà non c’entra. Sia come atteggiamento, sia come sentimento, è sconosciuta a Tiziano. È una virtù che non si addice a un attore; sia pure un attore che interpreta soltanto personaggi fedeli alle sue convinzioni.

Nell’altra vita, prima della resurrezione (o della metempsicosi alla rovescia, con anima e corpo che si scambiano i ruoli), Tiziano era un corrispondente di guerra, oggi è un militante contro la guerra. L’abito di cotone greggio è la sua divisa. Con la stessa energia è in guerra con la guerra. Lo capisco. Forse lo invidio.

Tiziano Terzani ha consumato la sua prima anima via via, di delusione in delusione, nei vari paesi d’Asia dove l’hanno portato il mestiere e la passione.
Faccio un breve riassunto, cominciando dalla Cambogia.

Nei primi Settanta, i khmer rossi ci erano simpatici. L’alternativa erano i corrotti e pagliacceschi militari del maresciallo Lon Nol, che interrogava gli indovini prima di un’ offensiva e comandava battaglioni inesistenti, perché invece di crearli intascava i soldi ricevuti dagli americani a quel fine. Aveva una sua logica essere con i khmer rossi. Anzitutto non li conoscevamo, perché erano irraggiungibili sulle montagne, nelle foreste e nelle risaie; inoltre resistevano ai bombardamenti a tappeto dei B52 americani; e il cuore di un cronista di guerra batte quasi sempre in favore dei ribelli, dei deboli, senza troppo riflettere su come si comporteranno quei ribelli, quei deboli, una volta al potere. Qualche anno dopo Tiziano è stato uno dei primi a descrivere il genocidio compiuto dai khmer rossi una volta, appunto, arrivati al potere.
Lo stesso è accaduto in Viet Nam. Lui era rimasto a Saigon dopo la vittoria del Nord comunista e dei loro alleati del Sud, i Viet Cong, ed era rimasto colpito dalla tolleranza con cui i vincitori trattavano i vinti. Su quella esperienza scrisse un libro (del quale vorrei essere stato l’ autore). Ma il libro era ancora fresco di stampa, quando la generosità dei vincitori si trasformò in una brutale vendetta. Si formarono i campi di rieducazione ed esplose la tragedia dei boat-people.
Come con i khmer rossi, Tiziano ha denunciato coloro in cui aveva (avevamo) avuto fiducia.

A differenza di molti altri giornalisti (mitomani o impostori) che per avere passato una settimana a Pechino, tre giorni a Saigon e uno a Pnom Penh, si dichiarano esperti della Cina, veterani del Viet Nam e esploratori della Cambogia, lui ha trascorso anni in quei paesi, condividendone spesso i drammi, attraverso vicende dolorose e amicizie tanto profonde da segnare una vita.
Le sue corrispondenze raccolte nel volume In Asia, ne sono la testimonianza.


Mi ha sempre stupito la sua capacità di immedesimarsi nel paese in cui viveva, anche per breve tempo. Quando abitavamo a Singapore (per seguire il Viet Nam e la Cambogia in guerra, che potevamo raggiungere in neppure un’ ora di volo), a volte andavamo a passare qualche giorno a Rawa, una piccola isola al largo della costa malese. Di malesi in quel posto semideserto ce n’ erano proprio pochi. Ma lui si esercitava nella loro lingua, con straordinario successo, per avere un rapporto più confidenziale. Lo stesso accadeva con il corrispondente della Far Eastern Economic Review, con il quale divideva l’ ufficio a Singapore. Era un indiano, un tamil, e la sua presenza sollecitava in Tiziano la tentazione di imparare qualche elemento della lingua tamil. E allora non pensava ancora all’ India.
La Cina è stata un capitolo decisivo. È là che Tiziano ha sepolto la sua prima anima, già ferita in Cambogia e in Viet Nam. Per imparare il cinese aveva frequentato un’università americana. Negli Stati Uniti aveva vissuto le proteste degli ultimi anni Sessanta. Il Sessantotto gli era stato congeniale. Quell’epoca gli aveva lasciato un sospettoso atteggiamento nei confronti dell’ America. Un misto di ammirazione e di rigetto, comune a molti di coloro che la conoscono sul serio. Prima di realizzare il suo grande progetto, di diventare corrispondente da Pechino, Tiziano aveva fatto una lunga anticamera nella redazione di un giornale milanese, poi a Singapore e a Hong Kong.
Quando infine è arrivato nella capitale dell’ impero tardo-maoista ha trovato una realtà assai diversa da quella che aveva inseguito. Non solo il regime era (burocraticamente) repressivo, ma era anche impegnato in uno scempio estetico di proporzioni mai viste. Squadroni di bulldozer distruggevano le immagini antiche della Cina, per erigere al loro posto copie insignificanti dei più concreti simboli dell’ Occidente. Era l’ avvio, sul piano urbanistico, di quella che si sarebbe chiamata più tardi la globalizzazione. Tiziano ha odiato i falsi grattacieli di Manhattan costruiti in tutte le città cinesi, ridotte a sterminate periferie occidentali. E nella sua collera ha coinvolto anche l’ America corruttrice. La collera l’ha spinto persino ad esaltare l’impero britannico che ammainava la sua ultima bandiera a Hong Kong. La notte in cui l’ avanguardia dell’ Armata del Popolo è entrata nel territorio dell’ormai ex colonia, per rappresentarvi la ripristinata sovranità cinese, pioveva a dirotto, diluviava su tutta la costa. Tiziano mi telefonò in albergo chiedendomi se andavo al confine ad assistere all’ ingresso dell’esercito che avrebbe segnato la fine della (semi) democrazia instaurata dagli inglesi nella bella e moderna metropoli. Guardai il cielo cupo e l’acqua che cadeva a secchi sui grattacieli allineati lungo il porto, e respinsi il suo invito. Preferivo andare a letto. La spedizione era inutile. Era evidente che la nuova Cina, con il suo capitalismo leninista, avrebbe cercato di copiare e non di distruggere Hong Kong, Ma un amante tradito, quale era in quel momento Tiziano, non ubbidisce alla ragione. Quella notte comunque lui andò alla frontiera. Fu uno dei pochi. Forse il solo. E aveva ragione. Un bravo cronista va sempre “sul posto”. Anche adesso che non è più cronista, continua ad andare sul posto. Non per descrivere la verità del momento, ma per esaltare una verità molto più nobile e universale: la superiorità della pace sulla guerra.

Ci siamo incrociati a Kabul. Lui preparava un capitolo del suo libro, contro l’ intervento americano in Afghanistan. Ma già ruminava un altro capitolo, l’ultimo del suo libro, in cui rimprovera all’ India lo spirito bellicoso. Non ci si può fidare neppure della patria di Gandhi. Tiziano lo sapeva da un pezzo. Conosce bene l’estrema violenza della pacifica India. Non si è mai fatto illusioni. Ma non si può rassegnare. Anche perché l’India è, in assoluto, la vera alternativa alla Cina, nella sua intima essenza è l’ esatto contrario: e quindi Tiziano non la può abbandonare tanto facilmente. Anche se le lacrime che Jawaharlal Nehru avrebbe voluto asciugare continuano a sgorgare da un miliardo e più di occhi. E’ il suo rifugio. Dove altro potrebbe andare in Asia? Partendo prima di lui da Kabul, in segno di solidarietà (e di amicizia) gli ho lasciato il mio sacco a pelo, indispensabile in Afghanistan. Ho pensato che gli potrà servire anche nel ritiro a mezza costa sull’Himalaya indiana, dove trascorre lunghi periodi, e dove il suo energico pacifismo non corre il rischio di sbattere contro la brutale verità del momento. Di cui io continuo ad occuparmi.

La mia Asia. Dalla presentazione del libro. Longanesi Ed.

“Un indovino mi disse”. Risvolti di I e IV di copertina

Per coloro che me lo hanno chiesto, la bella pianta che ho fotografato dietro ai libri è Pachipodium lamerei, Fam. Pachipodiaceae, originaria (endemica) del Madagascar

 

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