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Gli Aragonesi a Napoli. La congiura dei Baroni (3)

di Paolo Mennuni

Per la puntata precedente, leggi qui

La congiura vera e propria
La congiura si sviluppa quindi, entro il biennio 1485-1486, nasce dalla resistenza dell’aristocrazia nei confronti del potere regio e contro la volontà di Ferrante – conosciuto anche come Ferdinando I – di ripristinare quel potere centralizzato che già aveva caratterizzato, in epoca federiciana, la “modernità” del regno di Sicilia.
I feudatari erano organizzati in grandi dinastie ramificate e consolidate da vincoli matrimoniali molto diffusi ed intricati che avevano finito per costituire un blocco coeso e difficile da smantellare.
Le grandi dinastie del regno erano soprattutto nove: Sanseverino, Caracciolo, Acquaviva, d’Aquino, Ruffo del Balzo, Piccolomini, Celano, Guevara e Senerchia. A questi si aggiunsero ben presto le baronie emergenti create da Ferrante: Petrucci e Coppola.
Giovanni d’Angiò, appena Ferrante salì al trono, fomentò una rivolta e, quando lo stesso Ferrante stava per aver la meglio in Calabria, i baroni prepararono la trappola presso Calvi nel 1462 e di cui abbiamo già accennato, quando Marino Marzano, attenta alla vita di Ferrante.
Da quel momento la contesa diventò una lotta senza quartiere e Ferrante, da allora, nutrì un sentimento di odio e di astio contro i baroni traditori. Ferrante cercherà poi di giustificare il tutto con dei processi, i cui verbali furono stampati e distribuiti ai vari ambasciatori perché, anche laddove il suo comportamento era stato molto stigmatizzato e criticato, si sapesse che aveva agito secondo giustizia.

L’obiettivo precipuo di Ferrante, come già riportato, era dissolvere il particolarismo feudale riconducendo le leve della vita del paese nelle mani del sovrano attraverso una sistematica demolizione del potere baronale e l’incremento delle attività economiche, attraverso lo sviluppo delle industrie e dei commerci e la promozione a classe dirigente dei mercanti e degli imprenditori.
Per fare ciò Ferrante mise mano ad una riforma fiscale che affidava nuovi compiti alle Università (oggi i comuni) incentivandole a sottrarsi alla feudalità e riconducendole nel demanio regio.

La classe baronale si avvaleva dell’appoggio incondizionato della Chiesa (gli Angioini erano stati sostenuti da Alessandro IV e Clemente IV) ai quali, per converso, la casata avevano concesso un potere tale per cui, chiunque avesse aspirato al trono di Napoli, avrebbe dovuto ottenere il benestare del papa, mentre il papa stesso aveva dei diritti ampi e diffusi sul regno di Napoli. Tagliacozzo, l’Aquila, Altamura erano quasi dei feudi ecclesiastici mentre, attraverso vescovi ed abati, Roma governava tutta la chiesa napoletana che godeva di grande autonomia rispetto al potere centrale. Napoli era un feudo della Chiesa e devolveva annualmente un “censo” al pontefice.

Gli artefici principali della congiura furono il conte di Sarno, Francesco Coppola, ed Antonello Petrucci, segretario del re, con i suoi figli Francesco, conte di Carìnola, Giovannantonio, conte di Policastro. Essi, benché rappresentanti di quel nuovo ordine che Ferrante intendeva anteporre alla vecchia nobiltà angioina, all’apice della loro personale potenza, fecero lega con i “vecchi” baroni: Antonello Sanseverino, principe di Salerno e ammiraglio del regno e Girolamo,  principe di Bisignano e Gran Camerlengo.
A questi si aggiunsero: Pirro del Balzo principe di Altamura e Gran Connestabile, il Gran Siniscalco, Pietro Guevara, marchese del Vasto, ed altri Sanseverino, compresa la contessa madre Giovanna ed altri ancora che non è il caso di ricordare.

La voce dei preparativi giunse al re che si adoperò nel rassicurarli quanto ai loro privilegi ma, nel contempo, inviò il figlio Giovanni, cardinale, dal papa Innocenzo VIII, perché si astenesse dal fomentare la ribellione. Seguì un periodo di accordi e di compromessi ingannevoli di cui approfittarono ambo le parti per prepararsi all’azione. I congiurati tentarono addirittura di rapire il re invitandolo ad un incontro dove il re stesso non intervenne e mandò in sua rappresentanza ancora il figlio cardinale, ma provvide anche ad inviare ambascerie presso i suoi alleati Lorenzo il Magnifico e Ludovico il Moro.

Il 26 settembre 1485, come già ricordato, i congiurati si riunirono nel castello di Miglionico fingendo di volersi riconciliare con il sovrano. Innalzarono le insegne papali a L’Aquila e a Salerno e, nell’attesa dell’arrivo da Roma di Roberto Sanseverino con le truppe pontificie, presero in ostaggio il figlio di Ferrante, Federico che si era recato per trattare.
Fu quindi guerra aperta all’interno ed all’esterno del regno.

Il duca di Calabria Alfonso, con l’ausilio di Virginio Orsini e le truppe inviate da Firenze e da Milano, intercettò il Sanseverino nei pressi di Acquapendente (battaglia di Montorio) costringendolo al ritiro. All’interno del regno invece vi furono una serie di scontri combattuti da Federico, che nel frattempo era riuscito a fuggire dalla prigionia, e dai fratelli Francesco, Cesare e Ferrandino, coadiuvati dai nobili rimasti fedeli al re.
In soccorso di Ferrante, contro le truppe inviate dal prefetto di Roma Giovanni Della Rovere, intervennero aiuti dalla Sicilia, inviati da Ferdinando il Cattolico, e dall’Ungheria inviati dal re Mattia Corvino, genero di Ferrante.

I congiurati, oltre che nel papa Innocenzo VIII, confidavano molto nel duca di Lorena, Renato II, che avrebbe dovuto riprendere quella corona per conto degli Angioini, ma il duca, visti gli esiti delle vicende belliche, si guardò bene dallo scendere a Napoli, per cui iniziarono le trattative reali tra rappresentanti del papa e del duca di Calabria e si convenne: ripristino del pagamento del censo alla Santa Sede, perdono dei ribelli che avessero giurato fedeltà e sottomissione al re, restituzione de l’Aquila al regno di Napoli, licenziamento del Sanseverino dal servizio del papa.

Prima però che la pace fosse ufficializzata Ferrante, col pretesto di celebrare le nozze della nipote Maria Piccolomini con il figlio del conte di Sarno, invitò al castello i nobili residenti a Napoli e fece arrestare Antonello Petrucci e lo stesso conte di Sarno con i figli proprio nelle sala delle feste, che d’allora è detta “sala dei Baroni” ed è la sede del Consiglio Comunale di Napoli; nella stessa occasione  furono arrestati i figli di Petrucci e altri dignitari, compreso Anello Arcamone ambasciatore del regno a Roma.

Poiché erano in corso le trattative con il papa, Ferrante dovette ricorrere ad uno stratagemma: non potendo accusarli di tradimento li accusò di cattiva amministrazione dei loro beni con conseguente danno per l’erario. Le loro case furono perquisite e tutte le ricchezze confiscate, ivi comprese le terre ed il bestiame. Petrucci, che quando era segretario al servizio del re aveva trescato con i ribelli comunicando gli spostamenti delle truppe regie, e Coppola furono subito mandati sotto processo, confessarono e rinunziarono alla difesa. Gli arresti continuarono poi fino al 1487 e quattro anni dopo molti di loro furono “ammazzerati” (1) ossia cuciti in sacchi di tela con grossi sassi e gettati in mare.

Lettera dell’ambasciatore ferrarese Battista Bendedei a Borso D’Este

“Carinola fu condotto sul luogo dell’esecuzione. Disteso sopra una carretta trascinata da una coppia di buoi, attraversò tutti i Sedili di Napoli per approdare a piazza del Mercato. Qui inginocchiato sul palco, dopo essersi confessato ed essersi doluto della sua sorte con gli astanti, il ministro di giustizia gli tagliò la gola. Per enfatizzare ulteriormente la colpa, il suo corpo fu squartato e posto fuori città nei crocevia delle quattro arterie principali. Il fratello Giovanni Antonio, conte di Policastro, raggiunse a piedi la piazza ed attese l’esecuzione senza profferire parola”.
[Da Camillo Porzio – Bibl. citata nelle precedenti puntate]

Conclusioni
La dinastia continuerà ancora per poco. Nel 1500 inizierà il periodo dei viceré. La dinastia, comunque, sarà forse una delle più significative sia dal punto di vista economico che da quello culturale e segnerà un vero passaggio dal Medio Evo verso quello che sarà poi il Rinascimento.
Alla corte napoletana confluiranno illustri umanisti come Lorenzo Valla, Antonio Beccadelli (il Panormita) ed emergono anche figure autoctone come Giovanni Pontano, Jacopo Sannazzaro ed altri. Si andò costituendo una biblioteca importante che sarà poi saccheggiata e distrutta dalla soldataglia francese al seguito di Carlo VIII di Valois.
Sotto Alfonso nasce l’Università di Catania.
Dopo l’arresto dei Baroni (13 agosto 1486) vengono giustiziati i Petrucci ed i Coppola, mentre morirono in carcere i Del Balzo, Giovanni Caracciolo ed altri. Molti, viceversa, saranno poi liberati con l’arrivo a Napoli di Carlo VIII nel 1495.
Intanto la dinastia si andava esaurendo.
Alfonso II succeduto al padre Ferrante nel 1494, l’anno successivo abdica a favore del figlio Ferrante II (Ferrandino) che è costretto ad abbandonare la città per l’arrivo de francesi. Tornato sul trono, con l’appoggio degli spagnoli guidati da Consalvo di Cordova, muore nl 1496 senza eredi e viene chiamato al trono addirittura lo zio Federico, figlio del Magnanimo e fratello di Ferrante I.
Nel 1500 Luigi XII di Francia e Ferdinando il Cattolico con l’appoggio del papa e sulla testa di Federico si spartiscono regno di Napoli.
Ha inizio il periodo più triste: quello dei Viceré.


Note

(1) – Ammazzerati. Nel dialetto napoletano e torrese: màzzera, parte dello ’ngegno, la zavorra pendente (l’attrezzo usato nella pesca del corallo – leggi qui). A Ponza si chiamano mazzariell’ quei sassi lisci da 500 gr  fino a 1 kg circa che si trovano sulle spiagge di ghiaia e si usano come zavorra, per le reti e per vari altri impieghi.

Scene di vita dei pescatori e dei corallari. L’attrezzo che si sta tirando da mare è ’u ’ngegn’, una pesante croce di legno e ferro cui sono attaccati brandelli di rete, che veniva trascinata sul fondo e a cui rimanevano impigliati i coralli

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