Storia

Gli Aragonesi a Napoli. La congiura dei Baroni (2)

di Paolo Mennuni

Per la puntata precedente, leggi qui

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Ecco come il Porzio descrive “la tensione sociale” che si respirava a Napoli durante il regno di Ferdinando I (anche detto Ferrante) (1).
“I re di Napoli, mentre non possederono altri Stati, in sì basso luogo e sì disprezzabile sederono, che non solo a’ potenti esterni, ma ad ogni loro Barone diedero animo a macchinare lor contra e di scacciargli. Di qui nacquero le spesse infedeltà dei soggetti, le assidue guerre, le grandi varie lor mutazioni: e, quel ch’è più da maravigliare molte fiate essi medesimi, sdegnando la lor miseria e stimolati da cupidità di aver forze uguali al nome, si procacciarono co’ loro Baroni delle molestie e de’ pericoli, come dalla presente congiura si potrà notare: la qual fu di sì grave e pernicioso momento al reame, che lo riempì d’innumerabili calamità; e gli animi degli abitatori discordò in siffatta maniera, che, non che i vassalli dai padroni, ma l’un fratello dall’altro, i figli da’ padri, le mogli da’ mariti dissentirono: le amicizie, le parentele ed i giuramenti, già santissimi vincoli dell’umana società, furono ottimi ministri a gl’inganni ed ai tradimenti: la pace versò più sangue della guerra: l’imbecillità (2) del sesso o dell’età sospinse gli uomini a crudeltà, non a compassione: e per recare in uno tutte le miserie di quel tempo, fu sì acerba questa dissenzione, che non meno a’ percossi che a’ percussori apportò terrore e spavento; perciocché gli uni affliggeva la sofferenza del male, gli altri il timore della vendetta premeva”.

[Dal “Proemio” di Camillo Porzio (op. cit.)] 

Busto di Ferdinando I di Napoli XV secolo. Marmo dipinto. Museo del Louvre

La classe emergente: la “borghesia “loricata”
Un nuovo ceto, una nuova classe dirigente, che si differenziava dal vecchio ceppo baronale, premeva ed era insofferente dei limiti angusti in cui doveva giocoforza operare.

Le origini del baronaggio napoletano erano essenzialmente militari e risalenti agli Angioini che avevano concesso ad avventurieri e diseredati i feudi, creati da Carlo I, quale ricompensa per l’ausilio prestato nella conquista del regno: battaglie di Benevento (1266) e di Tagliacozzo (1268). I Sanseverino avevano già prima organizzato bande armate in Basilicata e Calabria contro gli Svevi, e le avevano conservate anche successivamente sotto gli Angioini; i Del Balzo erano di origine francese; i Caracciolo erano giunti al potere con l’ultima regina della stirpe Angioina, Giovanna II.
Questi signori, ed altri, poco avevano a che fare con le capacità organizzative e il dinamismo imprenditoriale richiesti dai nuovi regnanti per lo sviluppo del territorio, perché al massimo erano stati grandi produttori e grandi commercianti di grano come il principe Giovanni Antonio Orsini del Balzo, principe di Taranto, i cui possedimenti erano così vasti che si poteva vantare di viaggiare da Taranto a Napoli senza mai uscire dai propri possedimenti.

In effetti, dei 1.500 comuni (Università) che costellavano il regno, soltanto un centinaio appartenevano al demanio regio ed erano, quindi, contribuenti diretti del re; gli altri pagavano diritti e gabelle ai feudatari i quali, a loro volta, devolvevano una quota al sovrano.

Il nuovo ceto, oltre ad una maggiore libertà d’azione, esigeva anche un accesso al prestigio della nobiltà. Gli storici hanno definito questa nuova forma di “nobiltà” come la “borghesia loricata” perché voleva inserirsi nella vecchia nobiltà che aveva, come abbiamo visto, origini militari.
Ecco che, in Basilicata, emerge il conte di Matera Giovan Carlo Tramontano, a Napoli i più rappresentativi saranno Antonello Petrucci e Francesco Coppola; di cui il primo sarà addirittura segretario del re, meritandosi il titolo di Conte per sé e per i figli, mentre il secondo sarà conte di Sarno e socio in affari con il re stesso. Gli interessi del conte di Sarno erano molto estesi: possedeva una flotta ed una truppa armata, sfruttava miniere di allume a Ischia e di piombo a Longobucco in Calabria, era titolare di un saponificio a Napoli e di un’isola corallifera sulle coste della Tunisia.

Qualità del re Ferdinando I e del Duca Di Calabria (da Camillo Porzio)
“Li quali avvenimenti in parte dimostrar volendo, dico che, correndo gli anni del Signore 1480, nel regno di Napoli signoreggiava Ferdinando di Aragona il vecchio, e di quel nome primo, uomo di animo stimato alquanto crudele, ma delle arti della pace e della guerra istruitissimo: ed avvegnaché per prudenza, felicità e grandezza delle cose operate fosse a’ passati re di Napoli non pur uguale ma superiore, nondimeno aveva Alfonso suo primogenito duca di Calabria, detto per soprannome il Guercio, che sé vivente poco men che il tutto maneggiava; ed essendo giovane feroce e di natura all’armi inclinato, di niuna cosa dimostrava esser più vago che di accendere guerre in diverse parti dell’Italia; mediante le quali avesse occasione di acquistar fama, gloria e Stati.
E siccome in quelle prosperando, tuttavia s’innalzava a desiderar maggiori cose, così per avventura perdendo, nel voler ammendare l’avuto danno si struggeva, di modo che né vinto, né vincitore sapeva riposare; anzi per meglio stare apparecchiato, in ciascun tempo nudriva grande moltitudine di soldati, e nel mare ancora sosteneva non piccola armata. Queste speranze e questi provvedimenti erano cagione che i soggetti che l’avevano a mantenere, l’odiassero, ed i principi vicini, che temevano sentirli, ne prendessero sospetto e guardia; e tutti insiememente desiavano che altri il travagliasse, acciocché loro non potesse nuocere”.

I prodromi della congiura
I prodromi della congiura non tardano a rendersi manifesti.
A questo punto giova ricordare l’atteggiamento di Pio II al momento dell’ascesa al trono di Ferrante e quanto riportato dal Porzio a proposito del clima politico nel regno.

Ricordiamo poi che Alfonso V d’Aragona detto il Magnanimo (divenuto Alfonso I re di Napoli), di tutti i suoi possedimenti lascia a Ferdinando I (Ferrante) solo il regno di Napoli, sminuendo così l’autorità del figlio. Subito dopo l’ascesa al trono nel 1458, Ferrante affronta i “baroni” coalizzati contro di lui, e ad un primo scontro armato, a Sarno nel 1460, esce battuto. Si rifarà due anni dopo, vincendo sul campo a Troia, nel 1462.

A questo punto si verifica un episodio, increscioso ma significativo, che spiegherà, ed in parte giustificherà anche, il comportamento di Ferrante nei confronti dei nobili napoletani. Dopo la sconfitta di Troia i baroni gli tendono una trappola a Calvi  (BN) dove convocano il re per un eventuale accordo ma, mentre il sovrano ha la parola, sopraggiunge Marino Marzano, marito di Eleonora sorella di Ferrante, con due sicari per ucciderlo. Ha luogo una colluttazione dove Ferrante riesce a tener testa all’agguato fino all’arrivo della guardia del corpo che lo mette in salvo.
Da quel momento, oltre a vendicarsi eliminando gli avversari di volta in volta e privandoli dei loro beni, si convince, inoltre, che dei “baroni” non c’è da fidarsi.

La congiura vera e propria si materializzerà effettivamente nel 1485 in occasione di un incontro fra nobili a Melfi per le nozze di Tristano Caracciolo con una Sanseverino. Tra i presenti non c’è unanimità per cui ci sarà, a breve, un ulteriore incontro a Miglionico nel castello di Girolamo Sanseverino, denominato in seguito “Castello del Malconsiglio”.

Castello di Miglionico (MA) detto del Malconsiglio. Di Girolamo Sanseverino

Antonello Sanseverino, principe di Salerno e Grande Ammiraglio del regno, capeggia la ribellione ma non ha le idee molto chiare, né una visione ampia e generale della situazione e, quando viene scoperto, fugge in Francia per salvarsi e per convincere Carlo VIII a scendere in Italia per rivendicare i suoi diritti sul regno di Napoli.
In questa circostanza Alfonso, duca di Calabria e figlio di Ferrante, è pronto a sostenere con le armi le rivendicazioni paterne nei confronti dei baroni.

La posizione dei baroni, in questa fase, risulta molto indebolita militarmente per una riforma del 1464 che aveva soppresso le milizie baronali; per questo i baroni si rivolgono a papa Innocenzo VIII, il cui comandante dell’esercito è, tra l’altro un Sanseverino, Roberto, investito di tale carica proprio nel 1485, anno dell’inizio della congiura nel castello di Miglionico.

Il papa non è sordo all’appello dei baroni anche perché ritiene Ferrante inadempiente nei suoi confronti in quanto rifiuta di corrispondere il canone annuo di 8.000 ducati d’oro, tradizione istituita da Carlo I d’Angiò.
La somma veniva consegnata al papa, come vedremo, nel corso di una cerimonia molto fastosa detta della “Chinea”, nello stesso tempo, il re rivendicava i suoi diritti su Terracina e Pontecorvo, enclavi pontificie.

L’omaggio della “chinea”
L’omaggio della “Chinea” era l’offerta che il re di Napoli faceva annualmente al Papa, sotto forma di censo. La cerimonia si svolgeva in maniera molto spettacolare il giorno dei SS. Pietro e Paolo patroni dell’Urbe.
L’usanza risaliva a Carlo I d’Angiò che, come compenso a papa Clemente IV che gli aveva consentito di impadronirsi del regno di Manfredi, promise di devolvere a favore della Chiesa annualmente 8.000 once d’oro, promessa poi contestata dagli eredi.

Giovanni Pannini (1746): “Carlo di Borbone rende l’omaggio della chinea”. Napoli Muse di Capodimonte

La cerimonia consisteva nella consegna del canone in piazza San Giovanni in Laterano al papa assiso su di un trono da parte di una giumenta storna (3) che gli si andava a genuflettere dinanzi.

Tale forma di vassallaggio che si prolungò nel tempo con cambiamenti di modalità e importi fino al regno dei Borbone. In alcuni periodi fu addirittura annullato a seconda degli umori politici. Comunque tutti gli stati cristiani pagavano un censo allo Stato pontificio, almeno fino alle ribellioni di Enrico VIII e di Martin Lutero.
Il termine chinea” discende invece dal francese medioevale equinée o eqquinée che significava cavalla che cammina di “ambio” (4), essa poteva essere una cavalla o un mula purché di mantello candido.

Napoli. Castelnuovo (già Maschio Angioino)

Note

(1) – Ferdinando Trastámara dAragona, del ramo di Napoli, noto semplicemente come Ferrante e chiamato dai contemporanei anche don Ferrando o Ferrando vecchio (Valencia, 1424 – Napoli, 1494), unico figlio maschio, illegittimo, di Alfonso I di Napoli, fu re di Napoli dal 1458 al 1494.

(2) – Imbecillità: arcaico, per debolezza.

(3) – Giumenta storna. Stórno agg. [da storno, per la somiglianza col colore dell’uccello] – Cavallo dal mantello s., o cavallo s. (anche grigio storno), in cui i peli neri predominano, e quelli bianchi sono sparsi a gruppi per il corpo a guisa di piccole macchie, in modo da dare al mantello l’aspetto delle penne dello storno (dal vocabolario dell’Enciclopedia Treccani]. I cavalli, per il  colore del mantello, hanno denominazioni fantasiose. Distinti come semplici (monocromatici), composti (a due colori separati; a due colori mescolati; a tre colori mescolati) e a due pelami: a componente bianca. Denominazioni come “baio”, “morello”, “sauro”, “roano”, “isabella”, palomino… Trattazione più completa su Wikipedia.

(4) L’ambio è un’andatura tipica di alcuni quadrupedi, quali l’elefante, il dromedario, la giraffa, l’orso. Utilizzando una apposita imbracatura, può esservi addestrato anche il cavallo. Nell’ambio il cavallo, Ovvero il cavallo, anziché muoversi per bipedi diagonali come nel trotto, si muove per bipedi laterali, cioè muove contemporaneamente l’anteriore e il posteriore destro, e successivamente l’anteriore e posteriore sinistro.


[La congiura dei Baroni (2) – Continua]

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