Usi e Costumi

L’angolo di Lianella/23. La vita

di Amelia Ciarnella

La vita è una cosa difficile da definire, però in parole povere è lo spazio che intercorre fra la nascita e la morte. In mezzo c’è l’essere umano, con tutte le sue caratteristiche, che sono l’insieme dei pregi, difetti, aspirazioni, desideri, passioni e altro. Diverse da persona a persona. Come pure il lasso di tempo disponibile. Ognuno ha il suo. Poiché non sappiamo quanto tempo vivremo. Quindi ogni individuo prende la vita alla sua maniera, secondo la quantità di intelletto che possiede.

Una simpatica canzone recita: “La vita è bella e la devi goder, se non hai nulla non hai pure pensier, al chiar di luna si può sempre sognar, tutto ciò che si vuole, c’è un raggio di sole, per farci scaldar, e s’è amaro il destino un bicchiere di vino, fa tutto scordar”.

A detta di questa canzone la vita è bella se la prendi come viene. Ma secondo me, la vita è anche come te la fai, come la vuoi e come la gestisci. Se la gestisci bene, potrai raggiungere i tuoi obbiettivi e avere le soddisfazioni che desideri. Ovviamente devi essere anche pronto ad affrontare lavoro, studio e sacrificio. Poiché solo studiando con grande volontà, costanza e determinazione, riuscirai a realizzare tutto quello che ti sei prefissato.

Ad esempio, mio nonno paterno, fin da giovanissimo aveva la passione per i cavalli, ma non avendo nessuna disponibilità economica, andò a lavorare in America a soli 17 anni, pur di poterne acquistare un paio. La prima volta vi rimase un solo anno perché non sopportava il clima freddo gelido americano e la neve che c’era a quei tempi. Vi tornò a breve scadenza altre quattro volte, sempre per i cavalli. La quinta volta però si fermò. Aveva visto passare sulla strada del paese mia nonna appena sedicenne, insieme a suo fratello, e ne era rimasto affascinato. Si sposarono dopo pochissimo tempo. A quei tempi non esistevano fidanzamenti. Ci si poteva parlare e conoscere bene solo dopo il matrimonio. E per chi era fortunato andava bene.

Mio nonno lo fu. In breve mise su un piccolo generi alimentari, un servizio taxi con la carrozzella e uno col carro funebre. Lavoro che esercitò per una ventina d’anni. Però quella sua passione per i cavalli non lo abbandonò mai e, se avesse potuto, avrebbe dedicato tutta la sua vita ai cavalli. Ma la vita a volte ti fa cambiare programma e itinerario, a causa dei vari problemi che si presentano inaspettati. Per cui dovette mettere in secondo piano la sua passione per i cavalli, anche se gli rimase sempre nel cuore.

Anche suo figlio, mio padre, aveva una grande passione, ma soltanto per la musica. La studiò da autodidatta e di nascosto di suo padre che non voleva, perché desiderava facesse il carrettiere come lui. Con tutto ciò, mio padre si faceva arrivare le dispense e senza nessuna lezione da parte di alcun maestro, imparò la teoria a menadito, dopo di che acquistò una cornetta e si esercitò con quella, nella casa che avevano comprato da poco tempo, ma dove ancora non vi abitavano. Si perfezionò così bene e da solo, da entrare a far parte della banda musicale del paese, diventando dopo breve tempo anche solista.

Queste sono le vere passioni e ognuno gestisce la sua vita secondo la sua grande volontà, determinazione e caparbietà.

C’era invece un ragazzo del mio paese che si comportò normalmente fino a che ebbe sua madre vivente. Morta però sua madre, si diede a vivere alla giornata e a prendere la vita come viene. Come recita appunto la suddetta canzone. (… e se è amaro il destino un bicchiere di vino fa tutto scordar..!). E quel povero ragazzo, rimasto completamente solo, andava in giro per il paese sempre con un fiasco di vino in mano e, quando era abbondantemente brillo, si metteva a ballare a modo suo, tanto da sembrare sempre allegro. O forse quel bicchiere di vino, gli dava l’impressione di esserlo veramente. Chissà. Che pena mi faceva poverino!

Poi c’era in paese un’altra categoria di persone, che possiamo chiamare un residuo invisibile (le ianare), che cercavano di rompere la monotonia delle giornate, impegnandosi nei soliti riti delle streghe per ricordare i tempi in cui erano famose.

Mia nonna mi raccontava che ai suoi tempi era molto diffusa la stregoneria e, sebbene il periodo della caccia alle streghe fosse ormai tramontato da un pezzo, nei piccoli paesi come il mio c’era ancora qualche testa matta che si dedicava a questa strana attività, magari come secondo lavoro, così, tanto per distrarsi un poco e dare qualche nota diversa alla vita di allora.

Proprio una di queste, faceva la fornaia in uno dei 4 forni del paese, svolgendo di giorno il lavoro onesto di fornaia, mentre la notte si divertiva a fare la ianara insieme ad altre strane donne come lei. Quasi ogni sera, finito il suo lavoro di fornaia, salutava il padrone del forno e tornava a casa sua, ma dopo alcune ore, quando tutti gli abitanti del paese dormivano tranquilli nelle loro case, la nostra ianara tornava nello stesso forno dove lavorava per presiedere a delle strane riunioni che si protraevano fino a notte inoltrata.

In quel periodo la luce elettrica non c’era e per illuminare sia case che botteghe, forni e bettole varie, ci si serviva unicamente della lucerna, poiché di olio se ne produceva molto e tutti lo avevano, mentre le candele si dovevano comprare e i soldi erano quasi inesistenti. Ora avvenne che a causa di queste interminabili riunioni delle ianare, di olio se ne consumasse talmente tanto da fare insospettire il padrone del forno che, sebbene non dicesse nulla, si lambiccava il cervello per capire e scoprire il motivo di questo eccessivo consumo di olio. E una sera lo scoprì.

Rincasando verso le 2 di notte, essendosi intrattenuto più del necessario a giocare a carte con gli amici, mentre passava davanti al suo forno, vide filtrare la luce attraverso la fessura della porta. Credendo che la fornaia avesse dimenticato qualche lucerna accesa, si avvicinò per guardare meglio dal buco della serratura e in un attimo capì perché nel suo forno si consumasse tanto olio. Infatti vide nell’interno otto ianare sconosciute e scapigliate, fra le quali riconobbe la sua fornaia, che stavano preparando uno strano rito col forno illuminato a giorno da una trentina di lucerne, disseminate in ogni angolo dell’ambiente. E, più per un suo divertimento personale che per punirle dell’eccessivo consumo di olio, pensò di fare loro uno scherzo che avrebbero ricordato per tutta la vita.

Rientrò quindi in casa, prese un lenzuolo bianco facendoci sopra tre buchi: due per gli occhi e uno per la bocca, poi lo indossò legandoselo bene al collo per non farselo scivolare per terra e, preso il mattarello con il quale sua moglie stendeva la sfoglia, andò a bussare così conciato alla porta del suo forno.

Gli fu subito aperto perché le ianare credettero fosse qualche loro compagna che arrivava in ritardo, ma appena si videro davanti quella specie di fantasma cominciarono a chiedere chi fosse minacciando di chiamare lo stregone di un paese vicino che lo avrebbe fatto morire all’istante se non avesse rivelato subito il suo nome.

Intanto il padrone del forno, senza dire una parola per non farsi riconoscere dal timbro della voce, chiuse la porta e cominciò a dare randellate a destra e a manca senza nessuna pietà. Le ianare scappavano da ogni parte cercando di evitare il mattarello, ma l’ambiente era piuttosto ristretto e loro erano troppe per quello spazio, per cui il fantasma dove picchiava picchiava ne prendeva sempre qualcuna. E non ci fu scampo per nessuna di loro.

Cosicché dopo averle suonate ben bene tutte e otto, le lasciò mezze tramortite sul pavimento del forno e se ne tornò a casa sua contento e soddisfatto, convinto oltretutto che quelle ianare da quella notte in poi, avrebbero fatto qualunque altro mestiere, ma non quello delle ianare. Poi raccontò a sua moglie tutto ciò che era successo nel forno, raccomandandole di non dire niente a nessuno per timore di qualche denuncia per tentato omicidio. Ma le ianare, anche se mezze morte (ma nessuna morì), per la vergogna di essere scoperte, o per timore di prendere anche il resto da altri, non denunciarono nulla e rimasero zitte.

In compenso la moglie del “fantasma” mantenne talmente bene il segreto che non passò nemmeno una settimana che già tutto il paese fu al corrente dell’accaduto! E fra le risate e la soddisfazione generale, finirono così le ultime ianare del mio paese.

In definitiva questa è la vita. Chi se la crea in un modo e chi se la svolge in un altro, alla fine si arriva sempre al solito traguardo che è purtroppo la morte.

L’immagine di copertina: Ricordi del giardino di Etten – olio su tela di Vincent Van Gogh – 1888

***

Appendice dell’11 aprile 2022 (cfr. Commento di Sandro Russo)

Due poesie di Wislawa Szymborska

La breve vita dei nostri antenati

Non arri­va­vano in molti fino a trent’anni.
La vec­chiaia era un pri­vi­le­gio di alberi e pie­tre.
L’infanzia durava quanto quella dei cuc­cioli di lupo.
Biso­gnava sbri­garsi, fare in tempo a vivere
prima che tra­mon­tasse il sole,
prima che cadesse la neve.

Le geni­trici tre­di­cenni,
i cer­ca­tori quat­trenni di nidi tra i giun­chi,
i capi­cac­cia ven­tenni –
un attimo prima non c’erano, già non ci sono più.
I capi dell’infinito si uni­vano in fretta.
Le fat­tuc­chiere bia­sci­ca­vano esor­ci­smi
con ancora tutti i denti della gio­vi­nezza.
Il figlio si faceva uomo sotto gli occhi del padre.
Il nipote nasceva sotto l’occhiata del nonno.

E del resto essi non con­ta­vano gli anni.
Con­ta­vano reti, pen­tole, capanni, asce.
Il tempo, così pro­digo con una qua­lun­que stella del cielo,
ten­deva loro una mano quasi vuota
e la ritraeva in fretta, come pen­tito.
ancora un passo, ancora due
lungo il fiume scin­til­lante
che dall’oscurità nasce e nell’oscurità scompare.

Non c’era un attimo da per­dere,
domande da rin­viare e illu­mi­na­zioni tar­dive,
se non le si erano avute per tempo.
La sag­gezza non poteva aspet­tare i capelli bian­chi.
Doveva vedere con chia­rezza, prima che fosse chiaro,
e udire ogni voce, prima che risonasse.

Il bene e il male –
ne sape­vano poco, ma tutto:
quando il male trionfa, il bene si cela;
quando il bene si mostra, il male si acquatta.
Nes­suno dei due si lascia vin­cere
o allon­ta­nare a una distanza defi­ni­tiva.
Ecco il per­ché di una gioia sem­pre tinta dal ter­rore,
d’una dispe­ra­zione mai disgiunta dalla spe­ranza.
La vita, per quanto lunga, sarà sem­pre breve.
Troppo breve per aggiun­gere qualcosa.

È possibile uscire vivi dalla vecchiaia?

È possibile uscire vivi dalla vecchiaia?
Poi mi guardo allo specchio
e vedo papà e mamma
che abitano il mio volto
disputandoselo.
Allora non ve ne siete ancora andati!,
penso, vedendo che fanno capolino
sulla mia faccia, giocando
tra le linee del viso.
A nascondino, quindi…
E forse si divertono
cercandosi tra loro,
io solo, escluso, a fare da teatro
per questi amanti morti che mi usano
come lo spazio, morto, del loro corteggiarsi.
Servo a qualcosa, almeno,
se i miei amati fantasmi
si dànno appuntamento
tra i miei occhi,
naso, fronte, mascella,
per tornare ad amarsi.

 

1 Comment

1 Comment

  1. Sandro Russo

    11 Aprile 2022 at 22:00

    Ho incontrato per caso queste due poesie di Wislawa Szymborska (poetessa polacca (1923-2012), Nobel per la letteratura nel 1996) sulla vita e sulle generazioni e ho pensato che stavano bene a commento degli scritti di Lianella.
    Ecco:
    – La breve vita dei nostri antenati
    – È possibile uscire vivi dalla vecchiaia?

    Allegate all’articolo di base

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