Racconti

Due fari spenti

di Francesco De Luca

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Quando si diventa soltanto un corpo pesante, quando è difficile girarlo sul fianco, impegnativo sollevargli il capo, e quando per spostarlo da una posizione all’ altra viene il panico per non irritare le piaghe da decubito, e le sofferenze sono acute. E inespresse. Nel viso si muovono rughe di dolore, solo dolore, semplicemente accennato. Dalla voce non viene nulla se non un flebile, monotono: “Ahi”. Niente più.
Allora si tocca il fondo abietto dell’umanità. Di essa non c’è rimasta che la tristezza.

Da Silverio, che prima era una miriade di espressioni, in entrata e in uscita, nell’agire e nel reagire, non viene che un pietoso: “Ahi”.

Nemmeno gli occhi, i due fari che danno e prendono luce, che introiettano e proiettano, nemmeno da loro passa un sussulto. Fosse pure rapido. Stanno lì, fissi sopra una realtà corporea, oggetto di cura, di premura, tesa a che qualcosa spiri da quell’animo in patimento, e da qual corpo che giace, consumandosi.

Dov’è l’allegria del viso di quando ci si avvicinava, e lui, riconoscendoti, assumeva l’aria di padrone di casa. Dell’ orto era davvero signore: il filare delle cipolle, quello dell’aglio, ai confini i carciofi e poi… qui le fave, appena nate, lì i broccoletti rigogliosi… in verità non rigogliosi quanto lui volesse… perché… chist’anno ‘nn’ha chiuvuto tanto… Era la sua dannazione… la poca acqua.

Ma quest’anno… quest’anno è piovuto in modo esagerato… Ma lui non l’ha visto. Imprigionato sul letto, e in quello stato, la pioggia e i tuoni e il vento che stridono alle finestre e il mare che ruglia alle coste… nulla di tutto questo è stato percepito.
Non sei più tu che vivi, sono gli altri che ti ritengono tale e ti circondano di affetto.
Una vita. Quella di un individuo brilla per quello che egli realizza, in risposta al progetto che l’animava. Poi ci sono i meriti sociali, quelli che il gruppo in cui sei inserito, ti riconosce.

La vita ha un valore di per sé. Perché? Perché, nell’oscuro, cieco caos, la vita è l’affermazione di una possibilità. Lo ha rivelato lei stessa, evolvendosi talmente che ha palesato a sé la sua coscienza.
Ha un senso soffermarsi su questo? Beh, sì, altrimenti non avrebbe campo la Storia, e invece la avvolgiamo ognora di riflessione per vederne i nessi, i progetti, le trame.
All’interno di questa gigantesca macchina noi incastoniamo la minuscola tessera della vita di un singolo. Ha importanza quella singola tessera?
Non riusciamo a vedere la figurazione nella sua interezza, per quanto ci si sforzi, ma ne intuiamo gli incastri mirabili delle singole particelle nel grande complesso degli avvenimenti.

La singola luce di una coscienza individuale quale brillore potrà mai avere?
Lo si può scorgere negli occhi. Ogni singolo individuo ha occhi che dicono della sua intelligenza e del suo sentimento. Della sua produttività e della sua partecipazione. Non sempre. È vero, non sempre. In alcuni uomini gli occhi nascondono. Talora anche l’ambizione. Non c’è atteggiamento altero in loro, non altezzosità. C’è una coperta, subdola umiltà. Sanno di non essere scaltri e nemmeno forti. Si mostrano più disarmanti di quello che sono, perché quelle qualità li fanno privilegiare. Intorno hanno compagni pavidi, che delegano con leggerezza l’impegno, giacché si sentono protetti se chi li rappresenta nasconde, come loro, le debolezze. Gli occhi, i loro occhi non sono espressivi, debbono reprimere l’ambizione che cova sotto le pieghe della falsa mitezza.

Quanti ce ne sono di questi, intorno, e vicino.
Silverio no, Silverio parlava con gli occhi. Anche in questa ultima fase della vita. Esprimevano soltanto tristezza. Per l’impossibilità di muoversi, di manifestare la sua vitalità.
Nella Storia non ne rimarrà traccia. Nemmeno nella storia locale rimarrà il suo attaccamento al vigneto, ai cani coi quali amava perdere tempo, familiarizzando con loro più che non scendendo in piazza a sparlare con gli amici, mostrando fintamente interesse per le vicende politiche, per i pettegolezzi pruriginosi, per le malevolenze verso i compaesani.

Di lui rimarranno i sentimenti. Quelli che non si nascondono dietro le finte competenze e le adulazioni. Schietto, per natura, e perciò schivo. Non attratto dai sotterfugi dei compaesani, troppo stretti nel lembo di terra dell’isola, e invidiosi l’uno dell’altro.
Hanno poca vita i sentimenti in questo paese. Possono durare una generazione, non più. Sono espressi con rispetto, con partecipazione. Una lacrima, e poi la crudezza della vita si impone di nuovo.
Silverio guarda il cielo. Si sta incupendo. Dicembre anche a Ponza è avaro di sole e tende a chiudersi dietro nuvole di grigio. Il cane si libera della carezza del padrone e si rifugia nella cuccia. Prevede l’acquazzone. L’uomo atteggia il viso alla rassegnazione. Cadrà la pioggia e la terra prenderà quello che verrà. Verrà quello che nessuna volontà stabilisce. Noi fatti cose, in un imperioso, fantasmagorico divenire.

 

 

 

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