Racconti

Chi abbatte un albero è un mio nemico

di Tano Pirrone

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Sono nato sotto un albero di arance, un bello e folto arancio piantato da mio nonno a Passaneto, lungo le prime pendici degli Iblei, che stanche di storia portano verso la Vizzini di Verga, la Buccheri dell’acqua dello scifitto e delle niviere, la Noto del Barocco, la Palazzolo greca dal teatro vivo come allora, la Ragusa industre.

L’albero ai cui piedi sono stato trovato nel calendimaggio del ’43 e subito sottratto alle vandaliche torme alemanne in ritirata, tampinate dalle capitalistiche orde liberatrici guidate dai mafiosi di ritorno e da un prete esule liberalissimamente indottrinato, quell’albero piantato da mio nonno Tano e poi innestato da mio padre Ciccio a specie diverse di agrume (limone, mandarino) o ad alcune più note varietà di arance, comunemente coltivate nel territorio.
Un ramo quindi era stato innestato a tarocco, uno a whashington, uno a biondo, e poi ancora a moro, ovale calabrese: sette grandi rami di quest’arancio piantato negli anni dieci del secolo scorso, che fioriva al tempo suo con zagare diverse, per forma, per colore e per profumo e di maturazione diversa, dai precoci moro e whashington ai tardivi sanguinello e calabrese. Insomma un albero, come dicono quelli che sanno parlare, che si potrebbe definire multitasking un albero, come dicono quelli che hanno studiato, quattropuntozero!, pur sempre una meraviglia, per stupire bambini e forestieri, ma privato della sua essenza produttiva; del suo scopo di rendere sopravvivenza.
Stava ben piantato proprio davanti alla costruzione bassa, eretta attorno al pozzo, profondo e largo, dove un vecchio motore sempre degli anni 10 del novecento, un Diesel da 11 Hp, un oggetto perfettamente funzionante e bello come una scultura, tirava, in estate l’acqua dall’oscura profondità e la riversava attraverso tubazioni mobili e saie nelle casedde, dando linfa e ristoro agli alberi sempreverdi.

Nacqui sotto quell’albero che mio nonno Tano aveva piantato e che mio padre Ciccio aveva trasformato in un multicolore campionario di agrumi, forse (non me ne parlò mai, per gli antichi irrisolti pudori), per un omaggio al padre, di cui lui non aveva che poche ombre di ricordo, essendo morto giovane: proprio in quel luogo un fulmine gli era caduto vicino e lo aveva atterrito, dando inizio ad un veloce declino. Morirà poco dopo, stroncato da quel fulmine, appena in tempo perché le sue radici cominciassero a far fluire linfa vitale e dare principio a nuove vite.

Figlio di alberi e d’acqua, acqua fresca di pozzo, buona per bere, per lavarsi la faccia e le mani, acqua fresca e abbondante per saziare le arsure degli alberi e nutrire le piccole arancette verdi, portandole, poi, verso l’inverno; i primi freddi le avrebbero portate alla completa maturazione.
Se chiudo gli occhi e mi spengo mi ritrovo sotto uno dei fratelli lì attorno, dei fratelli alberi, a raccogliere, qua e là un’arancia matura, dalla buccia liscia, profumatissima, che strappata con geniale abilità con le mani lasciava i grossi spicchi pronti al sacrificio; gli spicchi aperti lasciavano vedere senza pudore brillanti vescicole filiformi, colorate e succose. La tavolozza dei pigmenti era poi degna di un pittore o di una scuola pittorica, esagerando! Il profumo delle bucce permaneva nelle mani per ore e ore ed era filo dorato che mi legava all’albero anche se ne ero ormai lontano.

Figlio di alberi ed acqua, l’acqua conservata fresca nelle quartare e tenuta vicina nei bummuli, che se costruiti a dovere insaporivano l’acqua col ricordo della terra di cui erano fatte, cotte al fuoco di legna aromatica, di carrubbo, di partuallo e di alivo. Ci si beveva, togliendo il piccolo tappo laterale in cima alla curva rotonda e facendo cadere il rivolo in bocca. Il giorno che da bambino ci riuscii, senza sprecare acqua, senza bagnarmi e senza mettere la bocca attaccata, quel giorno cominciai a diventare grande, feci un passo avanti nella mia vita, smisi di essere solo bambino, piccididdu, e diventai carusu, picciutteddu, meritandomi l’appellativo di signurinu che la donna di casa, la leggendaria donna Paola, da lì a poco, appena ‘mpinnatu, mi affibbiò (titolo doveroso, nelle case borghesi del tempo).

Figlio di alberi ed acqua, figlio di colline e di spiriti degli antichi. Per questo, forse, mi girano le budella, mi s’antrucciunianu, perché non sopporto chi distrugge le piante: chi taglia e butta, chi mette cemento dove deve starci la terra e i ciottoli; chi sega e brucia, chi pianta e poi se ne fotte… fosse per me metterei le stesse pene che sono per legge previste per i reati contro le persone, anche per chi nuoce agli animali e alle piante, e alla terra e alle acque.

Maledetti, voi sparate nell’utero materno, maledicendo di fatto il vostro essere umano. Siete morti che camminano e non lo sapete, vigliacche carcasse di vampiri.

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