Scrittori

Paul Auster, “Pandemia, guerre, diseguaglianze: l’uomo è così stupido…”

proposto dalla Redazione

 .

Un articolo su un grande scrittore americano – di cui ho molto amato Trilogia di New York (1987), Moon Palace, 1989), Mr. Vertigo, 1994; e al cinema (da sceneggiatore e/o regista Smoke,  (1995), Blue in the Face (1995), Lulu on the Bridge (1998), per citare solo alcuni titoli -, che mi sentirei di condividere alla prima all’ultima parola.
S. R.

Paul Auster in New York City nel 2008

CULTURA L’intervista
Paul Auster “America mia non sai chiedere scusa”

dal corrispondente di Repubblica da New York, Paolo Mastrolilli

– Nel suo ultimo libro, lo scrittore racconta la storia di Stephen Crane morto a soli 28 anni ma capace di influenzare grandi come Hemingway E dice: “Pandemia, guerre, diseguaglianze: l’uomo è così stupido…”
– Ho letto le sue opere senza più fermarmi Aveva un realismo poetico che andava contro il suo tempo
– Abbiamo creato una nazione fondata sulla schiavitù, e non c’è mai stata un’ammissione ufficiale di questo Non è più possibile un intreccio tra giornali e letteratura
– Quell’epoca è finita con la rete

NEW YORK – Mai sentito parlare di Stephen Crane? Allora sei il lettore perfetto di Burning Boy, il nuovo libro in cui Paul Auster finge di raccontare vita e opere dell’autore del Segno rosso del coraggio, ma in realtà lo adopera per un bilancio spirituale che potrebbe essere riassunto con questa frase: «L’esperimento umano è destinato a fallire, per la nostra stupidità».

Perché ha scritto 738 pagine sulla vita di un autore morto di tubercolosi a 28 anni nel 1900?
«Avevo finito il mio romanzo 4321 ed ero esausto. Per riprendermi ho iniziato libri che mi ripromettevo di leggere da una vita. Ho aperto Crane e non sono più riuscito a fermarmi: un realismo poetico che andava contro il suo tempo, brillante. La risposta americana a Keats e Shelley, Schubert e Mozart. Perciò ho deciso di scrivere di lui.
Pensavo 200 pagine, ma sono arrivato a 740, e sarei potuto andare avanti all’infinito».

Lei scrive che “The Third Violet” è il primo romanzo postmoderno.
«I personaggi sono consci di essere dentro una storia. Il libro è tutto dialogo, niente introspezione. Nulla spiega come si sentano, ma ascoltiamo solo quello che dicono, spesso in maniera confusa, frasi rotte. È la prima sceneggiatura di un film e Crane la terminò a poche settimane dal giorno in cui i fratelli Lumière proiettarono il primo film a Parigi. C’era qualcosa nell’aria. E lui, che aveva solo 23 o 24 anni, l’aveva percepita anche dall’altra parte dell’oceano».

Come ha cambiato la letteratura americana?
«Per niente. Non l’ha cambiata perché nessuno lo ha letto: dimenticato. Perciò ne ho scritto».

Il “Segno rosso del coraggio” invece fu un successo planetario. Cosa lo rendeva un capolavoro?
«Nessuno aveva scritto di guerra come Crane. Smantella le convenzioni del romanzo del Diciannovesimo secolo, elimina tutto ciò che non considera importante e va all’essenziale. Non sai perché combattono, il nome del conflitto, chi sono i personaggi. È la Guerra Civile, ma non vengono mai nominate la schiavitù o Lincoln. Tutto si concentra solo sull’esperienza fenomenologica del protagonista, un ragazzo soldato».

Un poveretto, che marcia come un sonnambulo verso la carneficina. Come la generazione di Crane, verso le due guerre mondiali.
«Lui non le avrebbe viste, ma da giornalista andò a raccontare la Guerra greco-turca e quella ispano-americana, che le anticiparono. L’Europa era inzuppata di sangue, mille anni di stragi, e aveva costruito questo complicato sistema di alleanze per evitare di esplodere ancora. Ma tutto crollò con l’assassinio dell’arciduca Ferdinando, e le grandi potenze si scontrarono su scala globale senza neanche sapere bene il perché».

Lei sostiene che la guerra a Cuba segna l’inizio del secolo americano. Crane, seguendola da giornalista, se ne accorge?
«No. Credeva che gli Usa non avessero ambizioni territoriali, e intervenissero solo per salvare i cubani dall’oppressione del colonialismo spagnolo. Era un ingenuo. Però odiava l’imperialismo britannico, e se avesse capito che l’America andava nella stessa direzione si sarebbe ribellato».

Adesso stiamo ripetendo lo stesso errore? Tra sovranismi e populismi, marciamo come sonnambuli verso la catastrofe?
«Noi commettiamo sempre lo stesso errore, perché viviamo nel presente e non riusciamo a guardare al futuro. Pensate a come stiamo gestendo male il Covid: ci sarebbe soluzioni intelligenti, ma le evitiamo, e dopo due anni muoiono ancora milioni di persone. Oppure il riscaldamento globale. Rischiamo l’estinzione del genere umano, ma non facciamo nulla. E sapete cosa succederà? La Terra andrà avanti senza di noi. I più illuminati avvertono che stiamo distruggendo il pianeta. Non è così: stiamo distruggendo noi stessi. Una volta che non ci saremo più l’inquinamento sparirà, le foreste ricresceranno, gli animali torneranno. La Terra si rigenererà, perché non ha alcun bisogno di noi. L’esperimento umano fallirà perché siamo così stupidi. Non abbiamo mai imparato a cooperare: vogliamo solo ucciderci a vicenda, per una ragione o l’altra. Questa è la spiegazione teologica o filosofica del fenomeno, ma se volete possiamo discutere i dettagli».

Prego.
«Possiamo parlare della politica americana, ungherese, polacca, filippina, cinese, brasiliana, ma la tendenza è la stessa, evidente. Ci allontaniamo dalla democrazia perché si sta rompendo il sistema. La gente è frustrata, arrabbiata, disperata e confusa. In questi momenti i leader autoritari appaiono molto eccitanti, perché non vogliamo prenderci le responsabilità, e cerchiamo un uomo forte che risolva i problemi. È il nostro grande errore, ma continuiamo a ripeterlo.
Abbiamo avuto Hitler, Stalin, Mussolini, Franco: non so se torneremo a quel punto, però potremmo. Non ne sarei sorpreso. Per fortuna io non sarò qui a vederlo, ma sembra nell’aria».

Crane scrive della Guerra Civile, ma non cita la schiavitù: è cosciente dei problemi razziali?
«Sì. Lo dimostra Monster, scritto nel 1897, gli anni in cui la Corte Suprema aveva istituzionalizzato la segregazione nel nostro paese. Un periodo di razzismo orribile. I neri erano esclusi da tutto in America, non solo nel Sud, ma anche al Nord».

Ora le cose sono cambiate?
«Un po’, ma non molto. Essenzialmente è la stessa cosa. La ragione è che come paese non abbiamo mai avuto il coraggio di riconoscere cosa hanno fatto i bianchi.
Abbiamo creato una nazione fondata sulla schiavitù, e non c’è mai stata un’ammissione ufficiale di questo. Odio comparare lo schiavismo al nazismo, ma i tedeschi almeno hanno cercato di fare ammenda per i delitti terribili commessi negli anni ‘30 e ‘40. Gli americani no, mai. Sventoliamo le bandiere confederate e discutiamo ancora sulle statue di politici e generali sudisti.
Immaginate di andare in Germania, e trovare svastiche o statue di Hitler in piazza.
Chiedete il perché, e vi rispondono così: sono parte della nostra storia, dobbiamo esserne orgogliosi. No, no, no! Gli americani non dovrebbero essere orgogliosi di schiavisti che per quattro anni hanno spaccato il paese a metà, insanguinandolo. Il Sud ha perso sui campi di battaglia, ma ha vinto nei tribunali, legalizzando la segregazione. E poi nelle menti degli americani, dove la propaganda ha instillato la nostalgia per i bei tempi andati, la lotta per la causa persa, e quei personaggi romantici dei soldati confederati. Basta guardare Via col Vento , uno dei film più popolari, che fa vomitare. O Birth of a Nation di Griffith (Nascita di una nazione), che racconta a nascita del Ku Klux Klan, ma Wilson permise di girarlo alla Casa Bianca.
No, non ci siamo mai pentiti. E perciò non siamo redenti. Non siamo capaci di rimediare ai danni orribili che abbiamo fatto, e li perpetuiamo. Non abbiamo mai detto una parola sul genocidio degli indigeni di questo continente. Li abbiamo massacrati, massacrati e poi massacrati. Ci siamo presi la terra, dicendo che era legittimamente nostra. E non si tratta solo dell’America, perché tutto ciò è venuto dall’Europa. Siamo saliti sulle navi e andati alla conquista. Perché noi siamo cristiani, bianchi, superiori, e possiamo fare come vogliamo. Conquistare l’Africa? E perché no? L’Asia, il Sudamerica? Perché no?».

Crane va con le prostitute, si rovina la reputazione per difenderne una in tribunale, e muore tra le braccia della tenutaria di un bordello. Sopravviverebbe nell’era del #MeToo?
«Era timido, rispettoso, non ha mai abusato delle donne. Ha sposato Cora perché la riteneva superiore a se stesso. Le prostitute erano ovunque a New York, ma era colpa della pudicizia vittoriana. Potevi andare a letto con una donna solo se eri sposato, tutto il resto era scandalo. Perciò gli uomini giovani, quelli di mezza età, tutti gli uomini, andavano con le prostitute. Trafficare in carne era un lavoro come un altro. Crane non puntava il dito. Era affascinato dalle vite disgraziate, dal dolore spirituale di come la povertà schiacciava la gente. Capiva che se eri una ragazza di Tenderloin, il quartiere più malfamato di New York, avevi sono due scelte: schiattare in una fabbrica clandestina per qualche penny, e vedere la tua vita scivolare via, oppure battere in strada per guadagnarti una vita migliore, correndo pericoli e soffrendo la denigrazione della società ipocrita che consentiva tutto questo. Crane era affascinato dai caduti, i poveri, i puniti. La guerra, il pericolo fisico, la gente che correva rischi. I suoi personaggi sono sempre in condizioni estreme, perciò lo considero uno scrittore esistenzialista. Però riusciva a raccontare tutto questo senza porsi al centro dell’attenzione, come accade invece agli scrittori dove l’ego si mette di mezzo».

A chi si riferisce?
«Hemingway, che aveva imparato tutto da Crane. Sua madre conosceva Stephen e leggeva i suoi libri per bambini al piccolo Ernest. Crane amava cacciare, pescare, cavalcare. È stato corrispondente di guerra.
Ma faceva tutto questo con riservatezza, per il suo interesse. Hemingway invece lo faceva per vantarsi. Per affermare il suo ego mascolino, che sentiva sempre minacciato.
Crane invece era sicuro di sé, e non doveva fingere di essere macho».

È cambiato qualcosa con la prostituzione?
«No, a parte la forma esteriore. Non per niente la chiamano la professione più antica del mondo».

Lei scrive che l’angoscia è all’origine dell’opera di Crane. Crede sia una condizione necessaria per l’arte?
«Sì, lo credo. L’angoscia o la sofferenza, di qualche genere. Tarkovskij dice che gli uomini creano l’arte perché la vita è imperfetta. Mi riconosco in questa frase. La gente perfettamente felice, ammesso che esista, non sente il bisogno di fare arte.
Invece quando capisci i tuoi conflitti, ma anche le ingiustizie del mondo, ti senti obbligato ad esplorarle. E scriverne. La vita umana si basa sui conflitti. Sarebbe curioso pubblicare una storia di personaggi buoni, bravi e tutti felici, e vedere se qualcuno avrebbe voglia di leggerla».

Parlando di “Blue Hotel”, lei dice che dovremmo tutti sentirci responsabili per gli altri.
«Non abbiamo mai imparato questa lezione, mai. Crane dice che il momento più bello della sua vita è quello raccontato nella “Open Boat”, quando naufraga e si trova con tre sopravvissuti sopra una scialuppa a fronteggiare la morte, perché percepisce la fratellanza di persone che si preoccupano degli altri come di loro stesse. Che poi è la cosa più vicina all’amore, ossia la più grande che possano fare gli umani. La piena realizzazione delle nostre potenzialità su questa terra. Ma come dice Crane, anche ogni peccato è sempre il risultato di una collaborazione, e questa è la frase più importante che abbia scritto sull’etica umana».

Il giornalismo era stato fondamentale per lui, per guadagnare soldi e trovare ispirazione. È ancora possibile questo intreccio fra giornali e letteratura?
«No, è finito. E ci sono motivi veri, affascinanti. Lui viveva nell’età dell’oro della stampa: niente radio, film, tv, internet. Solo a New York c’erano 37 quotidiani, 18 in inglese e 19 in altre lingue.
Le opportunità per gli scrittori erano vaste, perché bisognava riempire gli spazi.
Articoli di cronaca, racconti, poesie, sketch al confine con la fiction. Crane faceva New Journalism prima che i suoi inventori nascessero. Ora è finita. Le pubblicazioni diminuiscono e internet, con tutta la sua abbondanza, non riesce rimpiazzarle.
Contiene un sacco di informazioni, vere o false, ma è raro trovarci qualcosa davvero ben scritto. Non è ancora un posto per la vera scrittura».

Da La Repubblica – Cultura, del 9 dicembre 2021

1 Comment

1 Comment

  1. vincenzo

    10 Dicembre 2021 at 11:18

    Come non essere d’accordo con Paul Auster. Gli Usa non hanno interesse di fare i conti con le proprie colpe che sono tante e sono mondiali.
    Ma una super-potenza è questo: tramuta una sconfitta in vittoria e crea continuità pedagogica per una cultura dominante.

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