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Da qualche giorno Teresa Fabbri guarda Ponza da lassù ma, fino a quando ha potuto, ci è tornata ogni estate, prima per ritrovare gli zii materni e gli amici di un’allegra comitiva – lo ha ricordato Luisa Guarino in Commenti – poi da moglie e madre, infine da nonna, affinché i rapporti con l’isola non si estinguessero.
Luisa l’ha dipinta alla perfezione: minuta e agile, capace di perfette evoluzioni ginniche, sorriso schietto, occhi strizzati e le lentiggini.
Da bambina e da ragazza Teresa viveva a Intra, presso gli zii Fabbri, e tornava a Ponza per le vacanze, da Candida e Vincenzo Bosso, fratelli della madre.
Per gran parte dell’anno era brescianamente Tèrèsa, con le “e” ben aperte e strascicate (Tèèèrèèèsa); da giugno a settembre era Térésa o Tere’, alla ponzese.
Il passaggio dalla versione nordica a quella ponzese non è scontato né immediato.
Zia Esterina e zi’ Monaca abitano a metà della scalinata della Dragonara, a pochi gradoni di distanza dalla casa in cui Teresa alloggia; Esterina è la vedova di uno zio, zi’ Monaca è sua sorella, si chiama Amalia, è “monaca di casa” cioè nubile, sobria nell’abbigliamento e nel comportamento, religiosa, dedita interamente alla famiglia e alla preghiera. Le due sorelle hanno tenuto per tanti anni una merceria nella contrada dei Galano, proprio di fronte alla casa di Rosa Galano.
Zia Esterina e zi’ Monaca tengono da parte il pane che avanza e lo danno alla nipote Candida, che alleva qualche gallina. D’estate tocca a Teresa, ospite di Candida, passare a prendere il pane.
Teresa si ferma sull’uscio della porta delle zie, sempre aperto; con la sua bella voce squillante e roca, l’inconfondibile accento bresciano, si annuncia:
“Buongiorno, permesso, si può?”
Se non riceve risposta:
“Buongiorno, sono Tèrèsa, è permesso? Disturbo? Si può?”
Dopo aver preso il pane: “Allora grazie, scusate il disturbo, buona giornata, arrivederci.”
Zi’ Monaca scuote la testa: “Ma quanto è esagerata, questa Tèèèrèèèsa! Buongiorno, grazie, prego, permesso… tutto questo, per un poco di pane secco da dare alle galline?”
Quando è successo, non lo so. Erano già tempi in cui il pane avanzava. Erano tempi in cui Esterina aveva smesso di tenere qualche gallina nel cortiletto dietro casa.
Nel 1960 Esterina, già anziana, arrivava sino a via Corridoio per portare l’uovo fresco – il cocco – alla prima e, sino ad allora, unica nipotina; la quale l’aveva perciò battezzata Nonna Cocco.
La nipotina dai riflessi pavloviani sono io.
Di Rita Bosso, in condivisione con www.calafelci.com