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1945

 Recensione di Tano Pirrone

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Ha scritto Patrizia Maccotta in redazione: – Ho visto l’altro giorno (il 24 genn. – NdR) su RAI storia, 1945, film ungherese molto suggestivo. Dovreste, voi cinefili, scrivere un commento!

1945, film di Ferenc Török, del 2017

Dopo l’annientamento delle comunità russe e polacche, nei primi mesi del 1944 vivevano in Ungheria circa 750.000 ebrei. Era allora la comunità ebraica più numerosa. Il 19 marzo, temendo che gli ungheresi si sganciassero unilateralmente dal conflitto, Hitler ordinò l’occupazione del Paese. Subito iniziò la deportazione degli ebrei. A gestirla, in fretta e con efficacia, uno specialista della materia: Adolf Eichmann, che si avvalse del suo team di fidati, capaci ed efficienti collaboratori.

Il primo treno blindato per Auschwitz partì il 28 aprile 1944 dal campo di Kistarcsa, vicino Budapest, con 1800 ebrei. Tra il 15 maggio e l’8 luglio, in totale furono “conferiti” circa 438.000 ebrei ungheresi. È difficile stabilire quanti di questi furono condotti a Birkenau, e quanti in altri campi del Reich.

Pochi mesi dopo, le truppe sovietiche conquistarono le zone in cui si trovavano i campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka, campi che i tedeschi avevano smantellato nel 1943, e che furono liberati nell’agosto del 1944: erano rimasti in ognuno di essi pochissimi superstiti, poche decine per ogni campo. Ad Auschwitz, nel gennaio del 1945, i soldati russi trovarono ancora vivi alcune migliaia di prigionieri emaciati e sofferenti. A testimonianza degli assenti, nei magazzini centinaia di migliaia di indumenti maschili, più di 6 tonnellate di capelli e più di 800 mila vestiti da donna.

Il bel film di Török, che abbiamo appena visto su RaiPlay, 1945 (titolo secco, ma altamente esaustivo) si svolge in Ungheria, in un piccolo centro rurale, non molto lontano da Budapest. È l’agosto del 1945. È trascorso circa un anno dalla liberazione dei campi di Belzec, Sobibor e Treblinka e poco più di sei mesi da quella di Auschwitz. Nella stazioncina a poca distanza dal centro rurale arriva un treno da cui scendono due persone, vestite di scuro, un uomo anziano, visibilmente ebreo, ed un giovane. Dalla carrozza bagagliaio del treno vengono scaricate due casse, munite di etichetta di fragile e con il disegno di una coppa che ricorda a chi maneggia di non rovesciare il bagaglio. Incaricato dell’operazione è un contadino del posto, che accompagnato e aiutato dal figlio, trasporterà, con un carro trainato da un magro cavallo, le due casse al cimitero israelitico del borgo, testimonianza della presenza fino a poco tempo prima di una comunità ebraica. L’ebreo anziano ed il giovane seguiranno il carro a piedi.

Il film procede come meglio non potrebbe in un bianco e nero lucido, trasparente, adeguato al racconto. Il ritmo è lento e l’occhio della macchina da presa (mdp) ha tutto il tempo di annotare gli ambienti, gli umori, le tensioni.

La voce di questo arrivo corre veloce e tutti entrano in agitazione. La guerra è ancora vicina e alcuni eventi accaduti nel recente passato obbligano alla sorveglianza, al controllo e al sospetto. Si crea allarme nella piccola comunità magiara, guidata da un “notaio” comunale, benestante e mafiosetto, che esercita il potere e l’arricchimento personale come se fossimo a Regalpetra, nelle steppe nissene. I rapporti all’interno della comunità sono quelli di ogni racconto: tutti i personaggi che devono esserci ci sono: il capostazione che fa la spia, il poliziotto che fa la guardia personale del notaio mafiosetto, il figlio di costui tritato dal padre e ridotto a burattino, la moglie ancora piacente, ma distrutta dal dispotismo del signor marito-notaio-padrepadrone, l’oste che si fa i fatti suoi, il prete farcito come un salame ungherese, una forzata promessa sposa, le donne avide perché pensano a crescere la “roba”. C’è anche una piccola guarnigione composta da tre soldati russi, che girano in tondo e sembrano un cappello lasciato sul sedile per occupare il posto: l’Ungheria è ormai liberata dal nazismo (anche se ospita ancora al suo interno uno delle peggiore repliche regionali del nazismo, il partito delle cosiddette Croci Frecciate), ma la Russia ha già pronto, sin da Yalta, il suo futuro. Di peggio in peggio, fino al peggio odierno.

“Tremate, tremate gli ebrei son tornati”, sembra risuonare nell’aria calda, che si prepara alla pioggia: partirono sui camion nazisti o delle Croci Ferrate e partendo lasciarono beni, di cui in parecchi si appropriarono, soprattutto il notaio. Furono prelevati per espressa denuncia di un uomo istigato dal notaio.

Ora tornano… perché? Vorranno tutto indietro? I drammi esplodono e la comunità implode, nello spazio di poche ore: il figlio del notaio se ne va abbandonando la sposa a poche ore dal matrimonio. La mancata sposa dà fuoco per rabbia alla drogheria che il notaio aveva “sfilato” all’amico ebreo e affidato al figlio. L’uomo che aveva denunciato gli ebrei sarà l’unico a pagare per la sua colpa, impiccandosi per vergogna in un piccolo capanno, nel cortile della “sua” casa.

Il corteo, intanto, procede lentamente, il carro con su le casse, il conducente e suo figlio a cassetta, e dietro a piedi, con antichissima dignità, i due ebrei. Giunti al piccolo cimitero israelita, viene scavata una fossa e vi si seppelliscono oggetti personali, indumenti di bimbi, giocattoli, libri e poco più, dopo averli avvolti con cura in due tallìt (le sciarpe rituali ebraiche): «…quello che rimane dei nostri cari».

Il notaio e i suoi protetti rassicurati (i beni tolti agli amici ebrei potranno rimanere a loro) tirano un respiro di sollievo. Noi accompagniamo il vecchio e il giovane fino al treno diretto a Budapest. Nella carrozza trovano il figlio del notaio: il giovane legge tranquillo un grosso libro che ha portato con sé. Anche per Török, dunque, saranno i libri a salvarci…

Il giovane ebreo, mentre scavava la fossa, dando il cambio all’altro giovane, figlio del proprietario del carro, mostra casualmente l’avambraccio sinistro in cui è tatuato il numero di matricola.
Questo tipo di identificazione era, dal 22 febbraio 1943, una caratteristica esclusiva di Auschwitz: negli altri campi si stampigliavano i numeri di matricola sull’infima divisa. Di questo giovane, non conosciamo il rapporto con l’anziano compagno di viaggio, ma sappiamo, che era stato internato ad Auschwitz presumibilmente nella primavera dell’anno precedente (1944) e che ne era uscito nel gennaio del 1945. Lo sappiamo dai dati storici, che ci hanno aiutato a ricostruire il filo della storia ed il suo senso.

È una storia di colpe, di popoli e di singole persone, raccontata con lentezza e con l’aiuto del bianco e nero e della mdp che spessissimo ha un ostacolo fra sé e la scena. Come a volerne prendere le distanze, per raccontarla, se non con distacco, almeno con rispetto. Ognuno, colto nella sua opera e nella sua storia, fino alla rassicurazione che il nuovo ordine non sarà turbato, lascia che i tre giusti lascino il borgo in treno, questa volta da liberi, e vadano incontro ad una vita degna di questo nome.

Complimenti a Török per aver utilizzato al meglio il materiale che sta all’origine del film, il racconto di Gábor T. Szántó, che ha curato anche, insieme al regista, la sceneggiatura; e complimenti per aver osato occuparsi in modo così chiaro e netto di un periodo storico e di azioni miserabili, che si preferirebbe seppellire nell’oblio. Soprattutto nell’Ungheria di Orban e della sua “democrazia illiberale”.

1945
Regia: Ferenc Torok, Ungheria, 2017, 91′
Soggetto: Gábor T. Szántó
Sceneggiatura: Gábor T. Szántó, Ferenc Török
Fotografia: Elemér Ragályi
Montaggio: Bela Barsi
Musica: Tibor Szemzo
Cast: Jozsef Szarvas, Eszter Nagy-Kalozy, Dóra Sztarenki, Bence Tasnádi, Ági Szirtes, Péter Rudolf, Tamás Szabó Kimmel
Produzione: Katapult Film
Distribuzione: Mariposa Cinematografica e barz and hippo

Appendice (Cfr. commento di Patrizia Maccotta)

“Le Scarpe sulla riva del Danubio” sono un memoriale dell’Olocausto, opera del regista Can Togay, realizzato insieme allo scultore Gyula Pauer. L’installazione artistica è collocata sul lungo Danubio di Budapest ed è stata inaugurata il 16 aprile 2005 nella Giornata ungherese della Memoria per il 60º anniversario della Shoah.

2 Comments

2 Comments

  1. Patrizia Maccotta

    27 Gennaio 2021 at 16:31

    Grazie Tano. È quello che mi aspettavo da chi è appassionato e studioso di cinema.
    Sì… il prete come un salame ungherese.
    Sì… il notaio degno di una delle storie di Sciascia.
    I due ebrei senza parole. Quali parole potrebbero tradurre quello che hanno vissuto?
    Colpevoli tutti nel villaggio, come lo furono l’Europa e lo Stato del Vaticano.
    E vedendo le piccole scarpe dei bambini, avvolte nel sacro tessuto, come non pensare all’installazione lungo il Danubio, a Budapest, che mette in fila centinaia di scarpe – riprodotte in bronzo -, di donne, uomini e bambini buttati legati a gruppi nel fiume dai militari nazisti?
    Ancora grazie Tano.

    N.B. – L’istallazione cui Patrizia si riferisce e è riportata in immagine in calce all’articolo di base a cura della Redazione

  2. Tano Pirrone

    27 Gennaio 2021 at 17:20

    I due uomini si lavano – quasi una funzione religiosa. Poi si avviano verso l’uscita del cimitero. La macchina da presa li inquadra attraverso il cancello di ferro a riquadri con al centro la stella di David. Dall’altra parte del cancello, fuori da picco quasi abbandonato cimitero stanno gli abitanti del villaggio, alcuni a curiosare, altri, interessati a rendersi conto di cosa sta accadendo. Alla testa del gruppo di gente il notaio. Sulla soglia del cimitero, il funzionario li ferma e apostrofa l’ebreo anziano:
    Notaio: Buon giorno signori, sono il notaio comunale. Qual è il motivo della vostra visita qui?
    Ebreo: Per una sepoltura.
    Notaio: Solo per questo?
    Ebreo: Soltanto per questo.
    Notaio: Chi avete sepolto?
    Ebreo: Quello che resta dei nostri cari.

    E quello che restava erano oggetti, cari oggetti ormai senza valore d’uso: scarpette da bambino, un candelabro ebraico, rotoli della Torah, libri, giocattoli…

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