Ambiente e Natura

Figlio del mare, un racconto di Natale

di Francesco De Luca

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Confido che il tempo a disposizione, in casa, sia propizio alla lettura.
Un raccontino ambientato in un’isola che permette al cuore e alla mente di trovare appagamento.
Un Augurio, il mio, ai lettori di Ponza-racconta.

Gustav Klimt – particolare di “Le tre età della donna”
(olio su tela del 1905)

Figlio del mare

Per la prima volta lo chiamò così: figlio del mare, quella mattina che la maestra le telefonò a casa. “Ma come… non è venuto? E dove sarà?” – furono le disperate parole di Angelina. Lo aveva mandato a scuola, Gennarino, ma non vi era arrivato. Come confermava la maestra. Anch’ella allarmata da quanto riferito da Clodina, la compagna di banco di Gennarino. Partiti da casa, si erano trovati sulla strada per la scuola. All’incrocio col viottolo che conduce giù alle Piscine, Gennarino aveva salutato la compagna e s’era diretto verso il mare. Clodina a scuola aveva riferito il fatto alla maestra. Che si impensierì. Conosceva Gennarino. Impetuoso, istintivo, niente affatto riflessivo. E poi senza padre, con la sola regola della madre Angelina. Premurosa e attenta verso quel figlio, intollerante ai comandi. Ubbidiente per quel che voleva lui. Se una cosa gli andava a genio, va bene, se no, non c’erano minacce e castighi. La maestra lo sapeva e insieme alla madre Angelina, cercavano di mettere rigore a quel carattere indipendente. Quinta elementare. Erano cinque anni che le due donne avevano stretto un patto di solidarietà per trarre da Gennarino comportamenti più confacenti. Intelligenza pronta, attenzione viva, Gennarino dava soddisfazione a chi seminava in lui i germi di un convincimento, di una passione. Dai compagni era benvoluto, un po’ tenuto lontano perché voleva sempre comandare.

Mae’… – disse Angelina, giunta trafelata a scuola – mi spiace  darvi questi pensieri. Adesso mi metto in cerca. Comme aggia fa’… è figlio d’u mare”. Disse proprio così Angelina. Per la prima volta si lasciò andare ad un giudizio intimo su Gennarino.

Era risaputo da tutti, Gennarino era figlio di ignoto. Angelina l’aveva concepito non sposata. Per quel figlio aveva lasciato la famiglia sulla Piana e aveva affittato una casetta a Cala Feola. Era incappata in quella gravidanza ma non l’aveva biasimata no, anzi. Se ne era servita per affermare in faccia a tutta la comunità che lei sapeva badare a se stessa. Con chi l’avesse concepito nessuno lo sapeva. C’erano state voci con Peppino, un giovane  con cui non c’era stato vero fidanzamento ma… i due si erano frequentati. Le voci però furono subito smentite perché Peppino quando si seppe del fatto si raffreddò con lei e i due non si frequentarono più. Avrebbero potuto convivere benissimo. Lui lavorava con la sua barca, ‘U canzirro, e portava i turisti da Cala dell’Acqua a Palmarola. D’inverno si dava da fare con la pesca. Insomma era in grado di tenere una famiglia. Anche perché dietro la Chiesa possedeva la casa dei genitori. E poi Angelina nei mesi estivi lavorava nel ristorante ‘U zarrese. Le condizioni per mettere su famiglia c’erano.

Libero Magnoni – Meriggio a Cala Feola

Ma questa trama così semplice e conseguenziale non fu seguita. Angelina lasciò i genitori e si tenne il figlio da sola.

Le chiacchiere fluirono come acqua dal cielo ma nessuno poté accertare chi fosse il padre. Anche don Armando, il parroco, si caricò moralmente del fatto. Angelina, l’aveva vista crescere. Aggraziata, devota, assegnata, insieme alle altre ragazze nelle pratiche religiose, assidua ai sacramenti. La confessione e la comunione in tutte le ricorrenze importanti, perché aveva alle spalle una famiglia timorata di Dio. D’improvviso quel figlio. Don Armando cercò di sapere per aiutarla. Anche lui era dell’isola. Dove tutti si vogliono bene ma superficialmente. Dove il nascosto è più di quello che appare. Tutto cordiale, affratellato, amicale e invece sotto cova il rancore, l’invidia, il pettegolezzo. Troppo chiuso il confine del sociale. Senza valvola di sfogo. L’isola è chiusa in sé. Si apre, ma per forzatura esterna, soltanto in estate. I turisti si intromettono nelle case, nei negozi, prendono possesso delle cale, noleggiano le barche, occupano i locali, sciamano per le strade. Vogliono sapere, si intrufolano nei rapporti familiari, chiedono ai parenti, sconvolgono le proprietà, mettono becco nei sentimenti.

In estate la pentola viene scoperchiata, le coperte sollevate, le lenzuola messe a spandere, fra le case circola il vento, si introduce dalle porte, esce dalle finestre, si ferma sui poggi, si graffia sui fichidindia, si placa sugli scogli a mare. Il paese si mostra trasparente ed evidenzia le connessioni intime, quelle nascoste e segrete.

E’ l’isola del secolo ventunesimo. Sballottata fra l’inverno rattrappito socialmente, biecamente rivolto sul proprio ventre. Gonfio per gli introiti estivi e in difficoltà di digestione. Un introito soggetto ai capricci del caso, arraffato con eccessiva disinvoltura e con sudata fatica. Impossibilitato ad essere programmato, e perciò incerto. E dunque causa di malumore.

Inverno rancoroso ed estate intasata di rapporti, contratti, affari, guadagni, sentimenti.
Un’isola lacerata nella sua carne sociale.

Angelina al mare andava a Cala dell’Acqua, con le amiche: Rosa, Carmelina, Silvana, compagne di scuola. Le elementari alla Cavatella, e pure le Medie, poi le Superiori a Scarfisso. Erano diventate signorine insieme. Sotto gli occhi dei compaesani: Ponzesi e Fornesi. No, si è tutti Ponzesi! Anche se la distinzione ancora era sottolineata, specie a casa, dai genitori di lei. Ma ormai gli sposalizi fra i giovani del Porto e quelli di Le Forna erano comuni. Anzi, a dir la verità, le giovani di Le Forna preferivano la compagnia dei ragazzi del Porto.

Lei lo aveva notato nelle sue amiche. Il sabato andavano al pub ‘U beccafico, fino a tardi. Lei no. Perché Peppino aveva cominciato a gironzolarle intorno dalle Superiori, e così non aveva alimentato amicizie fuori dalla sua cerchia. Era sempre stata tranquilla, lei. L’adolescenza non l’aveva vissuta come una tempesta. Gli studi l’avevano guidata, le letture pure, le amicizie pure, e le fantasie non l’avevano stravolta.

Al mare, giù a Cala dell’Acqua. Preferiva lasciare la piana bianca a pelo d’acqua, dove fervono gli approdi, e portarsi sotto forte Papa. Acqua limpida, resa più cristallina dal giallo delle rocce intorno e sotto. La costa va giù compatta, qua e là qualche masso caduto. Il fondo discende, non tanto, sino alle macchie di posidonia. Lei si manteneva a pochi metri, gettava solo lo sguardo al fondo blu. I pesci che incontrava e il paesaggio composito la accompagnavano nel nuoto. Arrivata proprio sotto punta Papa si portò all’asciutto. Davanti le passavano le barchette, più distanti i panfili, e sullo sfondo la sagoma di Palmarola.

Da sola si sentiva libera. Non doveva rispondere alle sollecitazioni delle amiche. La mente si intorbidiva dietro al sole che irradiava inesorabile. La portava lontana dall’isola, dai caseggiati di Le Forma, dai sorrisi degli amici. In altri luoghi, con altre compagnie, per altri incontri. Gli occhi chiusi, il corpo al sole cocente, i piedi a sciacquo al ritmo delle onde. Sentì un tocco sulla spalla, aprì gli occhi, e un giovane la guardava ammirato. “Cosa fai al sole… vieni in acqua” – le disse. Angelina, assonnata, turbata, frastornata, si alzò, prendendo la mano del giovane. Lo seguì tentennante al mare. Il giovane, dopo poche bracciate, raggiunse uno scoglio. Anche lei, come rapita. Il sole quel giorno troneggiò nel cielo come un assillo allungando la sua permanenza indefinitamente.

Nancy Lytle – Il mare di Ponza

Quando tornò a Cala dell’Acqua s’avvide che era tardi. Delle amiche nessuna. La donna degli ombrelloni già aveva consumato il pasto, e capì che era molto più tardi di quanto immaginasse.

La sua roba non stava dove l’aveva lasciata. Dovette chiamare Marilù, la signora degli ombrelloni, e quella gliela indicò, dicendo che l’aveva messa da parte in attesa che qualcuno la richiedesse. Era proprio tardi.

A casa infatti i suoi avevano pranzato, sbandita la tavola, e andati a riposare. Era pomeriggio inoltrato.

Angelina da un piatto trasse tre forchettate di peperoni, inzuppò nel sugo un pezzo di pane, bevve un bicchiere d’acqua e si adagiò sul letto. Per la controra. Voleva essere avvolta dal sonno per trovare sollievo, ma gli occhi non si chiudevano, e l’animo era agitato. No, agitato no, era mosso da sensazioni mai provate. Era come se fosse tornata da un viaggio in terre lontane. Quelle che la televisione mostra copiose. Dove i luoghi sono attraversati da strani fenomeni. Terribili a dirsi ma piacevoli a vedersi. Fenomeni dove gli uomini sono in balìa degli elementi. Dove non c’è il dominio dell’uomo ma della natura che irrompe con forza e si placa, che toglie ogni ragione e suscita sentimento.

Quando si alzò le luci della sera illuminavano le strade. Andò sulla Chiesa ove incontrò gli amici. C’era anche Peppino.

Tutto le sembrava scontato. Era tempo perso. Perso? Ma come? In quelle chiacchiere fuori al bar si dava corpo alla loro vita futura. Ognuno se la figurava a suo piacere. “No… io appena me sposo me ne vaco a Formia. C’aggia fa’ d’ a staggiona. Mamma mia me mette a fatica’ ind’ i case e io ‘a vacanza nun ‘a faccio maie. Che ce vaco a ottobre?”  – mugugnava Rosa.

“Sì, a Formia –  si intromise Betta – E’ come stare a Ponza. Tutti sanno di tutti. Nooo… meglio Latina…”
“Sì  – interloquì Silverio – a Latina tuo padre non ci verrà mai. Senza ‘u ciardeniello suie, ‘u faie murì”.

La sera li avvolgeva. Leggera perché senza un refolo di vento. Nemmeno buia perché la luna sembrava voler gareggiare nell’evidenziare il biancore delle case. Chiacchiere, risate, parole in libertà, sorrisi, espressioni del sentire giovanile: sereno e gioviale.

Angelina ascoltava, non partecipava, quel futuro non era il suo. Perché lei non voleva futuro. Troppo lontano, oscuro. Aveva trascorso gli anni a prepararsi. A cosa? L’oggi si presentava così inaspettato e non sapeva come affrontarlo, non sapeva… non sapeva. E’ lui che ti sorprende e ti rapisce, e ti conduce in situazioni inaspettate. Sentiva inadeguata la sua preparazione, la sua presenza. Il suo sentire era fuori tempo.

Non così il meccanismo biologico che aveva preso avvio. Il tempo si scandiva con precisione da orologio. E Angelina capì che non poteva rimanere nel limbo del presente. Pressante si presentava il futuro. Una creatura stava prendendo forma nel suo ventre e le bruciava il presente.

Il ‘figlio del mare’, così cominciò a qualificarlo nel suo intimo. Perché aveva ceduto alle lusinghe che dal mare erano venute. Quel mattino s’era fatta abbacinare da un sogno che il sole aveva indorato, gli scogli avevano reso saldo e il fluire delle onde aveva presentato come effimero, passeggero, stagionale.

Tutto il contrario di come impattava la realtà paesana, familiare, sociale; tutto il contrario con quanto nel suo corpo stava prendendo forma.

Si ritrovò inadeguata, non preparata ad affrontare i marosi della vita. Non lo aveva mai immaginato. Al riparo della famiglia non aveva mai supposto che i rapporti cordiali che circondano chi è ben considerato dai membri di un gruppo sociale affiatato, imparentato, saldato da vincoli di interdipendenza, quei rapporti avessero consistenza fragile. Sono cordiali finché nessuna anomalia viene riscontrata, ma in caso contrario il clima dei rapporti diventa fintamente rassicurante, eccessivamente protettivo. Nessuno domanda ma tutti vogliono sapere.

Nancy Lytle – Marina

Angelina si sentiva spiata, priva di coltivare la sua intimità, che in verità non aveva mai tenuta eccessivamente riservata. Ora però, ora che si vedeva sottrarre anche quell’unico sogno in cui s’era adagiata, ora reclamava la sua indipendenza. La volle gridare in faccia a tutti. Andò via dai genitori. Affittò una casa a Cala Feola. Moltiplicò le ore di lavoro presso le famiglie. Due ore presso l’albergo, un aiuto ad una signora il cui marito era allettato grave, nel pomeriggio presso un’anziana, Rosaria, che non si accomodava con nessuna badante. Insomma imbrigliò la sua esistenza in un tessuto di impegni lavorativi che lasciassero l’attenzione esclusiva al figlio Gennarino.

La sua nascita spinse i genitori a mitigare il rancore verso la figlia ma fu lei che non volle ritornare a ricoprire il ruolo di ragazza di buona famiglia, timorata di Dio e consenziente ai genitori. Il salto lo aveva compiuto, ne era fiera e voleva che così fosse giudicata dal figlio.

‘Figlio del mare’, lo connotava così lei, perché Gennarino aveva spirito indipendente. Le prese di posizione della madre, sempre non allineate con quelle dei compaesani, il fatto che lei vivesse in modo sanguigno le scelte che faceva, tutto questo irrobustirono la sua intraprendenza.
Gennarino era irrazionale come il cavallone, smanioso come la risacca, dolce come l’onda sulla battigia. Figlio del mare.

Cosa gli era preso quel giorno per non andare a scuola. Angelina ripercorse la strada che Clodina, l’amica di classe, aveva visto prendere a Gennarino. Si ritrovò giù alle Piscine Naturali. Alcune barchette erano tirate a secco. Stavano trascorrendo nell’abbandono il periodo invernale. Come tutto il contesto del posto. S’aspettava la primavera per riprendere fiducia nella propria esistenza. Come quella barchetta attraccata lì, in attesa che qualcuno le facesse prendere il mare. Forse Gennarino aveva fatto quella scelta. Angelina non seppe cosa pensare. Nessun viso c’era intorno e nessuna domanda poté esprimere. Quel luogo, intasato all’inverosimile in estate da villeggianti, ora mostrava appieno la sua natura.

Uno scoglio a mare si esalta nella solitudine del suo colloquiare con lo sciacquìo dell’onda, coi granchi che gli fanno il solletico con le zampette. Ogni presenza estranea è mal tollerata perché altera gli equilibri mentre ogni luogo del mare è ligio alla sintonia con la natura.

Dalla scogliera comparve una barchetta a remi con due sagome. Angelina frenò l’ansia e attese. La barca venne a terra. La madre riconobbe in uno suo figlio. Represse lo sfogo e aspettò. Erano Gennarino e Titino, padrone della barca.

Vincenzo Canci (1911-2003) – Pescatori

Eccolo là ‘il figlio del mare’. Per nulla impensierito che la madre fosse ad attenderlo a quell’ora, quando avrebbe dovuto essere a scuola. Era sicuro che la donna sarebbe stata fiera del suo gesto. Perché così era stato educato: a sentire sempre lo sguardo accondiscendente della madre. Anche quando tutti gli erano contro. Sua madre avrebbe capito. E Angelina, da parte sua, cercava in tutti i modi di compiacere i comportamenti ‘strani’ del figlio. Lo copriva sempre, lo giustificava, e Gennarino non seguiva le regole consuete. Seguiva il suo capriccio.

Anche adesso. Per questo aveva in mente di rimproverarlo perché la scuola è importante, e poi è un obbligo, ma il puntiglio di non seguire le usanze del borgo l’avevano allontanata dalle consuetudini. E aveva tirato su Gennarino con un solo forte vincolo: quello di accontentare lei, la madre. Un legame sentimentale madre-figlio, assoluto ed esclusivo, imperante e non conciliante. Lo aveva voluto così. Questo imperativo lo aveva costruito giorno dopo giorno. Contro i genitori, contro i compaesani, contro i vicini. Contro tutti che non fossero lui e lei, Gennarino e Angelina, figlio e madre. Tutto perché un giorno, quel giorno d’estate, aveva lasciato il perbenismo della sua educazione, la tranquillità della sua posizione di brava ragazza, per lasciarsi andare ad un flebile invito di un giovane sconosciuto, bello come è la gioventù, in cerca di svago. Senza pensieri lui, senza pensieri lei. Per un attimo di totale abbandono ai sensi. Quei sensi che lei aveva tenuto sotto chiave, perché in casa, coi genitori non si faceva sfoggio di sentimenti. Non li amplificavano, non li esibivano. I sensi erano frenati dai sentimenti e questi erano pacati e controllati.

L’insoddisfazione, quel tarlo, lei lo conosceva bene. Anche lei l’aveva covata dentro per anni. Per gli anni dell’adolescenza. La sentiva nei confronti della famiglia, degli amici, dei compaesani tutti. Li vedeva indaffarati a cercare di sopravanzare l’uno sull’altro per accaparrarsi un posto di lavoro, un’amicizia importante, una considerazione gratificante, una raccomandazione. I genitori tiravano la vita ma non erano contenti, e puntavano su di lei, la volevano più determinata a imporsi sugli altri, per un loro riscatto. Ma lei era di indole mite, non rispondeva alle finte premure che la spingevano ad essere più brava delle altre, più attraente delle altre. Cosi da trovare in lei, i genitori, un prestigio maggiore fra i compaesani. Ma lei era così, la sua bellezza non poggiava su una statura imponente e nemmeno in forme ridondanti. Maledetta quell’isola dilaniata dall’invidia! L’isola è un microcosmo blindato, è una sfera sociale tanto solidale quanto esclusiva. Dall’aspetto sereno ma squassato da lotte intestine. Chi non si adegua viene maciullato dal ricatto o dalla derisione, o dalla indifferenza. Un cosmo chiuso.

Lei se n’era accorta con la crescita ma aveva tenuto per sé i dubbi. Non li aveva mai palesati, ma era insofferente ad essi. L’insoddisfazione la celava dietro la correttezza, l’ubbidienza, l’imitazione. La brace però era viva sotto l’apparente perbenismo. Tanto apparente che bastò un giorno di sole cocente, un gesto di cortesia, un cenno di disinibizione e lei cedette. Senza un moto di opposizione e senza una precisa volontà.

Gennarino invece iniziava a dar forma alla sua crescita con una presenza evidente di insofferenza. Quella insofferenza, che lei aveva tenuto celata, nel figlio si manifestava prorompente.
Se lo guardava e non sapeva cosa dirgli. Rimproverarlo o accoglierlo come aveva fatto sempre?

Il ‘figlio del mare’ non aveva dubbi. Quel giorno non era andato a scuola perché con Titino avevano deciso di buttare la rete. Sì, dietro lo sperone su cui si erge la villa Manzini, in quella caletta. E gli era andata anche bene. Avevano preso occhiate e seppie. In quel mese le seppie gironzolano per gli scogli a depositare le uova. Due ne avevano prese e Gennarino le mostrava alla madre.

E Angelina capì. Se avesse continuato a sostenere l’insoddisfazione del figlio lo avrebbe autorizzato a perseguire su quella strada. Ad acuire di più la sua intolleranza verso le regole. Avrebbe visto crescere un insolente ribelle. E’ vero, nessuno è tenuto a non soddisfare le sue inclinazioni ma il carattere compare all’interno di comportamenti strutturati. Non si rivela nell’assoluta libertà. Perché i tratti caratteriali selezionano le inclinazioni. Se un bambino è libero di fare qualsiasi cosa è condannato all’apatia. Non si attiva in nulla perché non seleziona quello che gli piace da quello che gli dispiace.
Il mare non è dominabile e Gennarino avrebbe manifestato quel tratto: sarebbe stato mobile e instabile, rissoso e bizzoso.

Appena messo piede a terra il ragazzo, luminoso in viso, le si avvicinò. Angelina lo accolse con un sonoro ceffone. Il figlio rimase interdetto. Mutò il volto in collera ma non mostrò reazioni. La madre, dura in volto, si girò e scoppiò in singhiozzi. Gennarino non esitò, la abbracciò e disse piano: “Mamma, non lo faccio più… non piangere”. La donna gli rispose con un ordine: “Adesso vai a scuola e chiedi scusa alla maestra”.
Titino rimase a bordo come un allocco. Madre e figlio presero la salita.

Un mattino turbolento, quel giorno, ma la tempesta che l’aveva squassato fu produttiva. Cassò un dubbio nella testa della madre e illuminò a Gennarino il cammino da seguire.

Il ‘figlio del mare’ capì che l’istinto non è appagante, e la madre capì che doveva mitigare, per il bene di quel figlio, la sua ostilità alla comunità. Più comprensiva, non sottomessa, più accomodante, non soggetta.

Lo stare insieme è un’arte!

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