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Ma che ne potranno mai sapere i giovani ponzesi d’oggi di quello che erano i “petagni” di una volta. Sì, quei sugheri galleggianti inconfondibili che ci segnalavano la presenza di una rete, di una coffa, di una nassa.
Già, i petagni; erano costituiti essenzialmente da grandi pezzi di sughero verace di quercia da sughero; irregolari, dalle forme più disparate, ma decisamente originali.
Ognuno diverso dall’altro, venivano gelosamente custoditi e tramandati di stagione in stagione, generosamente trasmessi in famiglia da padre in figlio, senza discontinuità.
Il più delle volte si riusciva ancora a vedere in loro le sembianze del tronco dal quale provenivano in quanto erano dei veri e propri gusci di sughero di quei vecchi tronchi. Onestamente non saprei proprio da dove provenissero, ma certo è che ogni pescatore aveva i suoi, che custodiva gelosamente. E anche io, i miei.
Il petagno aveva rigorosamente un foro nel quale si faceva attaccare la cima che legava sul fondo la rete o la nassa o la coffa del pescatore. Spesso si legava più di un petagno insieme, lì dove la corrente del mare fosse stata più forte, con il rischio calcolato che il petagno andasse sotto il pelo dell’acqua e non fosse più visibile in superficie.
E non si mettevano neanche altri troppi segnali visibili attaccati al petagno, per evitare che venisse riconosciuto il luogo dove era stata veniva calata la rete o la nassa o la coffa, e farsi quindi beffare da concorrenti sleali.
Per riconoscere il luogo c’erano a disposizione solo i punti di riferimento che si prendevano e che permettevano di ritornare con più precisione possibile sul luogo del petagno, per salpare il pescato in completo anonimato e in solitudine. Senza ecoscandagli o gps.
Non c’era la plastica a sostituirli come ora, con i suoi buffi colori e con le sue forme spaziali; non bandiere al vento o luci notturne. La pesca la facevano tutti, professionisti e dilettanti. Nelle profondità e nei bassi fondali.
Quando i petagni erano più piccoli o si rompevano quelli più grandi, si potevano ancora usare per legare la lenza del bolentino o della traina o quella per totani o calamari. Potevano essere anche utili per armare “’i suarelle”.
Oggi neanche più lo stracquo riesce a darci indietro qualche sughero per farne petagni, e chi li ha se li mantiene stretti stretti, magari all’asciutto, in bella mostra di sé, su un mobile o in una vetrinetta di casa. Come ho fatto io.
Foto fornita da Biagio Vitiello (vedi commento in calce all’articolo)
Biagio Vitiello
7 Luglio 2020 at 17:15
Carissimo Silverio, ci sono stati anche gli antichissimi “petagni” a forma di sfere di vetro che venivano rivestiti di rete per essere agganciati alla corda (‘u lubano), ma… forse sei troppo giovane per ricordarli.
Questi della foto inviata, di tre colori, appartengono alla mia collezione “utensili della gente ponzese”
Foto annessa all’articolo di base (a cura della redazione)
Adriano Madonna
10 Luglio 2020 at 07:56
Caro Silverio, i miei complimenti per la tua capacità di far rivivere tempi ed emozioni partendo da un piccolo particolare come, appunto, un pezzo di sughero. Bellissime e originali anche le fotografie, tra cui quelle palle di vetro che effettivamente non si trovano più e che di tanto in tanto si vedevano ballare sulle onde.
Una curiosità: leggo “petagno” ma non si dice pedagno? O forse il pedagno diventa petagno in ponzese?