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27 gennaio. Il Giorno della Memoria. La ricorrenza del giorno della Memoria, il 27 gennaio di ogni anno, ha la sua precipua funzione nel riportare d’attualità e ragionare intorno a quel periodo oscuro della storia in cui la ragione e l’umanità stessa vennero perdute. Quest’anno “ricordiamo” attraverso un bell’articolo retrospettivo di Ezio Mauro, ex direttore de La Repubblica, dello scorso settembre, in recensione di un libro impegnativo di Walter Barberis: “Storia senza perdono”. Si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nella offensiva Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz (Wikipedia). La memoria e la storia divise dal Male Come può un evento come l’Olocausto passare da esperienza personale a ricordo collettivo? E a che prezzo? Con quali rimozioni? Politica e riflessione sul passato nel saggio di Walter Barberis Come nasce la scintilla della coscienza, che dal fuoco dell’esperienza individuale incendia la memoria collettiva? È un passaggio travagliato, faticoso, pudico ma insieme invadente, soprattutto quando ricordare, condividere, conoscere e sapere riguardano l’indicibile più ancora dell’incredibile. Nulla spiega questa tensione tra il dovere della testimonianza e il tormento del ricordo più della Shoah. Mancavano addirittura le parole — strage, sterminio di un popolo, genocidio — per dire a tutti quel che avevano davvero visto e subito in pochi, col rischio di non essere creduti, nell’allucinazione del dolore. Era troppo: per essere sopportato, naturalmente, ma ancor più per essere trasformato in un racconto portato in un discorso pubblico che intanto era comprensibilmente dominato dall’epica antifascista, subito tradotta nella letteratura con Cassola, Pratolini, Calvino, mentre lo stesso Levi veniva trascurato da Pavese, Vittorini, Natalia Ginzburg e Giulio Einaudi. Il silenzio, naturalmente, copriva anche le colpe e le compromissioni, le negligenze e le complicità. Si taceva, dunque, come se il lutto fosse troppo profondo per essere esposto e pronunciato. E intanto gli scampati camminavano nelle strade liberate dell’Italia portando da soli il gravame delle atrocità che avevano incontrato e la responsabilità intatta e intera della memoria. Da qui parte Walter Barberis nella sua ricognizione scomoda sul percorso del riconoscimento dell’orrore (Storia senza perdono, Einaudi; 2019).
Non solo, divennero anche pietre d’inciampo per chi preferiva occultare, continuava a banalizzare, provava ancora a negare. Una volta scritte, quelle parole non erano eludibili. Pesavano. Pretendevano. C’erano, e non si potevano più ignorare. Così con Anna Frank, Wiesel, Poliakov e Levi l’analisi si allarga necessariamente all’antisemitismo, al razzismo, alle loro origini, alla loro crescita, alla mancanza di anticorpi, al venir meno di una logica dell’umano. Attorno al racconto dei Campi, ecco «un prima, un dopo, un fuori da quel precipizio». I documenti prodotti al processo di Norimberga articolarono l’accusa, e la illustrarono al mondo spettatore. Ma la svolta fu quando irruppero le persone, testimoniando la passione della tragedia al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme. «Il tavolo veniva rovesciato — spiega Barberis —, l’impersonalità delle carte e persino dell’uomo in stato d’accusa, con le sue movenze da marionetta, veniva contrapposta alla dolente umanità delle decine di testimoni che sfilavano di fronte alla Corte. Gli ebrei si riprendevano la scena», passando davanti alla gabbia di cristallo antiproiettile che proteggeva il loro aguzzino, i reduci prendevano il loro posto da protagonisti. Attraverso i libri, le parole, i documenti, i processi, le testimonianze, si passava dall’individuale al collettivo, si disegnava il perimetro della vicenda, prendeva corpo una memoria allargata e condivisa. Reduce, testimone, accusatore e giudice, il sopravvissuto era lui stesso la “prova” dell’accaduto. Perché gli scampati, ricordava Elie Wiesel, hanno da dire su quello che è successo «più di tutti gli storici messi insieme». Ma Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz e a Buchenwald, dice anche un’altra cosa, terribilmente vera: «Solo coloro che vi passarono sanno cosa fu, gli altri non lo sapranno mai». Si può essere perfetti nella narrazione, ma la distanza tra l’esposizione all’orrore e la sua ricostruzione resta incolmabile, e segna inevitabilmente anche una distanza tra chi testimonia e chi ascolta. È come se il reale fosse ancora e sempre così incandescente da non poter essere maneggiato, penetrato, distribuito e consumato. Per una volta — ecco dove arriva l’unicità dell’Olocausto — l’esperienza della verità non riesce a essere riprodotta e trasmessa nella sua potente e spaventosa interezza. Probabilmente, di conseguenza, non può essere intesa per intero. Questo, credo, è il supplizio postumo dei sopravvissuti, essere soli a sapere fino in fondo, a capire attraverso il patire, ad aver visto fin dove arriva il precipizio dell’abisso. Noi, tutti, ascoltiamo, leggiamo, impariamo e conosciamo da una condizione radicalmente diversa, che sposta la qualità della memoria, l’intensità della coscienza. Soprattutto, noi giudichiamo e condividiamo da un “altrove”, e a posteriori. Questo scostamento dello spazio e del tempo spiega la distanza e la differenza. Che possono almeno in parte essere colmate dall’ingresso della storia, chiamata a sistemare la memoria, a raccordare le esperienze, a spiegare. Dagli anni Settanta incominciò quella che fu chiamata “l’era del testimone”, con un rovesciamento dello schema praticato nel primo dopoguerra, quando la memoria e il racconto si appoggiavano alle spalle degli eroi: adesso protagonista era la vittima, cui era affidata la testimonianza che ricreava immediatamente la realtà, dando spazio soprattutto alla rivelazione dell’orrore nazista, che generava la condivisione di una forte emozione. Fuori dalla storia, dunque, l’esercizio della memoria è sterile, fine a se stesso. Così bisogna guardarsi dall’abuso della memoria, che la banalizza, bisogna scartare i falsi testimoni, impostori «che si sono impossessati di uno statuto vittimario altrui», e il libro cita millantatori, mitomani e profittatori, negando che un messaggio moralmente e civilmente utile e pedagogico per le giovani generazioni possa appoggiarsi su una menzogna tanto più vergognosa in quanto costruita su una materia così delicata, sensibile e dolorosa. In più bisogna sapere che la vittima non è l’unico soggetto che conosce la Shoah: i carnefici sono l’altra metà dell’orrore, e la loro testimonianza è utile come quella delle vittime, perché spiega il funzionamento della macchina concentrazionaria ma in parallelo rivela la discesa agli inferi degli aguzzini, il loro opportunismo efficiente, la partecipazione. E qui nasce l’ultima questione. Perché il disvelamento della tragedia, la sua documentazione, il suo diventare storia porta i carnefici a cercare una conciliazione con le loro vittime. Barberis è netto: per quale ragione una vittima dovrebbe concedere un “dono” al suo assassino — dice — rimane misterioso. «Solo il Dio della Bibbia può perdonare. Chi altri ha il diritto di farlo, con quale autorità? Il perdono è la più alta forma di amnistia, e l’amnesia è la sua diretta conseguenza. Cosa può guadagnare la società dall’occultamento pacificatore del suo torbido passato?» È a questo punto che ho qualche dubbio. Perché il dovere di giudicare, dopo aver conosciuto l’orrore, è senz’altro un obbligo perenne, soprattutto nei tempi che stiamo vivendo. Ma forse bisogna distinguere tra la coscienza collettiva e quella individuale. Ora che la rivelazione della memoria sulla Shoah è avvenuta, e la memoria è diventata storia, la comunità repubblicana ha sicuramente la responsabilità di custodire la verità, e il giudizio morale, politico e civile che ne discende, e non può certo disporre del perdono al posto dei sopravvissuti. Ma se la storia è compiuta, la questione del sopruso, del danno, dalla condanna e financo del perdono tornano nella coscienza personale degli scampati. E lì noi ci fermiamo, perché solo loro sanno. Il libro
[Da la Repubblica del 16 settembre 2019]
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