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C’è una luce molto bella in questi giorni, cristallina ma non invadente.
Cammino lungo la strada dei Conti, calpestando quelle pietre che hanno conosciuto il passo di tante processioni di San Giuseppe.
Incontro un piccolo gruppo di ragazzi del comitato, stanno smontando il filo di lampadine che, nel periodo della festa, ha adornato i Conti e Santa Maria come fosse un filo di perle luminose in un paesaggio fiabesco.
Cespugli di margherite bianche si beano al sole a petali spiegati, qua e là qualche nota di viola. Dietro le margherite gli alberi mostrano gemme verdi e fiori bianchi e rosa mentre il Pagliaro si tinge di giallo.
La casa di Alberto è circondata di fiori; gerbere, calendule, fresie e violaciocche spiccano nel bianco della calce. E’ sua moglie a prendersi cura di quel giardino non afflitto dalla maniacalità del troppo ordine. E’ lei a conservare i semi anno per anno e a curare le talee. I colori e il profumo intorno danno prova delle sue doti.
Mi fermo per scattare una foto. Una voce alle spalle: – Cosa fotografi?
Mi volto, saluto.
– Ogni tanto vieni a respirare l’aria dei tuoi nonni, eh!?
La voce è quella di Anna Maria che prova a spiegarmi il legame di parentela tra i nostri nonni; mi dice qualcosa in più riguardo due delle sorelle di Lucia, madre di Peppenella ’i pelusce (mia bisnonna). Mi indica la casa rosa dove abitava zi’ Tummetella (Domitilla) e precisa che zia Giuditta viveva, invece, a Santa Maria.
– Giuditta… Domitilla… Bei nomi – penso. Ultimamente mi soffermo spesso sui nomi femminili, sulla loro sonorità, sarà per via della nipotina in arrivo.
Di legame in legame ci ritroviamo a parlare di matrimoni, di quelli di un tempo, quando l’intero vicinato si mobilitava per collaborare alla buona riuscita della festa.
– Chi portava le sedie, chi i tavoli, chi prestava i piatti… – agita le mani e a me sembra di cominciare a vedere la contrada in movimento. Gli uomini a spostare il mobilio, le donne con i grembiuli intente a spennare polli e rosolare cipolle, una filastrocca per la buona ventura gira nell’aria. Fervono i preparativi e anche le cantine sembrano in fermento.
– Si faceva il pranzo e dopo bastava un mandolino per cantare e ballare pure fino all’alba. C’era solo la pasta con il sugo di gallo o di gallina ma ti alzavi sazio, il piatto te lo davano pieno. Non come si fa adesso che si sta a tavola mezza giornata e alla fine uno s’aizza pure a’ddiùne.
Nonna Silvia raccontava che per il suo matrimonio lei, sua madre e la sua adorata nonna Lucia avevano cucinato per tutti gli invitati, il gallo per il sugo degli ziti spezzati e il coniglio alla cacciatora come secondo piatto. Vino e spumante della loro cantina.
Dopo le nozze aveva prestato l’abito, comprato per lei da suo padre Agostino, ad altre ragazze della sua taglia. In definitiva erano tutte magre e non perché avessero scelto di seguire la moda.
Le ragazze in età da marito ricamavano il corredo con le proprie iniziali e, spesso, ’u fierz’ che ornava il letto proponeva frasi come Sonni Felici. In quelle lenzuola si risvegliavano, dopo la prima notte di nozze, imbarazzate.
La mia di nonna il lenzuolo se lo tirò fin sopra la testa prima di alzarsi e mettersi ai fornelli per marito e suoceri.
Passato quel primo momento erano pronte ad affrontare la vita quotidiana con dedizione e un pizzico di quella fermezza che alle donne ponzesi non ha mai difettato.
Le nozze dei nonni, nel ’44
Gli sposalizi primaverili potevano godere, se la caccia era fortunata, anche di uccelletti trasformati in polpette con pazienza certosina da mani esperte, e accompagnati dall’insalata dell’orto.
Una delle nonne dei Conti – spiega Anna Maria – raccontava di aver avuto per le sue nozze anche i confetti, cosa rara da trovare subito dopo la guerra. Per molti erano diventati solo un ricordo.
Il pacco dei confetti, una volta giunto a Ponza, venne affidato alle donne che smisero di gioire al sorgere di un dubbio: Basteranno per tutti gli invitati?
E adesso come si fa?
Non si persero d’animo, contarono gli invitati, poi una delle donne della famiglia – con attenzione – contò i confetti uno ad uno. Due fu il responso; si potevano donare due confetti ad ogni invitato. Alla sposa spettava l’onere di tenere bene il conto, pena una brutta figura qualora non fossero bastati per tutti.
La festa riuscì nel migliore dei modi.
– E di dolce?
Mi accorgo mentre scrivo che manca il dolce.
Telefono a Maddy, sta facendo le prove con il coro nella chiesa di Le Forna. Chiede al gruppo.
Tra i ricordi comuni affiorano ziti con sugo di gallo o di gallina, coniglio, pollo e caccia. E di dolce fatto in casa? – Panettone (pizza doce, ciambellone senza buco), si esprime la voce del coro. Quello che mia nonna ci mandava a infornare da Eva. Ciascuna di noi muoveva verso il forno con un tegame avvolto in un panno e chiuso con un nodo che diventata manico; io ero la più piccola della brigata.
No, le dosi non erano per 4/6 persone e i panettoni da infornare erano sempre più di tre, glutine una parola sconosciuta.
Le voci della chiesa toccano una nota alta: – Zuppa inglese. Una versione, una variante semplificata, con crema pasticciera su una base intrisa di caffè. E anche questa c’è, come dolce, nei miei ricordi d’infanzia.
Nozze 26 ottobre 1969
I miei genitori nel 1969 affidarono il reparto dessert alla pasticceria.
P.S. – Grazie a tutti per i frammenti.