





|
|||
La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (5). Il racconto del Professore Almeno non ha dovuto più sopportare né umiliazioni né dolori, e per me pure è stato così: è in questo modo che sono rinato. Sono morto con loro prima, ma per poi rinascere alla vita per continuare, per lottare, per combattere, per odia… per poter alla fine perdonare. Rinato perché non sono stato più soggetto ai ricatti morali e materiali, rinato perché quello che avevo scoperto con i miei studi era rimasto mio, senza doverlo dare a nessuno che se ne sarebbe appropriato come suo, per la propria gloria, e sfruttarlo per fini illeciti. La vinsi, certo che la vinsi quella medaglia. La vinsi per lei, per quella donna che mi aveva donato se stessa e mi aveva dato una figlia. Me ne fecero di feste, congratulazioni, strette di mano, saluti e battute di tacchi. Possibilità di ricerca, studio, collaboratori e attrezzature, tutto mi sarebbe stato concesso. Dopo qualche anno finì tutto e una bolgia generale fu la vita di ognuno. La persi anche quella medaglia. Senza l’onore dello sport, senza la decisione di una giuria. E a che prezzo! Di prepotenza e con umiliazione. Era uno dei pochissimi oggetti che mi ero portato appresso quando sono stato deportato. L’avevo sudata quella vittoria, sudata e studiata, e mi ci ero sacrificato ritagliandomi solo attimi di vita privata per ottenere il risultato finale della gara. Tutto ci avevo dedicato, e il ventre di Giuditta che cresceva faceva aumentare il mio desiderio di vincere per lei e per quel figlio che doveva nascere. Mi dava la forza per poter diminuire centesimi di secondo al mio tempo ottimale. Lo incontrai a Dachau. Quel suo fare sprezzante nello stadio e nella vita. Era il mio eterno secondo perché non ci metteva il cuore nel gareggiare. Anzi non ci metteva niente. Non voleva essere amico di nessuno e non accettava consigli. Ma voleva vincere a tutti i costi. Alle Olimpiadi arrivò terzo. Rifiutò di stringermi la mano sul podio. Isaac tirò fuori dalla tasca della giacca un fazzoletto candido e con la scusa di asciugarsi il naso: una fastidiosa allergia, aveva detto, alla polvere ha decretato il dottore, si asciugò gli occhi. Sara lo guardò con fare interrogativo senza aprire bocca. “La distanza è regolamentare. E’ stata misurata dai nostri valenti topografi, e il colpo dello starter lo daremo con una vera pistola” – aggiunse il comandante del lager – una vera pistola per veri uomini che combattono per la patria, per l’integrità della razza. E non ci saranno false partenze, ebreo perché… perché altrimenti il secondo colpo sarà per la tua cara figlia, ebreo! Siamo informati di tutto come vedi, ebreo! Se vuoi puoi toglierti quei tuoi sozzi stracci, per essere libero… nella corsa voglio dire, libero, solo nella corsa, ebreo”! E a quelle parole fecero eco le sghignazzanti risatacce degli aguzzini. “Solo nella corsa, solo nella corsa” – ripeteva, istericamente. Mi stavo togliendo i pantaloni e rabbrividii, non solo per il freddo pungente. Qualcuno si avvicinò a Goebert, il comandante del campo: Maximilian Von Goebert come ora esigeva di farsi chiamare, anche se di Von non aveva mai avuto l’appartenenza, e gli porse un foglio. Lo lesse: – “Ebreo, qui c’è scritto che sei anche un grande luminare della scienza e che il nostro amato Fuhrer ti tiene in molta considerazione. Peccato. Peccato che sei dalla parte sbagliata! Ti odio ebreo, anche per questo ti odio! Mettitelo in quella tua testaccia di scienziato che non sei nessuno e che qui comando io, su tutti e tutto, e non ci sono altri che possano impedirmi qualcosa. E adesso muoviti!” Per un attimo, ma solo per un attimo, rivedemmo quel giorno ormai così lontano in cui si gareggiava per lo sport. Oggi era per la sopravvivenza, fisica e morale. – Il click della Luger mi riportò alla realtà. ‘Ai vostri posti. Pronti’. E un’eternità calò in quei pochi istanti che separavano il colpo dal via. Che fare? Giocare il tutto per il tutto, lasciarlo vincere come aveva implorato con gli occhi per non essere sminuito di fronte ai suoi militari, di fronte a tutti gli altri deportati presenti nel campo, sminuito di fronte alla storia. Lasciare tutto al caso e alla mia carenza di allenamento. L’università, le ricerche, la famiglia, qualche birra di troppo, e tutto il resto avevano assorbito il mio tempo e lo sport era rimasto in disparte. Quanto avevo fatto per lo sport me lo ricordava solo quella medaglia olimpica. . [La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (5) – Continua] Per le puntate precedenti, digita – L’intervista di Sara – nel riquadro “Cerca nel sito”, oppure accedi attraverso l’indice per Autore: Taddia Nota (a cura della Redazione) Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
|||
Ponza Racconta © 2021 - Tutti i diritti riservati - Realizzato da Antonio Capone |
Commenti recenti