Ambrosino Vincenzo

Il Birillo. Il disegno di mio padre

di Vincenzo Ambrosino

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Avevo dieci anni, frequentavo la quinta elementare. La maestra Giovanna ci disse di fare un disegno a casa; i migliori sarebbero stati esposti in corridoio.

Mio padre era un uomo di poche parole e in un angolo della nostra piccola casa, dietro la tendina, accanto ad una finestra dove c’era un po’ di luce naturale, si era trovato un cantuccio per dedicarsi al suo hobby preferito, i cruciverba.
Guai a chi lo disturbava per cui ognuno di noi, io, mia madre e mia sorella, una volta entrati in casa dovevamo insonorizzare ogni nostro gesto, le parole dovevano essere solo sussurrate.

Quel giorno arrivai a casa e sussurrai a mia madre del disegno da fare e che il più bello e originale veniva esposto in corridoio. Per quella scuola e per quei ragazzi, il corridoio era il Louvre.
Mia madre mi guardò indifferente, ma sentii che da dietro la tendina qualcosa si mosse, era la sedia su cui mio padre stava seduto che si muoveva per farlo passare.
Mio padre mostrò la sua ombra. A quei tempi “l’ombra di mio padre era due volte la mia” e dietro l’ombra sentii la sua voce: – ’Uaglio’ che tien’a fa’?
– ’Nu disegno – risposi io incredulo e intimidito.
Lui disse: – T’u facc’io!

Voi forse non potete comprendere quella scena incredibile: quell’uomo non dava confidenza a nessuno e con il figlio aveva solo rapporti fatti di occhiate e brevi cenni di intesa; bisognava capirlo interpretando l’inarcarsi delle sopracciglia, oppure provare a leggere le parole che lui scriveva modificando le profonde rughe della sua fronte.

Andò giù al giardino, prese una piccola mattonella bianca, prese un barattolo di pittura nera e con un bastone di legno e dell’ovatta fece un piccolo pennello. Lo vidi da lontano accingersi a disegnare.
Vedere quell’uomo dedicarsi a fare qualcosa per me, vederlo addirittura disegnare, lui che aveva fatto il muratore oppure il marinaio, ma mai un disegno, mi riempì di stupore: mio padre che si abbassava a fare una cosa per me.

Dopo circa mezz’ora aveva finito e dopo altri dieci minuti mi chiamò e quando gli fui a due passi, mi avvicinò al suo corpo con una mano mentre con l’altra teneva a distanza la mattonella, in modo che si vedesse bene il suo disegno. poi disse:
’Uagliò, chist’ è ’u Birillo, ’u sommergibile con cui tuo padre è stato in guerra… Te piace?
Guardai, ma non vidi quello che ci stava disegnato. Ero intento a sentire altro: sentivo il corpo di mio padre e quasi mi accorgevo del battito del suo cuore e del fluire del suo sangue: per la prima volta stavo veramente con mio padre.

Riuscii a chiedergli, senza rispondere alla sua domanda: – Che è ’nu sommergibile?

Lui stringendomi ancora più forte e guardando fuori della finestra nel vuoto, con una voce emozionata, continua, fluida cominciò a parlare: – È ’na specie ’i pesce ’i fierre, ca po’ gghi sott’acqua. È ’nu pesce che spara siluri ch’anna colpi’ i nave nemiche ma spesso nun accogliene ’u bersaglio. I’ so’ stato dint’a ’stu pesce… èreme in 40, simme state a tanti metri sott’acqua e sentéveme i bombe ’i profondità che i nemici ce menavene ’a coppa; chelle scenneveno chianu chianu e nui zitte, cu’ i mutùre stutate, pregaveme che nun ci’accugglievene.
Ore e ore sott’acqua, sapenne che ’ncoppa a te ce sta tutta chell’acqua e tu dint’u pesce, che puoi a malapena respira’, perché i bombe nun ci’hanno cugliute ma ’u spustamento d’acqua ha danneggiato ’u sistema d’ossigenazione. Stai comm’ e dint’a ’na gabbia, cu’ ’a speranza che i mutùre ripartene e s’arriesce a sagli’ a’ vi’e coppa!
Finalmente ’u cumandante tutt’affannate ordina ’a risalita… ch’alluocchie chiuse siente ca se riappiccene i mutùre e accumience a sagli’ chianu chianu – pareve ca chella sagliuta nu’ ferneve mai… – e vai incontro a i bombe che scennene e te passano affianco. Poi pienze a chelle che t’aspetta ’na vota assummate… è notte, è ascure, stai sule senza nusciune che te dice ’na parola ’i curaggio, trattiene ’u fiate… Stai p’assumma’ a galla, tuttu quante vicine ’u boccaporto pe’ n’asci’… arriva ’na cannunata d’u nemico che fa salta’ ’u boccaporto. Duie ’i nuie morene, io rimango ferito, ’na scheggia m’ha accugliute.

Si alza la maglia e sotto l’ombelico, mi fa vedere il buco della scheggia di ferro, poi prende con la sua mano callosa la mia manina e mi fa toccare il buco. Continua a raccontare, mentre io rimango con il dito indice fermo nel suo buco.
– Amma lascia’ ’u pesce nuoste… è notte, ce menamme ’nda’ll’acqua, è fredda, tenimme appaura. Sento i ’llucche d’i cumpagne miei, ma i’ nun tenghe tanta forza, sto perdenne sanghe, nun veche niente, nu riesco manch’a respira’, cerche ’i me move, sente sule tanta paura. Arrivano i scialuppe d’i nave nemiche che ci pigliene a buorde e ce portene ’ncopp’i nave alloro.

Silenzio non parla più, sempre con il suo disegno a distanza. Lo sento respirare affannosamente come se stesse nuotando a fatica.
Io gli dico: – Papà… papà… e poi?

Lui sembra risvegliarsi, mi guarda, sembra che gli cada una lacrima ma continua a parlare: – Poi mise e mise ’i spustament’… ’i marcia. Ammassate ’ncopp’ i nave ce portano in India. Sei anni ’i prigionia. Steveme ’ndi baracche ’i legno, caldissime d’estate e fredde ’i vierne, ùmmede. Suffreveme ’a famme, i peducchie ce mangiavene vivi, ce curàveme cu’ ppetrolio che ce bruciave tuttecose. Paricchie ’i nuie so’ muorte. L’urdeme tre anne, cu’gli inglesi, so’ state meglie. Pazziave a pallone, faceve ’u portiere, pazziàveme contr’agli inglesi e ce dévene ’a ciucculata.
Si interrompe mi guarda e mi dice: – Te piace ’u disegno? Basta! T’aggie ditte già troppo… Iamme a mangia’… pòrtele a’ scola, forse piace pure a’ maesta toia e magare t’u fa mètte ’ndu curredure accussì ’u vedene tuttu quante…
Non aspettò la mia risposta si alzò e andò in bagno a lavarsi le mani, poi si sedette a tavola perché era ora di pranzo.

Io presi la mattonella e la posi con cura accanto alla cartella.
Il giorno dopo la portai a scuola e quel disegno piacque anche alla maestra che mi chiese qualche notizia del Birillo.
Io riferii la storia che mi aveva raccontato mio padre.
Alla fine del racconto la maestra Giovanna mi disse: – Vieni con me, sarai tu stesso ad attaccare la mattonella in corridoio.

Il ‘Berillo’ in allestimento a Monfalcone (da I smg di Mfcone-Turrini-suppl a n 11 nov 98 RM)

Con la pelle appesa a un chiodo
In ricordo dei militari e civili italiani scomparsi in mare durante la seconda guerra mondiale

I prigionieri italiani nei campi indiani (file .pdf): e-Storia-Anno-VI-Numero-3-novembre-2016

Immagine di copertina. Il Berillo (da “Sommergibili italiani” di Alessandro Turrini ed Ottorino Ottone Miozzi, USMM, Roma 1999)

Il Berillo passa sotto il ponte girevole di Taranto (g.c. Valerio Civetta)

3 Comments

3 Comments

  1. Rita Bosso

    12 Maggio 2018 at 15:44

    Anche mio padre è stato dint’ ‘u pesce ‘i fierro.
    Grazie Vincenzo per questo racconto intenso e struggente.

  2. vincenzo

    12 Maggio 2018 at 18:19

    Rita oggi risentivo alcune canzoni di Luigi Tenco e mi sono imbattuto in questa che non mi aspettavo.

    https://www.youtube.com/watch?v=2n0wwoEAoqE

  3. Sandro Russo

    12 Maggio 2018 at 18:28

    Bravo Vincenzo ad aver tirato fuori questa storia della tua infanzia sull’avventura di guerra di tuo padre.

    Quello che viene riportato alla luce è la punta di un iceberg, perché i nostri padri non parlavano volentieri della guerra. A volte non parlavano e basta!
    Del mio, che aveva fatto parte del suo servizio come marconista sul Semaforo a Ponza (fu allora che conobbe mia madre Giovanna, ’a figlia ’i Ciccille Zecca e Natalina Romano, che sposò nel ’46, a guerra finita), so soltanto che fece anche un periodo di prigionia in Africa (…chissà se prima o dopo Ponza) e dei pidocchi e del petrolio parlava pure lui.

    Per il resto ricordo un diario – scritto a matita su un blocco notes, circa 8 cm x 12 cm, con i segni che andavano sbiadendo – relativo al periodo della grande fame a Ponza, del ’42-’43, e con le corse ai rifugi antiaerei (alla cisterna della Parata, ho saputo poi); il periodo della grande fame, dei razionamenti – che lui bruciò dentro al camino… Potevo avere suppergiù l’età di Vincenzo, circa 10 anni, e nessuna capacità/possibilità di oppormi alla sua decisione.
    Una volta accennò anche al suo ritorno a casa, – la famiglia stava a Cassino – a piedi attraverso tutta l’Italia. Ho capito poi che doveva essere stato dopo l’8 settembre del ’43 (*), cui seguì lo sbando dell’esercito italiano. Disse che camminavano di notte ai bordi delle strade, perché tutti sparavano loro addosso: i tedeschi per cui gli italiani, venuta meno l’alleanza con l’Asse, erano diventati traditori, i partigiani e anche le residue truppe regolari dell’esercito che li considerava disertori…
    Tra l’altro giunto a Cassino, trovò solo macerie, la casa devastata e nessuno della famiglia. Erano stati “sfollati” tutti in Calabria… ma questo lo seppe solo più tardi e dopo molta angoscia.

    (*) Armistizio di Cassibile (SI) –
    Datato all’8 settembre, data in cui, alle 18:30 italiane, fu reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale USA Eisenhower e, poco più di un’ora dopo, alle 19:42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell’EIAR.
    Costituì l’atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità verso gli Alleati durante la seconda guerra mondiale e l’inizio di fatto della resistenza italiana contro il nazifascismo (da Wikipedia).

    Un film bellissimo, visto di recente su quel periodo, è Tutti a casa del 1960, diretto da Luigi Comencini, con Alberto Sordi, Eduardo De Filippo, Serge Reggiani.

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