Ambiente e Natura

Piccolo cabotaggio (12). Da Isola Piccola a Lisca Bianca (prima parte)

di Tano Pirrone

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Uscendo dal porticciolo di Marzamemi, a circa due miglia nautiche a nord, c’è un’altra piccola isola: è l’isola di Vendicari, inclusa nella Riserva naturale orientata, Oasi faunistica di Vendicari.

Non è abitata, né accessibile. Lo era in passato: ospita i ruderi della casa del proprietario dell’antistante tonnara:

le acque circostanti nascondono, a pochi metri di profondità, reperti archeologici di gran pregio e interesse.


La mia prima visita a Vendicari – delle pochissime – risale alla tarda estate o al primo autunno del 1972. Allora Vendicari era poco conosciuta (il turismo di massa era ancora agli albori e la fagocitazione onnivora dell’Homo Ludens appena iniziata).
Nella zona c’era una piccola caserma della Guardia di Finanza, tutto attorno, a perdita d’occhio, una selva impenetrabile di ficupala (1).

La caserma ora è stata affidata all’Ufficio Provinciale Azienda Foreste Demaniali di Siracusa per la logistica della Riserva e l’accoglienza dei visitatori. I fichidindia sono rientrati nei ranghi e tornati negli scaffali della memoria.
L’area è discretamente protetta e sono sorte delle strutture d’ospitalità che hanno recuperato vecchi edifici o masserie abbandonate. Alcune spiagge sono accessibili altre zone rese impenetrabili. Vengono protette perché zone umide, placente operose in cui l’antica vita riprende continuità.
Uccelli sfuggiti agli stupidi eccidi, uova destinate al tirassegno, erbe ai più sconosciute e quindi inutili o nocive, case famiglie per pesci e tartarughe, saline (2) millenarie divenute ambiti di riproduzione e spasso per i piccoli animali. Capanni tirati su con scorte di ombrelloni discreti assicurano paninate felici e dissetanti bicchierate.
Un piatto di pasta non si rifiuta a nessuno e un bicchiere di vino locale, anche nelle giornate e nelle ore più calde, se versato da bottiglia immersa in acqua, è ambrosia o giù di lì.

La barca passa a debita distanza e godiamo di una visione straordinaria di Vendicari: dal mare, lenti, sul mare stanco, onde-non onde, in estasi a vedere la piccola isola del Barone tonnarolo, la Torre Sveva (3), le vecchie masserie ringalluzzite e di comprovata ospitalità, la Tonnara (4) con l’ardita ciminiera e i pilastri levati al cielo come per un inno al lavoro; la vegetazione finalmente libera di crescere come vuole e sotto, dietro, un pullulare di vite intrecciate di insetti, rettili, pesci, piccoli mammiferi, uccelli… Il mare ci scivola sotto.

Torre Sveva

Masseria della Volpe. Esterno

La tonnara di Vendicari

Lasciamo a babordo Eloro, antica, classica semi dimenticata, poi Avola; Avola delle mandorle, Avola delle minnulate (5) e del latte denso e dolciastro come latte materno, Avola della corsa in salita, Avola delle essenze che andavano a dare senso e nerbo ai profumi francesi, Avola dalle strade bianche di fiori di mandorlo, fiumi di latte, petali d’asfalto. E poi Fontane Bianche che fa da schermo a Cassibile, dove gli armistizi si firmano bene e si celano per giorni ancora meglio.

Siracusa per augurarci il buon arrivo ci manda incontro Nunzi autorevoli, i cui nomi sono Ognina e Arenella, il Plemmirio e Murro di Porco e Isola (ciao Tina, ciao Dino). Ci infiliamo nell’ovale perfetto del Porto grande e andiamo ad ancorarci alla Marina, a qualche decina di metri dal mitico albergo Des Étrangeres e dalla Fonte Aretusa.

Siracusa. Fonte Aretusa dal mare e grand’angolo

Siamo a Siracusa, ma non in terra ferma. La terra che fra poco calpesteremo è quella di un’altra piccola isola, Ortigia, downtown, cuore dell’antichissima città, embrione della superba città che fu di volta in volta greca, romana, bizantina, araba, ed ora è, insieme, greca, romana, bizantina, araba.

Ortigia deriva il suo nome dal greco Ὀρτυγία da ὄρτυξ, quaglia. Non siamo andati molto avanti: partiti dalla Baia delle tortore in poche ore abbiamo ormeggiato all’Isola delle quaglie! Quaglie e coturnici (6) arrivavano un tempo dall’Africa e dall’Asia minore; coprivano l’intera isola, bonificandola dagli insetti e dalle piante velenose (ce lo dice anche Plinio, e Plinio è uomo d’onore!).
Siamo, insomma, in territori di antica caccia e quindi alla dea cacciatrice dobbiamo rivolgerci, a quella Artemide (7) , di cui è innamorato pazzo Alfeo, il dio-fiume del Peloponneso che segue ed insegue la dea della caccia fino all’isola nel porto di Siracusa. Artemide non era sola, la seguiva uno stuolo di bellissime ninfe. Fra esse Aretusa, naiade sdegnosa delle profferte d’amore di Alceo, che di essa è parimenti innamorato e brama di possedere. Artemide viene in aiuto di Aretusa e per sottrarla all’infoiata e strabordànte divinità fluviale trasforma la naiade in fonte. Per amore Alceo mescola le sue acque alla nuova fonte.

Le versioni del mito sono diverse, ma nella sostanza tutte tendono a spiegare il mistero dell’acqua dolce della fontana dove nascono spontanei papiri rigogliosi, navigano ben pasciuti muletti (8) e soggiornano folcloristiche papere.

I papiri della fonte Aretusa

La Fonte Aretusa è alimentata da una sorgente naturale di acqua dolce, in comunicazione con le acque salate del porto attraverso una griglia da cui entrano ed escono i placidi cefali. Ma la spiegazione scientifica non ha bisogno di voli pindarici (di quel poeta che pure aveva cantato di Alceo e Artemide) (9) ed è abbastanza semplice.

Potrei parlarne anche io, ma preferisco lasciare la parola allo specialista. G. è geologo ed ha memoria indelebile anche di ere geologiche remote assai. Riesce a fare una vulgata breve e comprensibile: «Geologicamente l’isola è composta da una roccia con fratture naturali, capaci di filtrare l’acqua, ed è idrologicamente collegata alla terraferma siracusana. Dalla Porta Marina (10) fino al Castello Maniace (11), che rappresenta la punta estrema dell’isola, vi è un susseguirsi di sorgenti e fonti naturali che fuoriescono al di sotto o in corrispondenza del livello medio del mare. Esempi di sorgenti naturali in Ortigia, oltre la notissima Fonte Aretusa, sono dati dalla Fontana degli Schiavi; da uno dei miqwè (bagno rituale ebraico) (12) più suggestivi d’Europa; dalla Vasca della Regina, sorgente naturale posta al di sotto del livello del mare, nel Castello Maniace e di altre manifestazioni sorgive, quasi del tutto scomparse».

Siracusa. Immagine del miqwè

Siracusa. Porta Marina

Siracusa. Castello Maniace

Apprezziamo molto, S. ed io, il taglio dato da G., che era stato, bisogna riconoscerlo, breve e – letteralmente – circonciso. Siamo seduti al bar più grande di Piazza Duomo, ad un tavolo a pochi metri dall’antico tempio pagano dedicato a Minerva, convertito in chiesa con il consolidarsi dell’egemonia cristiana. Facciamo colazione con minnulata e brioche e parliamo di Siracusa e dei miei ricordi della città.

La piazza lunghissima è uno scenario barocco di bellezza e armonia inarrivabili.
Tornatore l’ha usata come location fondamentale nel suo film del 2000 Malèna, con Monica Bellucci.

La storia si svolge a Castelcutò, località siciliana di fantasia che assume l’aspetto della piazza che ci ospita, di vie di Noto e di altri paesi costieri. In mancanza di film che si svolgano espressamente a Siracusa, parliamo di Tornatore e del suo film di fine millennio, con protagonista la Bellucci. Il tredicenne Renato Amoroso è invaghito di Malèna, giovane donna di rara e appariscente bellezza, sposata con Nino, che parte per la guerra. La bellezza di Malèna in quella piccola realtà paesana è causa di disagi e innumerevoli problemi per lei, poiché, essendo il sogno sessuale di ogni uomo, diventa anche l’oggetto dell’invidia e dell’odio delle donne del posto. L’amore che Renato prova per Malèna però è sincero e la donna diventa un’ossessione per il ragazzo, che la spia continuamente. Un giorno Malèna viene raggiunta dalla terribile notizia della morte del marito al fronte. La donna rimane quindi vedova e resta indifesa davanti alle cattiverie delle paesane gelose e alla cupidigia sessuale dei loro mariti. Le calunnie sulla giovane vedova si susseguono e si diffonde presto la voce che Malèna si sia concessa carnalmente a numerosi uomini della cittadina. Lei si difende dalle critiche come può, ma senza denaro, né amici, né famiglia vive nel dolore e nell’angoscia. Dopo aver tentato invano di trovare un lavoro onesto, si rende conto di avere un’unica soluzione per sopravvivere: la sua bellezza. Renato non si dà pace, vorrebbe aiutarla, ma non può. Nel frattempo le sorti della guerra precipitano ed i tedeschi invadono Castelcutò. Per qualche mese Malèna si ingrazierà le truppe naziste, concedendosi sessualmente ai soldati. Ma quando nel 1943 i tedeschi se ne vanno e arrivano gli americani il suo destino cambia: le donne del paese, da sempre invidiose e piene di rancore nei confronti di Malèna, l’accusano di collaborazionismo, la malmenano e la umiliano tagliandole i capelli. Ferita nel corpo e nell’anima, Malèna si trasferisce.
A sorpresa, un giorno il marito, che in realtà non era morto, ritorna; cerca Malèna, non la trova. Renato, ormai cresciuto e rattristato per il trattamento riservato al marito di Malèna, in una breve lettera gli racconta la vicenda della moglie; lo rassicura sul fatto che la donna abbia amato solo e sempre lui. Conclude informandolo di averla vista partire per Messina. Nino quindi decide di raggiungerla. Un anno dopo Malèna e il marito tornano a Castelcutò, intenzionati a passare lì il resto della loro vita, e a testa alta, insieme, attraversano la grande piazza cittadina: la gente del paese, ormai superato il livore e le invidie verso la bella Maléna, li accoglie di nuovo. Il film si conclude con il nostalgico pensiero di Renato: dopo che molti anni sono trascorsi si ritrova vecchio e rassegnato alla banalità della sua vita, ammette di aver conosciuto e amato molte donne nel tempo, e di essersi scordato di tutte. L’unica che non riesce dimenticare è Malèna.

Divinamente bella, statuaria come una creazione di Fidia, la Bellucci è una sorpresa: il suo volto di alabastro, magnificamente duttile, fa dimenticare la voce non completamente adeguata, ancora in formazione (ma Malèna parla poco, e quasi sempre sussurrando). Ma quello che non va – e non andrà più come prima – è Tornatore che avrebbe dovuto concedersi qualche ulteriore riflessione a proposito della sceneggiatura, un susseguirsi di sequenze chiave ricche di colpi di scena che non impressionano più di tanto, per giunta ammosciate da dialoghi troppo letterari per essere convincenti: e, alla fine, un’ora e tre quarti di sogni e visioni interamente costruite sul corpo della bella Monica, con contorno di abusate macchiette paesane, finisce per annoiare anche lo spettatore meglio disposto. La ricostruzione d’epoca, apparentemente calligrafica, è resa banale nel tentativo di fare del film un prodotto worldwide. La sceneggiatura di Tornatore parte dal soggetto di Luciano Vincenzoni, grande scrittore di film di successo (Il gobbo, I due nemici, La grande guerra, Sacco e Vanzetti, Giù la testa ecc.), ma mostra subito le corde: è un susseguirsi di luoghi comuni, cose già viste e riviste, citazioni, tributi. Non si riesce a comprendere come uno che il cinema lo sa fare non si limiti a farlo, lasciando, quando serve, la scrittura a specialisti di storie e di scrittura. Da Malèna in poi Tornatore mi piace sempre meno e quando voglio rivedere l’ottimo uomo di cinema vado a pescare nella mia raccolta di DVD i suoi film che apprezzo, naturalmente in diverso grado e per motivi diversi (Il camorrista, 1986; Nuovo Cinema Paradiso, 1988; Una pura formalità, 1994; L’uomo delle stelle, 1995; La leggenda del pianista sull’oceano, 1998) (13) e i documentari in cui trovo il miglior Tornatore e fra essi quello che apprezzo maggiormente (L’ultimo gattopardo: Ritratto di Goffredo Lombardo, 2010) (14) . Devo infine ringraziarlo per aver prodotto il film di Roberto Andò Il manoscritto del principe (2000) (15).

Piazza Duomo sotto il sole ha assunto un aspetto quasi metafisico. Rimandiamo la visita all’Ipogeo che sta proprio sotto di noi e ci spostiamo nella vicina Chiesa di Santa Lucia alla Badia a vedere Il seppellimento di Santa Lucia (1608) di Caravaggio, che lì è ospitato.

Poi breve giro dei dintorni, Fonte Aretusa e il piccolo ma interessantissimo Acquario tropicale. Infine barca e riposino.

 

Note

(1)     Termine dialettale per indicare la pianta del Ficodindia (Opuntia Ficus Indica). I frutti si chiamano bastaddi di ficudinia, perché si ottengono dalla seconda fioritura delle piante dopo aver scutulato (abbacchiato) la prima. L’operazione è necessaria perché garantisce frutti più grossi, con più polpa e saporiti. I frutti della prima fioritura sono più ricchi di semi e il buon senso popolare consiglia di non mangiarli o mangiarne pochi al fine di evitare l’effetto ntuppaculu, il cui significato non necessita di approfondimento.

(2)     Sicuramente attive dal Quattrocento. Nei pantani si trovano tracce di vasche risalenti al periodo di colonizzazione greca.

(3)     La Torre Sveva, costruita probabilmente da Pietro d’Aragona, conte di Alburquerque e duca di Noto (1406-1438), nonché fratello di Alfonso V d’Aragona, re di Spagna e Sicilia (1416-1458), testimonia l’interesse strategico dell’area per la difesa della costa. Dopo un secolo la struttura fu rimaneggiata dal viceré Juan de Vega, facendo assumere alla struttura la forma attuale. La torre veniva utilizzata come punto di vedetta e segnalazione contro le scorribande di navi di pirati ed eventuali attacchi nemici.

(4)     La costruzione della Tonnara di Vendicari detta anche Bafutu risale al Settecento. L’attività dello stabilimento ha avuto fasi alterne, periodi floridi a periodi di chiusura in base al costo del prodotto e alla concorrenza delle vicine tonnare di Marzamemi, Avola, Noto e Siracusa. Sospese definitivamente l’attività nel 1943, in concomitanza, se non a causa, dello sbarco delle truppe alleate.

(5)     Nella Sicilia orientale è la granita di mandorla, che va gustata con l’apposita brioscia dal mitico capezzolone o, suprema raffinatezza, con la mafalda ancora calda. La mafalda è un pane tipico siciliano caratterizzato da un impasto fatto con semola di grano duro, dalla peculiarissima forma a serpentello e ricoperto di semi di sesamo. Ha origine antiche ed il nome è una dedica a Mafalda di Savoia. Ancora caldo, tagliato nel senso della lunghezza e farcito con due fette di mortadella – quella di una volta, con il pistacchio dentro. Incartato per la ricreazione (ai tempi della scuola media, poi del ginnasio e del liceo) alla ricreazione non arrivava. Il profumo e il calore impedivano qualsivoglia resistenza. Veniva mangiato di nascosto, in classe e l’odore di mafadda c’a muttadella, tutt’uno originale e indimenticabile, riempiva l’aula distratta.

(6)     Coturnice. Alectoris graeca, appartiene come la quaglia alla famiglia dei Fasianidi. Sono minacciate a causa del deteriorarsi del loro habitat e della caccia eccessiva laddove ancora permessa.

(7)     Artemide. Identificata a Roma con la Diana italica e latina. Figlia di Latona e Zeus, sorella gemella di Apollo, è dea della caccia, vergine selvaggia. Insieme col fratello mise a morte i figli di Niobe: lei uccise le sei femmine e il fratello i sei maschi.

(8)     Muletto. Cefalo o muggine. È una specie eurialina, in grado, cioè, di vivere senza problemi in acqua dolce o anche molto salata. Insidiato dai pescatori sportivi a causa della buona carne. Con le uova si prepara la bottarga di muggine.

(9)     «Di Alfeo ultima dimora, / Ortigia, gloriose radici della potenza di Siracusa, / Culla allora di Artemide, / Da te, o sorella di Delos, si innalzi il canto / Addolcendo a prezzo alto […]» [Pindaro (518-438 ac), Odi]

(10)   Porta Marina. Ortigia in epoca spagnola divenne una tra le fortezze più inespugnabili d’Europa. Venne dotata di alte mura che la circondavano, di ponti levatoi, forti, bastioni e porte. Grande parte di queste fortificazioni dopo l’Unità d’Italia venne distrutta.

(11)   Castello Maniace. Prezioso gioiello dell’architettura del periodo svevo; costruito per volere dell’Imperatore Federico II prende il nome dal capitano bizantino Giorgio Maniace. L’originario sistema difensivo, situato sull’estrema punta dell’isola, che chiude ad est il Porto grande, ha subito nel tempo profonde ristrutturazioni e rifacimenti a seguito di gravi danneggiamenti subiti, come per il terremoto del 1693 e l’esplosione del deposito delle polveri provocata da un fulmine nel 1704.

(12) Miqwè (bagno rituale ebraico). La presenza di comunità ebraiche a Siracusa è segnalata a partire dal I secolo, fino all’espulsione avvenuta nel 1492. C’era una sinagoga, poi trasformata in chiesa cristiana e di bagni rituali.

(13) I Dvd dei film sono disponibili su Amazon o su Ibs.

(14) Il Dvd del documentario, corredato di materiali interessanti è disponibile al costo di € 22,90 presso Cinema italiano.info.

(15) Il manoscritto del principe (2000). “Storia de Il Gattopardo”, il romanzo del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, capolavoro della nostra letteratura del novecento, bocciato in prima istanza da Vittorini (Einaudi). La figura del principe emerge attraverso il rapporto fra due suoi allievi. Davvero accattivante e preziosa la ricostruzione del quotidiano del principe. Interessanti anche molti dialoghi in chiave squisitamente accademica: Lampedusa era uno dei massimi esperti di letteratura inglese e francese.

 

[Piccolo cabotaggio. (12). Da Isola Piccola a Lisca Bianca (prima parte) – Continua]

 

3 Comments

3 Comments

  1. Gabriella Nardacci

    6 Giugno 2017 at 11:26

    Ho letto con piacere e interesse l’articolo di Tano Pirrone. Ho seguito il suo andare per mare alla scoperta di isole di cui non si sente mai parlare e che nascondono tesori immensi dove il silenzio è il linguaggio della natura in tutte le sfumature di colore nonché habitat ideale e prezioso per animali e piante.
    Il grande amore per la Sicilia è così manifesto in questo suo sguardo intimo e orgoglioso, che pare di esserci. Anfratti, rocce, fondali e il “mare stanco”, arrivano dentro… Per chi ha il mare amico, non è difficile che improvvisamente si senta in una condizione così ideale.
    Ebbene sì! Esistono dei luoghi così belli che non si può non ricorrere al mito per descriverli. Ed ecco che la natura esplode nella sua bellezza dopo essere stata toccata da dei e ninfe che si rincorrono per prendersi e fondersi originando la bellezza quasi come nella concezione naturalistica di Muller ma anche razionalistica di Socrate. Il mito come raziocinio della fantasia, per dirla a modo mio…
    E dal mito al cinema di Tornatore il passo non è così lungo… Io amo spudoratamente il cinema italiano così come la letteratura italiana con particolare riferimento a un mio grande “faro”, Giovanni Verga. Tutto il neorealismo fa parte di un amore tutto mio verso questo genere.
    Per quanto si possa aver detto male di questo film (Malena – NdR), io l’ho sempre salvato se non altro per la somiglianza con altri paesi che non sono siciliani ma che fanno parte di un’Italia dove il pregiudizio è mascherato da falsi moralismi e dove la bellezza di una donna, può portare all’odio fino alla cattiveria che fa male dentro e fuori.
    Ben venga chi ne riparla e ne rappresenta la realtà!
    Tornatore ha il grande pregio di sorprendere. Può passare dalla nostalgia di Nuovo Cinema Paradiso al “melodramma tout court di Malena; può rendere i sogni protagonisti in un paese distrutto dalla guerra con L’uomo delle stelle e far sentire il dolore per la possibilità che il passato possa essere anche dimenticato in Bagheria (quando Peppino torna al paese con la sua valigia, qualcuno gli chiede dove sta andando. Nessuno si è accorto della sua assenza…); può introdursi in contesti moderni dove il virtuale può anche illudere e far soffrire con la La miglior offerta che riporta alla solitudine ma con lo sguardo oltre le apparenze, belle o brutte che siano (aggiungo io).

    Aspetto la seconda parte di questo scritto di Tano Pirrone.
    Lo ringrazio per avermi dato la possibilità di ragionare su tante cose che sento in modo particolare.
    Cordialmente.
    Gabriella Nardacci

  2. Tano Pirrone

    6 Giugno 2017 at 17:01

    Gentilissima Gabriella,
    nella seconda di copertina del libro “Cerchi infiniti, Cees Nooteboom, Iperborea”, l’editore presenta il libro (che sta in attesa di essere letto, nell’affollato apposito angolo della mia scrivania): “Certi viaggi hanno l’obiettivo segreto di «estraniarti dalle tue origini», «scardinarti l’esistenza»: «soltanto allora sei stato veramente via, così altrove da essere forse diventato un altro»”.
    Altri viaggi, come quello – sempliciotto e domenicale – in cui mi sono avventurato, io transfuga, io evaso, io emigrato – pur per amore – hanno l’effetto proprio di “ricondizionarti” alla condizione di partenza, per trovare e comprovare l’identità residua, essenziale e vitale, irriducibile. Quel che rimane di una vita in fuga.
    Tano

  3. Patrizia Maccotta

    6 Giugno 2017 at 19:23

    Che magnifico giro! Come mi sarebbe piaciuto vedere la distesa dei fichi d’India (figues de Barbarie in francese).
    La piazza bianca di Ortigia ha lasciato stupefatti dei miei amici francesi… e anche noi!

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