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Il corpo della barca, blu fasciato da una striscia gialla, giace nella catena, inghirlandata dalle viti, ora di un verde chiaro e tenero.
“Dove sei, Michele?” – chiamo. L’amico sta operando sullo scafo del natante. Nascosto alla vista. La sua barca è di legno e abbisogna ogni anno di essere ripulita. Il mare corrode, con le alghe, i vermicoli, lo sporco acido galleggiante nel porto.
L’amico vi si dedica in questo tempo, quando la primavera si fa solleticare dal maestrale fresco in contrasto col sole che fa le prove di calore. Sfrecciano le rondini intorno a noi e i versi dei gruccioni animano l’aria.
Ne accarezza il legname, l’amico, con la raschietta, e la barca sembra godere di quell’attenzione. Fra qualche giorno, luccicante di smalto, prenderà il mare.
Non è lo stesso dell’anno passato. In questi giorni sono stati visti saettare lungo le nostre coste alcuni delfini. Giocavano intorno ai nostri scogli, che attirano i volatili migranti in questo periodo dell’anno.
La nostra è una terra che genera felicità. Lo sapevano i nostri vecchi che ne benedicevano i frutti e il ricordo. Chi cerca di instillare disprezzo facendola apparire madre di rancori è estraneo alla nostra indole, e sia lasciato nell’indifferenza. È gente che non ci appartiene, come dicevano i nostri avi.
Michele sbuca da sotto la chiglia, con lo sguardo mi indica un canotto a remi nei pressi della Ravia. Forse sta lanciando la trappola mortale al polpo in agguato. Sembra immobile vicino al grande scoglio, e invece tutto è animato come da regia.
La nave Carloforte spunta da lesigavie, la motovedetta della Guardia costiera esce in perlustrazione, gli uccelli saltellano nell’erba e Michele sorride di primavera.