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Non rammento che anno fosse, ma credo uno degli ultimi in cui ho insegnato italiano ai rifugiati presso il Centro Astalli (Padri Gesuiti) dove sono rimasta dal 2000 al 2006.
Avevo come sempre una ‘classe iniziale’, cioè di persone che sono ai primi approcci con la lingua o eventualmente la parlano, ma non sono in grado di leggere e scrivere.
Una mattina è entrato N. un ragazzo di circa vent’anni, un po’ impacciato, poco scolarizzato; aveva una gran voglia di imparare ma anche tanto orgoglio che gli impediva di chiedere, di ammettere di non aver capito.
– Da dove vieni? …Tuo paese? … Il mio è l’Italia, il tuo? – ho chiesto con l’ausilio di mimica e carta geografica.
– Turchia – ha detto tra i denti.
– Kurdo? – E la sua bella faccia tonda da montanaro si è aperta in un sorriso.
Il governo turco definisce i kurdi “turchi della montagna” per negare la loro identità, forse con un che di disprezzo, ma molti vivono davvero tra i monti o nei pressi.
N. era orgoglioso della sua terra, della sua famiglia, della sua vita, man mano che apprendeva si scioglieva nel racconto fatto non di frasi complete, ma chiaro.
Ormai sorrideva spesso, addirittura rideva alle spalle dei compagni che sbagliavano, li prendeva in giro. Sapevo benissimo che così esorcizzava la sua paura di sbagliare, ma su questo non potevo transigere.
Un giorno ho proposto una merenda insieme, come facevo spesso durante l’anno, bastava cogliere un’occasione da festeggiare: la fine del Ramadan (il mese di digiuno previsto dalla religione islamica in cui non si mangia e non si beve dall’alba al tramonto), il Natale, il Carnevale… Portavo pizzette, panini mignon al formaggio, dolci di vario tipo, frutta, bibite.
Era un modo per stare insieme un po’ più rilassati, per dare una piccola opportunità di tranquilla condivisione anche a chi viveva per strada, per imparare parole nuove e fermarle meglio nella memoria.
Hanno sempre gradito tutti, anche le studentesse che ho avuto.
N. si è rabbuiato, un lieve rossore gli è salito al viso. Non capivo.
Gli ho chiesto di aiutare me e un altro compagno a distribuire, ma lui non si è mosso.
Mi sono avvicinata e gli ho domandato che stesse succedendo: il suo volto aveva un’espressione profondamente triste che faceva male.
N. non padroneggiava ancora la lingua, ma sapeva farsi comprendere, in quel caso non riusciva proprio ad articolare parola.
Lentamente, ha cominciato a dire: – …Panna, burro… mia casa…
Insieme abbiamo sciolto i nodi: pensava che io avessi offerto quella merenda perché loro erano poveri e allora con orgoglio mi diceva che se io fossi andata a casa sua, lui avrebbe avuto da darmi ogni bendiddio… Qui no, ma a casa sua sì.
Ho cercato in ogni modo di rassicurarlo, ma quello che l’ha convinto ad accettare qualcosa è che anch’io ho mangiato, bevuto e scherzato con tutti loro.
È un altro anno scolastico, una classe diversa. Al primo banco a sinistra oggi si è seduto un giovane uomo: A. Ha un’aria triste, chiusa, insofferente.
Mi dice di essere un kurdo della Turchia. Per metterlo a suo agio, gli sorrido, faccio un piccolo sfoggio di ciò che conosco del suo popolo diviso in cinque stati, delle lotte per il riconoscimento dell’identità (anche se so che sono divisi politicamente) e dei diritti che ai kurdi vengono negati dai governi a cui sono sottoposti, qualche accenno alla cultura. Lui mi guarda con gratitudine, ma non ricambia il sorriso.
Dopo qualche giorno, in cui A. ha assistito al volontario racconto di altri studenti della propria storia, mi confida con un filo di voce che in Kurdistan ha lasciato una moglie e due figli piccoli, che non li vede da tempo, mi mostra le foto. E’ stato due anni in Germania, dove ha parenti e amici, fra breve deve trasferirsi in Francia. Ha 33 anni, ma è stanco di questo peregrinare senza potersi fermare a lungo da qualche parte, è stanco di non poter decidere quando tornare a casa per rivedere i suoi cari. Ha molta nostalgia della sua terra e della sua famiglia. A. è un militante del PKK (Partito dei Lavoratori kurdi, il partito di Öcalan detto Apo, più tardi imprigionato per terrorismo nelle carceri turche, dove è tuttora); non lo dice apertamente, ma è intuibile.
Dopo pochi giorni A. non viene a scuola, chiedo in segreteria, ma nessuno sa niente.
Da giugno 2006 insegno italiano ai migranti vicino alla Stazione Termini, in Via Giolitti, è la scuola dell’Associazione laica Casa dei Diritti Sociali che accanto ha uno sportello che si occupa di lavoro, casa, salute e difesa legale di immigrati e italiani emarginati.
In questa scuola, dati: l’ubicazione, l’offerta di quattro lezioni al giorno e il fatto che non chiude praticamente mai (dicembre e agosto compresi) salvo i fine settimana, studenti e studentesse giungono con il passaparola da tutta Roma e da fuori, perciò il numero delle presenze, specie fino a due anni fa, era esorbitante in termine di sicurezza per le aule non troppo capienti, tanto che abbiamo previsto un insegnante – almeno mezz’ora prima dell’orario – che scriva i nomi in ordine di arrivo. Chi rimane escluso è invitato a presentarsi in anticipo alla lezione successiva.
H. è un giovane uomo piuttosto bello e, direi, accattivante, ha un’espressione molto dolce e triste. Vive con altri kurdi in una casa non lontana dalla metro Piramide. Ci fermiamo spesso a parlare prima o dopo la lezione, fuori della scuola.
Nel suo italiano ancora stentato mi racconta che lo hanno mandato via dalla Germania, dove ha parenti e anche la moglie e due figli. È la spietata regola imposta dall’accordo di Dublino di non so più quale anno: se ti ‘beccano’, ti rispediscono nel primo paese dove hai messo piede in Europa. E lui anni addietro era sbarcato in Italia. Non importa dove siano i tuoi affetti, dove puoi avere qualche possibilità in più di lavoro, quale lingua conosci, sei rimandato là dove sei arrivato la prima volta e forse non ti sei neppure fermato un giorno.
H. è un tipo quieto, preso dai suoi pensieri e dalle sue preoccupazioni, però ama socializzare. La nostra scuola che è prima di tutto un luogo di accoglienza per tutti/e non risponde alle sue esigenze di maggiore tranquillità e continuità di rapporti. Gli dico che non c’è problema: siamo collegati in una grande Rete di scuole per migranti di Roma e Lazio, lo accompagnerò in una scuola vicina a dove vive, sono sicura che si troverà a suo agio. Così la settimana successiva ci diamo appuntamento alla metro Piramide e insieme andiamo alla scuola di Asinitas (*), in Via Ostiense, vado con lui per alcuni giorni.
H. si trova bene, si inserisce perfettamente nella classe iniziale e può proseguire da solo.
Mi limito ad accompagnarlo dal medico di base per la prima visita. Ogni tanto si affaccia alla nostra scuola per salutare le insegnanti o qualche studente con cui ha stabilito un rapporto, segue anche delle lezioni, da noi è possibile poiché non esiste il gruppo classe definito. Mi confessa di aver fatto una ‘fuga’ in Germania per rivedere i familiari.
Fa progressi nell’apprendimento della lingua, lo constato direttamente e lo so dalle insegnanti di Asinitas che conosco bene.
Alla fine dell’anno scolastico Asinitas presenta una mostra con i lavori fatti dagli studenti: una sorta di ‘plastici’ in miniatura con materiali diversi, dal legno alla carta, alla cartapesta…
C’è anche il lavoro di H., ma lui no. Mi dicono che è rientrato in Turchia perché la moglie e i figli sono stati espulsi dalla Germania e lui qui non ha potuto creare una benché minima alternativa per sé e per loro.
Asinitas. Centro interculturale per migranti. Uscite all’aperto
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(*) – L’associazione Asinitas Onlus si occupa di educazione e di intervento sociale, con le finalità di promuovere attività rivolte alla cura, all’educazione-formazione, all’accoglienza e alla testimonianza di persone minori e adulte, italiane e straniere ( http://www.asinitas.org/ )
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[L’etnia kurda. (2) – Continua]