Racconti

In giro (3)

di Pasquale Scarpati

La strada dove dovrà passare la processione è stata ben pulita da Cicciariello che ha ramazzato con una scopa fatta da un robusto e ruvido manico e da rametti di salice. La punta di tale scopa è consunta ed ha assunto una forma obliqua. A Ponza si precorrono i tempi: si fa già la raccolta differenziata.
Alcuni, infatti, raccolgono da terra i mozziconi di sigarette. Uno di loro, Acciapp’ Acciapp’, per esporre la sua merce, ha pensato bene di non usare né sporta né carretto ma di affiggerla sul petto con spille da balia, come se fossero trofei o mostrine o alamari; per non abbassarsi, ha ideato un bastone che ad un’estremità tiene ancorato uno spillo che, tra l’altro, fa parte della sua mercanzia. Pertanto, senza sforzo per la colonna vertebrale, porta direttamente in mano ciò che fino a poco tempo prima riposava tranquillo sul basolato o nelle scanalature e lo fa scivolare velocemente in tasca. Poi forma le gustose sigarette con un pezzo di carta paglia o foglio di giornale.
Genoveffa, però, non si lamenta. Ma non è l’unica volta che le strade vengono pulite più accuratamente del solito.

Forse per far sì che le strade dell’Isola siano pulite più di frequente o forse perché l’Isola è tanto lontana dalla terraferma che sembra abbandonata dal resto del mondo, i suoi abitanti pensano bene di affidarsi massimamente alle cure dei Celesti. Per questo quasi ogni mese un santo esce dal suo tabernacolo (come recita una famosa poesia di Saba).
Non solo, infatti,  ci si incammina per le vie del paese in onore di  S. Silverio il giorno 20 di giugno e per l’Immacolata o per la processione del Cristo morto, ma si porta in processione, nel giorno stabilito, il quadro della Madonna di Pompei e poi Santa Filomena ed i santi dottori SS. Cosma e Damiano – processioni meno importanti che non oltrepassano il tunnel di Giancos– oltre ovviamente a San Silverio alle Forna, alla Madonna Assunta, a San Giuseppe, alla Madonna della Civita, al Corpus Domini.

La processione del venerdì santo si divide in due tronconi. Da una parte il Cristo morto, dall’altra la Madonna Addolorata.
La prima attraversa corso Carlo Pisacane, la seconda scende dagli Scarpellini. Si canta in processione: “Sono stati i miei peccati…” mentre la banda intona marce funebri.
Le candele rischiarano l’oscurità e penso che avrebbe sortito un certo effetto vedere dal mare la lunga processione di fiammelle oranti.

La settimana santa è un periodo triste che inizia il giovedì con la lavanda dei piedi e l’esposizione dei Sepolcri. In chiesa, infatti, tutto è buio ed anche le statue dei santi sono coperte da un velo grigio scuro; unica luce: le candele che rischiarano, per l’appunto, i Sepolcri.
Mamma mi ha raccontato che anticamente si spegnavano tutte le candele e si faceva un gran baccano strofinando e smuovendo sedie e banchi, forse per simulare un terremoto. Rimango un po’ perplesso quando vedo che il Cristo in croce ha le braccia che possono essere schiodate dal legno, così i piedi, come se fosse un vero cadavere. Immediatamente il mio pensiero corre al film “Marcellino pane e vino” in cui un bambino dialoga con il Signore sulla croce e poi questo scende dalla stessa per accogliere la sua anima. Per questo il crocifisso mi turba e non riesco a capire il motivo per cui sia stato  inserito tra le statue dei Santi che ornano la chiesa della SS. Trinità. Ma tutto mi diventa più chiaro allorché sulla Punta Bianca, a processioni riunite, si commemora visivamente la Passione.
Io non partecipo né alla sacra rappresentazione né alla processione. La mia “processione” è avvenuta in anticipo: ho portato i pennicilli dai Conti, sottratti da qualche grotta di nonna Tumm’tella, alla spiaggia di Sant’ Antonio, dove è stato allestito il fucarazzo che deve essere concorrenziale a quello di bascio Mamozio.

Quando passa la processione gli diamo fuoco con i micciarielli, i cerini servono per le sigarette e noi, ombre, giriamo intorno alla catasta di legna come  indiani d’America danzanti intorno al totem. Ributtiamo nel fuoco i pennicilli che  rifiutano di andare incontro al loro destino e cerchiamo di conservare qualche tuocco può grosso per ultimo, perché poi il giorno dopo siamo sicuri che ci sarà un’accesa discussione con “quelli del Porto”.
Essa verterà su due fattori: il primo è chi ha fatto il fucarazzo più grande e/o più alto, il secondo, quasi per ulteriore confronto, quale fuoco sia durato più a lungo. In verità finisce tutto lì e restiamo più amici di prima.

Una volta decidemmo di farne un terzo davanti al vapoforno sulla Banchina Nuova: fu letteralmente un fuoco di paglia sia perché era costituito soltanto da cartoni e pennicilli, sia perché non ripetemmo più quell’esperienza.

La processione di San Silverio procede lentamente. Esce dalla Chiesa alle undici del mattino anche se piove, oppure, come avviene più spesso, sotto una calura opprimente. Mi  raccontarono che una volta un parroco, forse Monsignore, per evitare questi fastidi, propose di posticiparla nel pomeriggio. Fu aspramente contestato e così la tradizione  si salvò.

E’ l’unica processione che si allunga fino a Giancos, vicino alla casa del mio amico Peppe, dove è posto un tavolino che funge da altare per dare la benedizione. A Giancos, pertanto, la processione si incrocia e poi si ferma, in attesa della benedizione. Nel ritorno, a Sant’ Antonio, ad un certo punto, essa si disunisce e tutti si accostano alle case.

Vittorio ‘u carcerier’, infatti, dà il via alla batteria sulla vicina spiaggia. I fuochi d’artificio mi sembrano grandiosi, rimbombano dovunque.
Vorrei avvicinarmi ma qualcuno mi afferra saldamente e rudemente per un braccio. “ Addo’ vaie”, mi dice zio Pasquale comparso all’improvviso, “ statt’ ‘cca e nun t’ move!”. Finiti i fuochi, la processione riprende la sua strada fino a che il Santo rientra in Chiesa accompagnato dal suono delle sirene dei natanti presenti nel porto su cui emerge, se è attraccato in banchina, la voce baritonale del “Ponza”; la banda intona l’Inno di S. Silverio a cui risponde il canto gioioso di tutto il popolo. Si celebra un’altra Messa e poi, mentre il sagrestano spegne le candele poste più in alto con lo stutacannele (attrezzo formato da una canna alla cui estremità è attaccato un piccolo cono), si torna a casa dove ci attende un pranzo un po’ particolare e/o più ricco rispetto agli altri giorni.

Questo viene gustato perché l’appetito non manca sia per la lunga passeggiata sia per l’ora insolita. Si pranza in allegria ed anche piuttosto in fretta perché la festa non è finita ma continua, densa di avvenimenti.

Annamaria Annunziata - Pinocchio nel paese dei balocchi -olio su tela

Nel primo pomeriggio ci attende, infatti, il gioco tradizionale: la gallina. Già il lungo palo spalmato di sapone si allunga sul mare giù alla banchina, là dove Muscardino fa la spola con la nave per scaricare la merce; già il volatile è stato appeso alla sua estremità. I primi ardimentosi si cimentano per passare sulla palo reso scivoloso, per afferrarlo ma, disegnando strane e grottesche figure nell’aria, a guisa di clown-ballerini, cadono inevitabilmente nell’acqua.
Quello che possiede  riflessi più pronti riesce a fare la summuzzata, qualche altro, invece, fa una bella panzata sollevando spruzzi d’acqua. Ciò provoca ilarità costante. Mi sembra  Paperissima ante –litteram. Si fa il tifo per questo o per quello a seconda della zona da cui viene. Dopo una serie di tentativi infruttuosi sembra quasi che qualcuno di loro ce la fa. Ma un cattivone che sta nelle vicinanze su una barca, forse lo stesso Muscardino, insapona di nuovo il dannato palo, vanificando ogni sforzo. Di nuovo si ripetono i gesti inconsulti. Si vedono i piedi irrigidirsi nel tentativo di afferrarsi al palo scivoloso, le braccia gesticolare come se dovessero afferrare o schiaffeggiare qualcosa che in quel momento, non visto, passi per aria ed infine il tuffo liberatore accompagnato dalle grasse risate di noi spettatori assiepati sul muro della piazza vicino alla Punta Bianca, il posto migliore, o nei pressi della banchina. Qualcuno che ha disponibilità gode la scena dalla barca.
Finalmente l’animale viene ghermito dal vincitore. Ma oramai si è fatto tardi e bisogna pensare alla festa della sera quando, sul palco formato da tavoloni e fusti, si esibirà qualche cantante e noi scorrazziamo liberamente…

Il giorno successivo, per me, è ancora più festa, sia perché è l’onomastico di mio padre sia perché nel primo pomeriggio si dà il via ai giochi. Già i partecipanti si sono radunati a Sant’ Antonio, già noi ci siamo accalcati per prendere i posti migliori. Di norma essi si svolgono nello slargo tra il negozio di Luigino e la casa del notaio De Luca.

La corsa nei sacchi inizia dal ‘ruttone di Sant’ Antonio, a seguire quella con il cucchiaio stretto tra i denti in cui è riposta una patata. Non manca la pasta asciutta piena di peperoncino, innaffiata a volte da abbondante liquido e la moneta attaccata  ad una padella annerita dal fumo. Ma il gioco più singolare è quello della tinozza…
Una tinozza colma d’acqua viene sospesa con due funi. Attaccata alla tinozza e al centro di essa c’è una tavoletta con un buco in alto (sicuramente serve per appenderla alla parete di qualche cantina). Due concorrenti a cavalcioni; quello più in alto, come un legionario romano che sta per lanciare il giavellotto, brandisce un bastone che deve cercare di infilare nel buco. Il tutto deve avvenire correndo. Qualora non ci riesce le conseguenze sono due: o il colpo va a vuoto oppure, se colpisce la tinozza, la doccia è inevitabile. Quando qualcuno, finalmente, riesce a porre l’asta nel buco, si scatena l’applauso accompagnato dalle risate, dagli sghignazzi conditi ovviamente da battute ironiche…

Non so  quali siano i premi messi in palio, fatto sta che il divertimento è assicurato e sembra che tutti ambiscano partecipare.

Le immagini sono particolari dei dipinti di Annamaria Annunziata – per gentile concessione dell’Artista

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