di Pasquale Scarpati
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Un giorno, finalmente, i due fedifraghi si decidono ad accogliermi nell’abitacolo. Quella mattina ben volentieri mi alzo presto e offro un valido aiuto a caricare la merce: prima quella che dovrà essere consegnata ai clienti più lontani, quelli della Calacaparra, e così a mano a mano fino all’ultimo pacco o ultimo sacco, per il cliente più vicino. Si carica un po’ di tutto: sacchi di patate, granone, vrenna, pacchi di pasta messi in scatoloni di cartone ed altra merce. Quando si è caricato tutto nel cassone fino all’inverosimile ed abbiamo chiuso i piccoli sportelli, zio Peppe, come un cavallerizzo, si pone al posto di comando; mio fratello si siede sullo strapuntino ed io mi appoggio al serbatoio della benzina alla destra del guidatore. Un colpo secco di pedale ed il motore, rombando, si avvia. Tutto trema, la cabina è frastuono, ma è musica per le mie orecchie. A stento riesco a sentire quello che mio zio mi dice, ma non importa. Il rumore diviene più assordante allorché si innesta la prima e si parte poi, mano a mano che si innestano le altre marce, il motore si acquieta un pochino. Ma sulla banchina nuova è tutto un sobbalzo, mi afferro ad ogni appiglio ad eccezione della porta.
Non appena si imbocca la strada asfaltata nei pressi d’u ’ruttone di S. Antonio tutto diviene liscio come l’olio. Fuggono gli alberi di S. Antonio e di Giancos. Come un pugile a cui è stato inferto il KO, così viene steso il buio d’u ’ruttone di S. Maria, rischiarato dalla fioca luce dei due fari. All’uscita inizia la salita, ma subito si imbocca la strada che porta alla chiesetta dedicata a San Giuseppe; sul piazzale, la prima tappa: Cummarella. Mentre zio Peppe e mio fratello consegnano la merce, io mi metto al posto di guida e fingo di guidare; dopo un po’ sono disarcionato e costretto a rientrare nel mio cantuccio. Finalmente si affronta il primo lungo tratto. Velocemente si oltrepassa la grotta del Serpente, poi una serie di curve tra cui quella di Frontone; questa volta le ranocchie sono lasciate in pace a gracidare sul bordo del loro pantano. Ecco l’ampia curva del Cavone e poi un’altra tappa: quella dei Conti.
Quasi subito proseguiamo, il motore arranca per il peso forse eccessivo: odore di benzina e caldo vicino alle caviglie. Zio Peppe smanetta sulla leva delle marce ed ogni tanto, quando sente che il motore non ce la fa più e perde giri, schiaccia con il piede un piccolo pedale che si trova alla sua destra: è la cosiddetta ridotta. Si affronta la curva a gomito che porta a Trebbiente (Tre venti – NdR) e poi l’altra che piega verso sinistra, dove alcuni dicono di avere visto, di notte, aggirarsi fantasmi e spiriti maligni. L’occhio si fa più attento; nello stesso tempo cerco di aprire con uno strappo il finestrino che invece recalcitra perché nessuno mai gli ha usato violenza; alla fine cede e l’aria fresca e profumata della macchia mediterranea invade l’abitacolo.
Sporgo, per quanto posso, il viso fuori, respiro a pieni polmoni, lasciando che i miei occhi si riempiano di lacrime per il vento, ma non li chiudo perché per me è tutto nuovo. Di qua, da lontano,uno scorcio della baia del porto poi, proseguendo, lo scenario varia: non più il versante di levante ma quello verso occidente, verso Palmarola. Si transita al di sopra della spiaggia di Frontone che, però, dalla strada non si vede; si notano invece, lungo le pendici di Trebbiente, quasi vicino al mare, delle grotte disabitate. Non vi sono case, da ogni parte domina la macchia mediterranea. La strada diviene meno faticosa per il motore; si riesce, così, a mettere anche qualche marcia più alta.
Dopo una curva che piega verso destra ci viene incontro la prima casa: siamo arrivati ’n’coppa ‘u Camp’ dove ci sono ‘quelli dell’Aviazione’, circondati da altre case. La strada si è fatta leggermente più pianeggiante, in attesa delle futura discesa, che giunge all’improvviso e ci porta nell’altro versante dell’isola.
Lo scenario che si presenta è diverso e inconsueto ai miei occhi. Il mare non appare più vicino ma molto lontano. Colline degradanti più dolcemente verso ponente e settentrione impediscono alle case delle Forna di confrontarsi con quelle di Ponza Porto. Esse, verso levante, cadono a strapiombo nel mare, quasi a voler celare e/o proteggere coloro che abitano nell’altro versante e formano come una muraglia che sembra voler offrire un’ulteriore sorpresa a chi, spinto dalla curiosità, si affaccia da quelle parti.
Per lo più case sparse lungo le pendici, seminascoste dalla macchia mediterranea; alcune si ammucchiano laggiù fino a toccare il mare cristallino e libero quasi del tutto da intralci ideati dagli uomini per soddisfare le loro esigenze. Uniche presenze: una piccola scogliera ed un pontile. Dall’alto della curva si vede la strada asfaltata discendere serpeggiando, seguendo i costoni delle colline. Poi, nei pressi della Chiesa, altre case sono disposte ai suoi bordi così da nasconderla. Ma per quanto il mio occhio si allunghi, non riesco a scorgere dove finisca, per cui immagino scenari inconsueti e nascosti.
Appena imboccata la discesa, ci fermiamo nei pressi di un piccolo varco che interrompe il vecchio muretto piuttosto basso, su cui, a tratti, si affacciano ’i rustine, che nel mese di agosto espongono la loro merce pregiata: le more. Dal varco si dipartono consunti scalini che portano alla case di abbasci’u camp’. Non c’è nessuno. Il silenzio domina incontrastato e invita a cercare con gli occhi gli angoli più seducenti e ad osservare i colori delle rocce e delle case e le loro sfumature. Una leggera brezza sale dal mare e tenta di mitigare la calura che già avanza, pur non essendo il sole ancora alto nel cielo. Nei pressi dell’apertura si lascia, del tutto incustodita, la merce per zia Restituta e ‘Galisi’ detto Baraccone, che sicuramente avranno visto e saliranno. Non c’è bisogno che paghino immediatamente: se non hanno pagato, il loro nome, al pari di quello di tantissime altre persone, verrà scritto in un quadernetto e verrà cancellato quando avranno l’opportunità di saldare il conto; tutto ciò è nella norma. Per i conti più onerosi, se non si possiedono i mezzi istantanei e/o sufficienti per saldarli, si ricorre o alle cambiali ‘pagherò’ oppure a quelle denominate tratte; per la spesa quotidiana, invece, si ricorre più semplicemente al quadernetto, fidandosi sulla parola; tutti tendono ad onorare il proprio debito per avere credito presso eventuali altri esercenti. Zia Restituta non solo gestisce una puteca ma è anche famosa per saper cucinare, in modo delizioso, il coniglio alla cacciatora.
Si riprende il cammino, questa volta tutto in discesa, per cui il motore rimane silente. Ci fermiamo nei pressi di una serie di curve: sopra ‘U pantano, dove scarichiamo altra merce per Tore Romano e Pacchianella.
[Viaggio alle Forna (2) – Continua]