di Rita Bosso
Il palazzo del Giudicato, nel centro di Ponza, ha impiegato un secondo per crollare, una quarantina d’anni orsono, fortunatamente senza fare vittime, e quattro decenni per essere ricostruito. La casa di Elisabetta e di Antonio detto Gianco, lungo la loggia, è allegra, funzionale, elegante senza fronzoli; la cucina, con una grande finestra sul porto, sembra dover mollare gli ormeggi da un momento all’altro e prendere il largo: è fatta a mo’ di plancia, dal che si deduce che ai fornelli ci sta chi è abituato a navigare.
Antonio va per mare da quando ha imparato a camminare; figlio di pescatore che, come tutti i colleghi, appena lasciava reti e coffe prendeva in mano la zappa, avrebbe voluto ereditare i mestieri paterni, pescare e occuparsi dei terreni di famiglia a Giancos, delle bestie, dei vigneti a Palmarola dove, per tutto l’anno, bisognava combattere con topi voracissimi ma in compenso, a fine agosto, si facevano belle vendemmie. Il padre, invece, voleva che studiasse; così, dopo qualche resistenza, a sedici anni Antonio andò a frequentare l’Istituto Nautico di Procida, la scuola della maggior parte dei ragazzi di una volta; col diploma di Direttore di Macchine sarebbe potuto entrare in Marina che, all’epoca, ricercava giovani con quella qualifica, ma la vita militare non lo attraeva; cominciò la serie degli imbarchi da sei, sette mesi, lontano dalla famiglia, dalla vita del paese… no, neanche quel lavoro faceva per lui. Poi un emigrato tornò dall’America, comprò una bella barca, la adibì ai giri dell’isola, gli chiese di dargli una mano, lui si rese conto che con i turisti si trovava bene… Ecco, è stato così, procedendo per prove ed errori, che Antonio è diventato Gianco: uomo di mare, di non molte parole perché Chi sta a terra chiacchiera, chi va per mare naviga. Insomma: per chi naviga, nostalgia e retorica sono zavorre inutili; chi spreca parole sul mare probabilmente non ha mai navigato, al massimo è uno skipper.
Facciamo due chiacchiere mentre armeggia tra tegami e scolapasta.
– La pesca è un settore senza futuro, secondo me. È stato interessante il tentativo dell’allevamento in mare; non furono i pescatori di Ponza ad avere l’idea, il progetto fu ideato, finanziato, realizzato e l’impianto fu consegnato ai pescatori bell’e pronto, ma l’attività non ha avuto successo ed è stata rilevata da un privato. Fu interessante anche il tentativo di creare un consorzio per collocare il nostro pescato sul mercato di Anzio, ma anche quell’esperienza non è durata. Ricordo quando nel porto di Ponza c’erano dodici, tredici zaccalee, ognuna delle quali dava lavoro ad almeno dieci uomini: centinaia di famiglie vivevano col ricavato della pesca, senza contare le barche piccole: quell’epoca si è chiusa, definitivamente – dice Antonio.
Funzionava così, fino a un paio di generazioni fa, nelle nostre isole: i mestieri di pescatore e di agricoltore si integravano e si tramandavano; l’ascesa sociale era rappresentata da un figlio laureato o almeno diplomato all’Istituto Nautico: avrebbe continuato a lavorare sul mare, ma da ufficiale, con divisa, buono stipendio, continuità, garanzie, pensione. Già al primo imbarco il giovane ufficiale giurava che mai suo figlio avrebbe fatto quella vita: imbarchi lunghissimi, ritorno in ambienti sempre più estranei, a cominciare dalla famiglia… Dunque, la storia lavorativa di molte famiglie isolane è una specie di catena con alcuni anelli di pescatori-contadini e, al termine, la maglia del figlio col diploma di capitano di lungo corso; il turismo sta allungando la catena con maglie nuove, diverse, imprevedibili; maglie che debbono essere inventate, non più trasmesse in eredità.
L’acqua bolle, Antonio soppesa la pasta, a occhio; io faccio le domande e ammiro il panorama, lui risponde e cucina.
Una ventina d’anni fa nasce la Cooperativa Barcaioli, di cui sei stato socio fondatore: come si concilia l’organizzazione cooperativa con l’individualismo isolano?
Neanche i clienti erano preparati: richiedevano di uscire col barcaiolo Tizio o con Caio, che già conoscevano e con cui si erano trovati bene; ma ciò non era in accordo con la nostra organizzazione del lavoro. Indubbiamente non è stato facile impostare il nostro lavoro secondo una logica a cui non eravamo abituati, alcuni dei soci non hanno resistito e sono usciti dalla Cooperativa; siamo rimasti in quindici, abbiamo tenuto duro, abbiamo considerato i vantaggi che derivano dall’organizzazione attuale. Già a gennaio noi pubblichiamo il nostro listino prezzi, al quale gli altri operatori finiscono per allinearsi. Facciamo scelte anche impopolari ed abbiamo la forza per attuarle: per esempio, abbiamo eliminato la spaghettata a bordo, pur essendo le nostre barche in grado di effettuarla nel rispetto delle norme igieniche
Mi sembra un atteggiamento troppo rigido nei confronti dei turisti, alcuni trovano piacevole e socializzante il momento del pranzo, durante la gita a Palmarola o il giro dell’isola
Noi della Cooperativa, invece, abbiamo ritenuto che si dovessero valorizzare altri momenti: la visita delle grotte, lo snorkeling… Quello che conta, comunque, è che abbiamo la possibilità di discutere tra noi soci, di valutare, di programmare e, alla fine, una volta assunta una decisione, la attuiamo; il singolo barcaiolo, invece, non ha la forza per imporsi, non può che accettare le richieste del cliente oppure adeguarsi alla programmazione degli altri operatori.
Quali prospettive vedi per i giovani?
I ragazzi avrebbero bisogno di una formazione più adeguata alla nostra economia; che senso ha sfornare ogni anno decine di ragionieri che non troveranno occupazione, e non avere un istituto alberghiero, un istituto nautico? L’uomo di mare non si improvvisa, senza la giusta formazione saliranno sulle barche dei ragazzi dallo stomaco delicato che, alla prima mareggiata, non reggeranno il mare: dei vomitastomaco, insomma
Se fossi sindaco e potessi realizzare un’unica, grande opera, cosa faresti?
Mi occuperei del porto. Ogni anno riceviamo parecchie richieste di approdo da parte delle navi crociera, che non possiamo soddisfare. Basterebbe costruire una banchina fuori del porto, nel punto in cui approdano le cisterne; lì, la profondità è di oltre venti metri, sufficiente per l’attracco delle navi crociera. Realizzerei il porto turistico, che porterebbe tanto lavoro: dall’attracco ai servizi collegati, dalle officine per manutenzione e riparazioni, alla custodia invernale. Ci sarebbe tanto lavoro, lungo l’intero anno; non assisteremmo allo spopolamento invernale dell’isola. In ogni tempo, in ogni isola, il porto è il cuore e cervello del paese, perciò partirei da lì – conclude, versando la pasta nei piatti.