di Gino Usai
“Nel 1912 nel cimitero di Ponza vi era una parte ben tenuta e pulita ed un’altra trasandata e trascurata, coperta di sterpi disseminata di croci in sfacelo, divelte e disseminate qua e là senza alcuna indicazione dei defunti.
Scrive il Rugarli nella sua Relazione: “Nella zona così mal tenuta, sono sepolti dieci degli arabi, qui deportati dalla Tripolitania e dalla Cirenaica, che morirono in Ponza, nella infermeria della colonia penale.
Io ne registro qui i nomi, non già per onorarli, giacché furono nostri in territorio guerreggiato, ma per l’importanza che ha il fatto storico, che merita d’essere segnalato e mandato ai posteri (…) Ho pur creduto di compiere un atto di civiltà facendo apporre sulle rispettive fosse una tabella segnalante il nome, cognome e la data del decesso di ciascuno.”
(…) Ma ci è di conforto sapere che, almeno a Ponza, furono trattati con una certa umanità, dalle autorità e soprattutto dal popolo.
(…) I padiglioni che ospitavano i libici (…) erano da considerarsi nel complesso ben areati e luminosi, dotati di servizi igienici e di rete fognaria. I prigionieri avevano vestiario e pasti caldi garantiti, bevevano l’ottima acqua del Serino portata da Napoli esclusivamente per il mantenimento della Colonia; ricevevano una diaria di 67 centesimi (…) infine avevano a disposizione l’assistenza medica e l’Ospedale Militare.
Ciò nonostante, nel 1912, a causa di malattie alle vie respiratorie, morirono ben 13 libici. Nel 1913 ne morì soltanto uno, per fortuna, ma va rilevato che nello stesso anno a Ponza morirono 55 bambini, su una popolazione di 4702 abitanti.
La maggior parte della popolazione isolana, soprattutto delle zone periferiche, abitava in grotte umide che erano state scavate nel tufo nel corso dei secoli. Le strade del centro erano scarsamente illuminate da lampade a petrolio, la corrente elettrica non esisteva. Il rimanente dell’isola era completamente al buio.
La rete fognaria era limitata solo al centro urbano, nel resto dell’isola venivano usati i pozzi neri, e molte abitazioni erano sprovviste dei servizi igienici. Dappertutto vi erano escrementi a cielo aperto, dove si depositavano numerose le mosche che diffondono batteri infettivi. L’acqua piovana veniva raccolta in apposite cisterne scavate nel tufo, e per quanto fossero ben tenute, biancheggiate e disinfettate con pietre di calce, accumulavano sempre una gran quantità di larve. Per conseguenza la malattia predominante a Ponza era l’elmintiasi da ascaridi, cioè la produzione di vermi nell’intestino; sovente i bambini avevano la tigna, e gli occhi malati di tracoma; l’assistenza sanitaria era molto carente, vi era una sola farmacia e spesso ci si curava con gl’intrugli delle nonne .Certamente tanta parte della popolazione ha invidiato la diaria assegnata ai deportati.
Insomma, erano talmente miserabili le condizioni di molti ponzesi, che c’è da domandarsi se l’opera di civilizzazione non andava intrapresa nell’Italia del sud piuttosto che in Africa.
Ciò nonostante non mancò la solidarietà, la comprensione e l’umanità nei confronti dei libici.
(…) E chissà quante volte, dall’alto di una balza, o lungo la riva, chiusi nei loro mantelli e nei loro pensieri, sferzati dalle folate gelide dell’inverno, quando il levante e il ponente non danno tregua e rendono insopportabile il peso della sofferenza e della solitudine, pensando al calore delle loro famiglie e al “bel suol d’amore”, si saranno affidati a quello spirito di rassegnazione islamico, dalla propaganda così tanto biasimato, e in cuor loro avranno sospirato: In shâ’a ‘llâh!
(…) Io spero che tra le finalità dell’ISIAO e del Centro Libico per gli Studi Storici di Tripoli vi sia anche l’incontro tra culture e religioni diverse.
In un mondo che tende sempre più a globalizzare i mercati e la finanza, diventa forte la tendenza all’omologazione e all’appiattimento. C’è il rischio della perdita di identità, del dissolversi delle mille peculiarità culturali e religiose che ogni popolo sa esprimere. Bisogna allora contrastare l’affermazione del “modello unico” di sviluppo dettato dall’occidente industrializzato, che tende a mercificare tutto e a disperdere i valori autentici dell’umanità.
(…) Oggi è tempo di lavorare insieme per la costruzione della pace e della fratellanza fra tutti i popoli della terra.
Noi dobbiamo farlo e crederci fortemente, perché costruire un mondo migliore è certamente possibile, ed è quello che vogliamo tutti.”
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In quell’occasione i rappresentanti dell’ISIAO e del governo Italiano chiesero al Sindaco di Ponza di poter onorare i libici morti nell’Isola tra il 1912 e il 1918, erigendo in loro memoria un piccolo monumento. Gli venne concesso l’ estremo lembo dello sterrato della Batteria per la bisogna. L’anno successivo, nel luglio del 2003, l’opera marmorea, a forma di piramide turrita a gradoni, con recante i nomi in arabo dei 36 caduti a Ponza, venne sistemata nel luogo destinato, rivolto verso la Mecca, come vuole la religione islamica. Una delegazione dell’ambasciata libica in Italia venne ad inaugurarlo, onorata dalla rappresentanza comunale nella persona dell’Assessore Silverio Capone. In quell’occasione non ci fu un coinvolgimento della popolazione, né delle scuole, purtroppo, e questo fu un grave errore. Ancora oggi tanta gente che si reca al cimitero non sa cosa rappresenti quel monumento, anche perché nessuna targa ne spiega il senso e le scritte in arabo non sono tradotte, mentre il tema nelle scuole non viene trattato. Mancanze che andrebbero sanate al più presto. Ciononostante noi dobbiamo essere fieri dell’istallazione di quel monumento, che ricorda le nefandezze della storia.
La cosiddetta Primavera Araba che nel corso del 2011 ha spazzato via regimi autoritari di durata decennale in tutto il Magreb, ha toccato profondamente anche la Libia. Salutiamo con affetto e simpatia la rivoluzione democratica Libica e auguriamo prosperità e pace a quei popoli lungamente martoriati.
Anche per questo sento di dover invitare tutti i ponzesi a tenere in cura questo nostro monumento giù alla Batteria e a deporvi qualche fiore ogni tanto, quasi a risarcimento del molto male inferto. Un piccolo gesto per sdebitarsi, anche se le colpe resteranno indelebili nel tempo; sia almeno di monito e di speranza per un mondo di pace e di solidarietà.
Gino Usai
(Fine)