di Mimma Califano
Iniziamo con questa puntata una rievocazione della vita a Palmarola, cercando di andare più indietro possibile nel tempo, attraverso le testimonianze dei (pochi) sopravvissuti che hanno mantenuto memoria e reperti dei primi anni del secolo scorso. Ci sembra particolarmente meritoria, questa iniziativa di Mimma Califano, in quanto è la generazione dei cinquanta-sessantenni di oggi – la stessa fascia di età dei Redattori di questo sito – che ha il compito di fare da cerniera tra un mondo che non esiste più e il ‘nuovo che avanza’. Sembrano racconti di un’epoca lontanissima nel tempo, invece era la realtà fino ad una cinquantina di anni fa.
Questi modi di vivere, queste storie… a noi qualcuno ha ancora avuto il tempo e la volontà di raccontarli.
Ora pensiamo sia nostro dovere riportarli alla memoria e raccoglierli, per tramandarli a nostra volta…
La Redazione
Il versante di ponente di Palmarola come appare oggi
Conosciamo oggi la Palmarola delle gite turistiche, delle nuotate, dell’abbronzatura, delle barche di ogni genere e dimensioni che l’affollano d’estate… La Palmarola presidiata in primavera dalle guardie forestali, la Palmarola dei vip…
Ma com’era quest’isola – considerata tra le più belle del mondo – prima?
Fino alla fine degli anni ’60, Palmarola era vissuta, abitata, coltivata da molte famiglie ponzesi: gli Aversano, i Sandolo, i Romano, gli Amalfitano, gli Aprea, i Vitiello, i Tagliamonte, gli Scotti, i D’Arco… Intere famiglie alternavano la loro vita quotidiana di lavoro a Ponza con quella, ancora più dura, nella vicina isola.
Vita quotidiana e alimentazione. Si viveva nelle grotte, alcune nella zona ’ncoppa Vardella: a ’rott’ i’’ll’acqua, dove negli anni ’50 furono costruite anche alcune baracche. L’altra zona abitata, sempre in grotte, era la falesia retrostante la spiaggia di Palmarola. Vi erano, fino a dopo la seconda guerra mondiale, solo due abitazioni: ’U casin’ – l’attuale ‘Casa Fendi’ – e la casa di Civetella ’a cantenèra, dall’altro versante, sopra i Vricci.
La casa di Civitella come appare oggi, immutata rispetto all’epoca e non più abitata dalla morte della proprietaria, a metà degli anni ’60
L’acqua piovana veniva raccolta in cisterne scavate nella roccia, a volta senza alcuna copertura, ed utilizzata per qualsiasi uso domestico, bere compreso… Grande quella della rott i’ ll’acqua, che infatti dà nome alla località. La tradizione orale trasmessa tra gli abitanti di Palmarola, riporta che questo pozzo sia stato ricavato adattando alla raccolta dell’acqua piovana una parte di un antico monastero o eremitaggio. Per alcuni usi questo pozzo è ancora utilizzato dai ponzesi che frequentano Palmarola fuori dalla ressa del turismo estivo. Un’altra cisterna la cui acqua era utilizzata per bere si trova in alto, oltre le grotte dal lato della spiaggia. Questo pozzo ‘a damigiana’ è andato in disuso da non moltissimi anni, come dimostra la copertura in alluminio ancora esistente.
Un altro pozzo apparteneva a U’ Casin; altri più piccoli erano vicini alle singole grotte della spiaggia. La costruzione/scavo di tutti questi pozzi, risale comunque a prima del ’900, come riferito dalle varie persone che ci hanno raccontato della loro vita quotidiana a Palmarola negli anni della loro gioventù. L’acqua piovana vi veniva fatta confluire dalle canalature fatte nella roccia, tenute sempre pulite e curate. Ma anche utilizzando l’acqua con molta parsimonia, poteva sempre accadere che verso la fine dell’estate finisse, e questo diventava un vero problema. Così per i bisogni fondamentali e in attesa delle prime piogge si doveva in qualche modo rimediare, e allora quando si andava a Palmarola bisognava portarsi dietro anche dell’acqua.
Per cucinare si usavano le fascine e le frasche raccolte direttamente in loco. La sera si cucinava e si cenava alla fioca luce di un lume a petrolio o di una candela.
Tutte le zone dell’isola che lo consentivano erano coltivate: da sopra a Vardella fino a ’a Rott ‘i ‘ll’acqua, e nella soprastante zona dell’Arcìell e dei Guarnieri. Ed ancora tutta la zona sopra i Vricci. Sul versante di ponente, da ’A chiana u’ viaggie fino alla spiaggia e sopra i gretéll’. Terreno quasi sempre scosceso, difficile, abbarbicato alla roccia – tenuto insieme dalle preziose “parracine” – battuto dai venti, bruciato dalla salsedine.
Foto da ‘Ponza mia’ della zona della spiaggia cu’ i’ catene coltivate e U’ casin nel periodo fine anni ’50 inizi anni ’60. Da notare la retrostante furcina più grande di come è oggi, dopo i crolli
Foto e didascalia ripresa da ‘Ponza mia’: “Il signore sulla destra è Michele Mazzella, detto Michel’ i’ Fabrizz’, un personaggio che insieme ad altre anziane signore (v. in seguito) rappresentò l’ultima generazione dei veri abitanti dell’isola”
Grano, orzo, lenticchie, ceci, cicerchie, culetuòten’ (vicia sativa var. ‘macrocarpa’- fave, patate, uva (tanta!), fichi d’India, gelsi, mele cotogne, vi crescevano in buona quantità, grazie alla tenacia di quella gente.
Gli asparagi selvatici ovviamente erano ben conosciuti ed apprezzati, a quei tempi come anche adesso.
Le giornate di lavoro iniziavano alle prime luci dell’alba – non era raro che sfruttassero anche il chiarore della luna piena – e terminavano dopo il tramonto, quando si rientrava nelle grotte per cucinare e cenare.
Le cose che oggi sembrano semplici, come lavare i piatti ed i panni, all’epoca – almeno fino alla metà degli anni ’50 – non lo erano. Questo ovunque, ma nella piccola isola le difficoltà erano ancora maggiori. Per lavare i piatti in assenza di detersivi si utilizzavano le erbe, sicuramente la parietaria dei muri (Parietaria officinalis – a’ paretàn’). Mentre per i panni, qualche grotta aveva u’ lavatùr’. Uno era dove abitava zi’ Maria Cand’ [zi’ Maria Candida (V. in seguito)- NdA] nella zona d’a’ rott’ ’i ’ll’acqua; un altro giù, nella zona della spiaggia vicine a’ rott’ ’i Lucrezia; ’ncopp’i’ Vricci da Civetella ce n’era un altro. Chi non l’aveva, utilizzava quello dell’amica o usava un tino. Comunque sembra che a Palmarola non facessero ’a culata – il bucato della biancheria di casa -, ma lavavano solo piccole cose di uso quotidiano. Anche per i panni si usavano delle erbe, ma nessuna delle persone che ho sentito ricorda come né con quali erbe.
Ciccillo Migliaccio lava i panni fuori dalla grotta: siamo già negli anni ’60
Parte dei prodotti si utilizzavano direttamente in loco. Per l’alimentazione quello che più spesso mancava era il pane. Non c’era un forno, ma sembra che in tempi ancora più antichi – probabilmente nell’ottocento – di fianco ad una dei locali d’ ’a rott’ ì ll’acqua ci fosse un forno. Poteva tuttavia capitare che si improvvisassero delle “piadine”. Un impasto di farina e acqua, cotto su una pietra tenuta a lungo sulla brace.
Anche il vino si faceva direttamente a Palmarola. Sia alla rott’ i’ ‘ll’acqua, che alla spiaggia, c’erano cantine con palmenti e botti. Solo una parte dell’uva si portava a Ponza; questo dipendeva da come erano organizzate le famiglie.
Coltivare la terra non era l’unica attività. Importante, come già accennato, la raccolta della legna della macchia mediterranea e la raccolta dei residui della potatura delle viti: i pennecìll’. Si facevano le fascine che a spalle – compito quasi sempre assegnato alle donne – venivano prima portate “a caricatura ‘i vuzz e poi trasferite a Ponza. A volte per risparmiare un po’ di fatica nel trasporto, la legna veniva lasciata cadere dall’alto, però poi bisognava raccoglierla e rifare le fascine. I sarciniell’, a seconda della provenienza delle famiglie, venivano portati o alla spiaggia delle Forna, o alla spiaggia di Giancos. Gli Aversano scaricavano invece giù alla piana di Capo Bianco. Anche da qui erano ancora le donne a portarle alle proprie case; oppure venivano vendute ai fornai. Solo i più fortunati si potevano permettere un asino.
Intorno all’asino una graminacea diffusa nei terreni aridi (Ampelodesmos tenax – ‘strame’ o ‘struglio’), con le foglie nastriformi dai margini taglienti, usata in passato per fare scope
La saggina – i struglie – veniva raccolta ed utilizzata per fare scope; anche le foglie delle palme nane (Chamaerops humilis) venivano usate per scopette utili a pulire i forni a legna, mentre l’infiorescenza della canna comune ((Arundo donax) veniva utilizzata per fare ‘i scupazz’, per pulire dentro le case.
Palmarola costituiva anche una riserva di carne. I cacciatori erano numerosi, anche per brevi battute di un solo giorno. A maggio, epoca del passo delle quaglie – all’epoca molto numerose – venivano sistemate le reti per la cattura. Gli uccelli presi in parte venivano portati a Ponza ancora vivi, in sacchi di juta; altri invece venivano preparati sul posto per la conservazione, utilizzando il sale o l’aceto. Gli uccelli salati si tenevano in casse di legno, e prima di poter essere cucinati venivano tenuti a bagno per qualche ora. Quelli invece bolliti in aceto si conservavano sott’olio – ma questo era un lusso dei tempi più recenti. In genere venivano poi cotti in umido con le patate.
Anche i gabbiani fornivano il loro contributo all’alimentazione. Le uova venivano raccolte anche nei nidi più impervi. Si consumavano cotte in sostituzione o integrazione alle uova delle galline. Molto utilizzate erano le uova dei gabbiani per fare i casatielli di Pasqua, data la frequente coincidenza dei tempi.
Non mancavano gli animali domestici. Le galline giravano liberamente intorno alle grotte; ognuno sapeva riconoscere le proprie e sapeva anche dove andavano a depositare le uova. Gli Aversano (e non solo loro) quando avevano uno o due vitelli li portavano a Palmarola per farli ingrassare. Si può solo immaginare quanto poco semplice fosse far salire e scendere da una barca dei vitelli! In realtà questo problema si è posto solo in tempi più recenti quando le barche sono diventate più grandi e sono passate dai remi al motore; ma per moltissimo tempo i vitelli venivano trasportati letteralmente via mare. Alle bestie venivano legate delle fascine ai due lati del corpo, a mo’ di salvagente; buttate in acqua dalla spiaggia di Chiaia di Luna e trainate per la cavezza dalla barca, fino a Palmarola. Utilizzando in questo caso il punto di approdo piu’ vicino per tirarle fuori dall’acqua…
Non potevano mancare i maiali, soprattutto per il contributo in letame che questi davano. Quando veniva il momento di portarli a Ponza, venivano invogliati a camminare mettendo lungo il sentiero qualcosa da mangiare… ma anche loro alla fine dovevano essere issati a bordo. In genere i maiali venivano fatti salire e scendere a Vardella; i vitelli alla Chian’ u’ viaggie.
C’erano anche pecore e capre, il cui latte era utilizzato per fare il formaggio. Zi’ Maria Cand’ ne produceva abbastanza da essere portato a Ponza per la vendita. I conigli negli anni ’50 erano allevati liberi allo stato naturale sopra al Faraglione di Mezzogiorno. Quando serviva si andava là con il fucile.
Vecchia foto: cacciatori e cani in barca tra Palmarola e Ponza
Oltre al lavoro a terra, non poteva mancare la pesca, svolta prevalentemente con le nasse. Questa era appannaggio degli uomini. Aragoste e scàndere…
U’ scandère. Spondyliosoma cantharus, ‘tanuta’ in italiano; fam. Sparidae; assomiglia al sarago, ottimo arrostito sulla brace; il periodo di pesca è maggio
A Vardella era stata scavata una vasca con il ricambio dell’acqua marina, per tenere le aragoste vive, almeno per qualche giorno. Non esiste più già da molti anni, il mare l’ha demolita.
Quando capitava una buona pescata, gli uomini dalla barca, con la ‘tofa’, avvisavano le famiglie che stavano andando da Palmarola a Ponza a portare il pesce e che quindi sarebbero rientrati, spesso il giorno dopo. Era anche una buona occasione per portare indietro un po’ di pane fresco e qualche altra cosa che su l’isola mancava.
La ‘tofa’ (Charonia tritonis) anche detta “tromba marina”: è la conchiglia marina in cui vive il Tritone, un mollusco carnivoro di notevoli dimensioni, fornito di proboscide retrattile e sifone, divoratore di oloturie, stelle marine e bivalvi. La conchiglia viene bucata nella parte terminale e soffiandoci dentro emette una suono cupo che può essere sentito a notevole distanza.
All’epoca, l’isola aveva diversi approdi. Dal versante di Ponza si scendeva a terra, oltre che a Vardella – come adesso – anche dai Vricci dove c’era un sentiero che portava su; c’è ancora, ma è abbandonato e coperto dalla vegetazione.
Dall’altro versante, si poteva scendere – come dice il nome – da ’a chiana u’ viaggie, e ovviamente dalla spiaggia.
Dei quattro approdi, solo due sono utilizzati; gli altri, in parte intagliati nella roccia o sono crollati o comunque non sono più utilizzati. Dalla spiaggia si poteva salire su ’A rott’ i’ ‘ll’acqua utilizzando il sentiero d’u’ mal pass’, tuttora esistente ma ormai in condizioni ancora più precarie, come già all’epoca il nome indicava. Da ’a chiana u’ viaggie c’era un altro sentiero che saliva su e doveva essere agevole, visto che era utilizzato anche per i vitelli. Ora non esiste più.
I “collegamenti” con Ponza per molti anni furono mantenuti da Girolam’ delle Forna; negli anni ’50 fu sostituito da tre barche: Fabriz’ i Leone, Tatonn u’ Scuttìse (di sopra gli Scotti – NdA) e Geppìn’ ’A’ve Maria’. Queste erano già barche a motore con i primi lenti e rumorosi motori marini Bolinder.
Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale tutto il movimento si svolgeva ancora a remi e/o vela.
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Persone, animali, prodotti e notizie andavano così avanti e dietro. Ovviamente si trattava di collegamenti sporadici, basati sulle necessità e condizionati dal tempo. Gli approdi non erano facili, quindi non era raro che chi stava a Palmarola vi restasse isolato anche 10, 15 e fino a 20 e più giorni di seguito. È successo tante volte che le scorte dei viveri finissero, a pesca non si poteva andare e la gente abbia rischiato di morire di fame; ma la fede incrollabile nell’altro “abitante” di Palmarola, S. Silverio, non li faceva sentire soli né completamente abbandonati!
Mimma Califano
[Palmarola nel secolo scorso (1). Continua]