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Edgar Morin. Utopie possibili, la sfida della complessità

segnalato dalla Redazione

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Utopie possibili
Per un nuovo umanesimo planetario
di Edgar Morin – Da la Repubblica del 5 dicembre 2023

Il grande sociologo racconta come sono cambiate le relazioni internazionali e la condizione dei popoli messi a dura prova dalla complessità: tecnologica, economica, scientifica
Abbiamo levato la nostra voce contro la “fortezza Europa” Tanto più che l’Europa è nata da migrazioni

Come ho più volte avuto modo di dire e scrivere, Mauro Ceruti è uno dei rari pensatori del nostro tempo ad avere compreso e raccolto la sfida che ci pone la complessità dei nostri esseri e del nostro mondo. Attraverso le sue idee e attraverso anche una generosa attività organizzativa, è stato l’infaticabile tessitore di una straordinaria e creativa comunità di pensiero internazionale e transdisciplinare.
È stato fra l’altro il promotore e l’ispiratore, con Gianluca Bocchi, dello splendido simposio “La sfida della complessità”, tenutosi a Milano nel 1984, nonché dello storico simposio “Physis: abitare la Terra” tenutosi a Firenze nel 1986, momenti seminali e decisivi per lo sviluppo del pensiero complesso.
Il suo pensiero contiene e intreccia sempre, nutrendosene, tre passioni:
la passione filosofica per la teoria della conoscenza;
la passione politica e civile per l’Europa;
la passione etica e pedagogica per il destino dell’umanità.

Commentando, nel 1986, il suo libro Il vincolo e la possibilità, divenuto ormai una pietra miliare dell’epistemologia sistemica, osservavo che la scienza classica poteva riconoscere la razionalità solo nella necessità e poteva considerare il caso solo irrazionale, e che Mauro ci invitava a esplorare una serie di trasformazioni concettuali concernenti le nostre concezioni teoriche, e indicava la via per arricchire e rendere complessa la nostra visione della razionalità.

La sua convinzione, che io condividevo e da parte mia sviluppavo ne Il Metodo ,era che la vera posta in gioco della nostra modernità fosse un rinnovamento della problematica scientifica e della problematica epistemologica in grado di raccogliere la sfida della complessità. E a raccogliere questa sfida abbiamo entrambi dedicato questi decenni.
Questa sfida, per Mauro, emerge proprio dalle viscere della storia e della civiltà europea, e all’Europa si pone oggi dinanzi come compito ineludibile.
Egli mostra, nei suoi discorsi e nei suoi libri, che per pensare l’Europa non si può dissociare la sua molteplice diversità dalla sua unità, indicando che l’Europa da edificare (se ciò sarà ancora possibile) dovrà essere quella dell’unità nella multiculturalità. Presentando l’edizione francese del nostro libro La nostra Europa, nel 2014 scrivevo che era «l’opera di due spiriti fratelli, quello di Mauro Ceruti e il mio: io mi ritrovo in lui come lui si ritrova in me». Insieme, in quel libro, abbiamo lanciato l’allarme.

L’Europa, focolaio di grandi civiltà e capace di integrare in essa etnie molto diverse, nella sua ambivalenza ha sperimentato due malattie specifiche: la purificazione unificatrice e la sacralizzazione delle frontiere. Dopo la catastrofe delle due Guerre mondiali che l’avevano portata sull’orlo dell’abisso, l’Unione Europea ha permesso l’integrazione polietnica delle piccole nazioni monoetniche e ha teso dunque a eliminare la malattia della purificazione. Inoltre ha prodotto una desacralizzazione delle frontiere.

Tuttavia, in Europa oggi appare lo spettro di una nuova purificazione, contro migranti la cui condizione è gravemente minacciata, così come contro migranti impietosamente respinti. E così abbiamo levato la nostra voce contro l’idea di una «fortezza Europa»: tanto più che l’Europa è nata da migrazioni, dalla preistoria fino ai tempi storici; tanto più che il suo «avanzo miserabile» è emigrato nelle Americhe; e tanto più che sono le devastazioni dello sviluppo imposto all’Africa a spingere gli africani proletarizzati a venire in Europa.

E abbiamo altresì stigmatizzato l’ultimo ostacolo all’Unione Europea, che viene dagli Stati europei stessi, i quali hanno accettato di abbandonare le loro sovranità economiche, ma resistono all’abbandono delle loro sovranità politiche assolute, allorché i problemi vitali e fondamentali che essi devono affrontare richiedono, per la loro stessa natura, la perdita di questo assolutismo.
È in questo contesto che il pensiero complesso di Mauro Ceruti viene in soccorso. Egli mostra, infatti, che il problema essenziale, quello di comprendere il nostro tempo, è un problema matrioska che contiene in sé altri problemi, ciascuno dei quali contiene a sua volta altri problemi… Comprendere il nostro tempo significa infatti comprendere la mondializzazione che trascina l’avventura umana, divenuta planetariamente interdipendente, fatta di azioni e reazioni, in particolare politiche, economiche, demografiche, mitologiche, religiose; significa cercare di interrogare il divenire dell’umanità, che dai motori congiunti scienza/ tecnica/economia è spinto verso un “uomo aumentato” ma per nulla migliorato, e verso una società governata da algoritmi, tendente a farsi guidare dall’intelligenza artificiale e, nello stesso tempo, a fare di noi delle macchine banali. Nel contempo, questi stessi motori scienza / tecnica / economia conducono a catastrofi a loro volta interdipendenti:
degradazione della biosfera e riscaldamento climatico, che portano a immense migrazioni;
moltiplicazione delle minacce mortali con l’incremento delle armi nucleari, delle armi chimiche e con la comparsa dell’arma informatica, capaci di disintegrare le società.
Tutto ciò provoca angosce, ripiegamenti su se stessi, deliranti fanatismi.
Così incombono, da un lato, l’inumanità del “migliore dei mondi” e, dall’altro, la barbarie di una situazione alla Mad Max, risultante da una mega-catastrofe planetaria.

Il problema dell’avventura umana ci pone il quesito: che cos’è l’umano? Ma la natura della nostra propria identità, come Mauro ha continuamente osservato, non è per nulla insegnata nelle nostre scuole, e dunque non è riconosciuta dalle nostre menti. Tutti gli elementi utili per riconoscerla sono dispersi in innumerevoli scienze (comprese le scienze fisiche, poiché noi siamo anche macchine fisiche fatte di molecole a loro volta fatte di atomi) e anche nella letteratura, che nei suoi capolavori rivela le complessità umane.

Il problema dell’identità umana include in sé il problema della Natura. Questo è presente in modo vitale non solo nell’ambiente, ma anche all’interno della stessa identità umana, la quale porta in sé il problema della natura a un tempo fisica e cosmica. L’umano non è infatti solo un elemento singolare nel cosmo, porta il cosmo al proprio interno. Non è soltanto un essere singolare nella vita, porta la vita dentro di sé.
Così, di passo in passo, l’interrogazione si amplifica e si moltiplica. E così, fin dagli esordi della sua ricerca, Mauro ha mostrato quanto abbiamo bisogno di una conoscenza transdisciplinare, capace di estrarre, assimilare e integrare le conoscenze ancora separate, compartimentate, frammentate. E quanto abbiamo appunto bisogno di un pensiero complesso, cioè capace di legare, di articolare le conoscenze, e non soltanto di giustapporle.
Tutta la sua opera è animata dalla preoccupazione di comprendere la complessità umana, cosa che richiede non di isolare l’umano, ma di situarlo nei suoi contesti cosmici, fisici, biologici, sociali, culturali e ormai anche nella comunità di destino planetario.
La sua opera ha stimolato un ampio dibattito internazionale in molti domini di ricerca, quali la psicologia clinica, la pedagogia, le scienze cognitive, ma anche le scienze dell’organizzazione, l’architettura, l’antropologia, la sociologia…
E il presente volume è testimonianza di questa sua originale influenza in molteplici campi disciplinari.

Mauro Ceruti ha delineato un percorso filosofico che raccoglie la sfida della complessità posta dal nostro tempo; ha delineato una prospettiva antropologica dalla quale l’identità umana emerge come identità evolutiva e irriducibilmente multipla, attraverso l’intreccio di molteplici storie; ha mostrato come il nostro tempo renda ineludibile pensare insieme, e non in opposizione, identità e diversità; ha motivato l’urgenza di una riforma dell’educazione capace di valorizzare le diversità individuali e culturali, e volta nel contempo a integrare la frammentazione dei saperi. Con i suoi scritti pedagogici ha contribuito in maniera significativa alle tre riforme della conoscenza, del pensiero, dell’insegnamento e, soprattutto, ci ha stimolato a tracciare connessioni fra queste tre riforme. E affermando l’urgenza vitale di “educare all’era planetaria”, ha delineato una prospettiva che ci aiuta a orientarci in questa nostra età di mutamenti, prodotti dal vortice della globalizzazione. Una prospettiva che, per la sua originalità, disegna l’orizzonte per pensare la riforma della scuola nel tempo della complessità, in cui tutto è connesso.

Il risultato è un’appassionata riflessione sulla condizione sempre più ambivalente dell’umanità contemporanea, di cui, con lucidità e capacità visionaria, ha saputo mettere in evidenza i rischi inediti, ma anche le grandi e altrettanto inedite opportunità.

L’idea di fondo della sua filosofia è che l’umanità è costitutivamente incompiuta, anche come specie. E che costitutivamente incompiute e molteplici sono le sue manifestazioni, individuali e culturali. Perciò la sfida per il futuro, in pericolo, dell’umanità è elaborare la coscienza di una “comunità di destino” di tutti i popoli della Terra, nonché di tutta l’umanità con la Terra stessa.
Mauro disegna l’orizzonte di un nuovo umanesimo planetario, che potrà nascere solo dall’incontro fra le diverse culture del pianeta, dalla capacità di pensare insieme unità e molteplicità, dalla capacità di connettere le diversità individuali e collettive della specie umana, senza appiattirle e dissolverle, perché solo valorizzando le diverse esperienze umane presenti e passate sarà possibile rigenerare un creativo processo di coevoluzione con il pianeta Terra, nostra unica patria vagante nell’immensità del cosmo.
Probabile? No.
Possibile? Forse.
Nell’immagine della storia delineata da Mauro Ceruti, l’insieme delle possibilità evolutive non è statico e predeterminato: l’universo del possibile si rigenera ricorrentemente, in modo discontinuo e imprevedibile. Mauro pensa, come Blaise Pascal, che l’identità umana è auto-trascendenza: «l’homme passe infiniment l’homme”. Perciò, scrive in conclusione del suo libro Il tempo della complessità «l’identità della specie umana contiene la possibilità, per quanto improbabile, della emergenza di una nuova umanità.

La condizione umana nell’età globale ha in sé la possibilità di una vera universalizzazione del principio umanistico. E trasformare il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel processo di costruzione di una “civiltà” della Terra, promuovendo un’evoluzione verso la convivenza e la pace, è il compito difficile e addirittura improbabile, ma allo stesso tempo creativo e ineludibile, che ci è posto dalla sfida della complessità, dalla sfida di far nascere l’umanità planetaria.
In occasione della pubblicazione di questo volume dedicato alla sua opera, mi piace rinnovare il mio personale omaggio allo spirito potente, creativo e per me fraterno di Mauro Ceruti.

Edgar Morin, pseudonimo di Edgar Nahoum (Parigi, 1921), è un filosofo e sociologo francese. È noto soprattutto per l’approccio transdisciplinare con il quale ha trattato un’ampia gamma di argomenti, fra cui l’epistemologia.

Il libro. La danza della complessità. Dialoghi con la filosofia di Mauro Ceruti di autori vari (Mimesis, a cura di Francesco Bellusci e Luisa Damiano, pagg. 428, euro 26). Testo tratto dal libro

[Da la Repubblica del 5 dicembre 2023]

Sul sito, su Edgar Morin, leggi anche del 2 febbraio 2023: La lezione di un grande vecchio

***

Appendice del 6 dicembre (cfr. commento di Sandro Russo)

Il libro di Giancarlo De Cataldo (Rizzoli, 2008)

I testi giainisti dell’era medievale spiegano i concetti di anekāntavāda (o “molte facce”) e syādvāda (“punti di vista condizionati”) con la parabola dei ciechi e l’elefante, che affronta la natura multipla della verità.

Monaci ciechi esaminano un elefante, una stampa ukiyo-e di Hanabusa Itchō (1652-1724)

***

Appendice dell’8 dicembre (cfr. Commento di Guido Del Gizzo)

Nuclear Now – scritto da Oliver Stone e Joshua S. Goldstein – è stato definito una sorta di seguito o risposta al film di Al Gore, vincitore di un Oscar nel 2006, Una scomoda verità.

 

 

 

2 Comments

2 Comments

  1. Sandro Russo

    6 Dicembre 2023 at 11:18

    Non si creda che la scelta di pubblicare su Ponzaracconta uno scritto di Edgar Morin, ultracentenario filosofo della conoscenza, neanche un articoletto breve e facile da leggere, sia stata fatta a cuor leggero.
    Perché tra i rischi della “complessità” c’è quello di allontanare la gente, non parliamo poi dei lettori ponzesi!
    Eppure vi vengono dibattute problematiche importanti, che hanno attratto popoli di ogni paese, in ogni tempo.
    Si può dire che solo ponendosi in problema della conoscenza, l’uomo – non solo occidentale – è andato avanti; con un altro apologo famoso, è uscito dalla “caverna di Platone”.
    Non solo l’uomo occidentale.

    Durante i miei viaggi in India (almeno quattro: vivendo in Sri-Lanka ero a due passi), mi sono stupito dei tratti che avevano in comune culture tanto diverse quanto quella occidentale e le cultura orientali. Per l’ovvio motivo che condividiamo la stessa appartenenza alla specie umana.

    Mi ci ha fatto pensare l’illustrazione che ho trovato sull’articolo di Repubblica riportato anche nella nostra copertina).
    In India è molto diffusa una parabola, che ha diverse varianti (riporto quella più diffusa: da Wikipedia)

    Un gruppo di ciechi ha sentito che uno strano animale, chiamato elefante, era stato portato in città, ma nessuno di loro era a conoscenza della sua configurazione e forma. Per curiosità, hanno detto: “Dobbiamo ispezionarlo e conoscerlo al tocco, di cui siamo capaci”. Così lo cercarono e, quando lo trovarono, cercarono di provare a capire cosa fosse. Nel caso della prima persona, la cui mano era caduta sulla proboscide, disse: “Questo essere è come un grosso serpente”. A un altro la cui mano raggiungeva l’orecchio invece sembrava un ventaglio. Quanto a un’altra persona, la cui mano era sulla sua gamba pensò che l’elefante fosse un pilastro come un tronco d’albero. Il cieco che mise la mano su un fianco dell’animale disse che l’elefante era come un muro. Un altro che stava toccando la coda l’aveva descritta come una corda. L’ultima palpò la sua zanna, sostenendo che l’elefante è ciò che è duro, liscio e come una lancia”.

    Più di recente l’ho ritrovata, questa storiella – che ha importanti corollari e implicazioni generali -, in un libro di Giancarlo De Cataldo, il magistrato-scrittore di Romanzo Criminale, letto qualche anno fa (come tutti gli innamorati dell’India sono attratto dai libri di viaggio e dal diverso modo che ciascuno ha di vivere e vedere l’enorme e sfaccettato subcontinente-elefante).

    Non basta. Nell’articolo di base riporto due immagini che rappresentano la parabola: in un affresco murale di un tempio jainista di epoca medievale e in una stampa ukiyo-e giapponese(sul sito, leggi qui)

  2. Guido Del Gizzo

    8 Dicembre 2023 at 20:01

    Ho letto d’un fiato, e con vero piacere, l’articolo sulle utopie possibili e per un attimo mi sono ricordato poco più che ventenne, iscritto a Scienze Politiche, dopo la laurea in Agraria, per una cotta che mi ero preso per la Sociologia: per fortuna durò poco, le cose concrete mi conquistarono definitivamente, di lì a poco.
    La formazione alla “complessità”, sia come criterio di analisi che come metodo di intervento, è figlia dei movimenti degli anni’60 e ’70 e non è più molto popolare: le esigenze di “divulgazione” sono diventate semplificazione, prima, e banalizzazione poi.
    L’affermazione che ci siano cose che non possono essere semplificate e che possono essere affrontate solo se ci si è preparati a farlo (cioè devi aver studiato ) ha assunto un sapore inevitabilmente classista e pone il problema dell’accesso alla formazione e della qualità della scuola.
    Eppure l’approccio transdisciplinare è il livello minimo necessario per affrontare i problemi della contemporaneità: la mia generazione è responsabile di un bivio clamorosamente sbagliato, come la scelta antinuclearista, proprio per aver semplificato il problema, riducendolo ad una questione di sicurezza locale, invece di considerarlo una faccenda di compatibilità ambientale globale.
    Perdete un paio d’ore a vedere l’ultima fatica di Oliver Stone, in proposito: il film Nuclear now (la locandina e qualche informazione in calce all’articolo di base).
    L’utopia dell’umanesimo planetario di Morin e la danza della complessità di Ceruti si scontrano con questa stupida ideologia – un po’ fascista – del predominio del fare: i ponti sullo stretto, la strutture per i migranti in Albania, i decreti legge e i voti di fiducia a raffica, il monocameralismo di fatto e, insomma, fare è più importante che ragionare su quel che c’è da fare.
    Poi, i decreti legge tocca riscriverli più volte, mentre sui centri per migranti in Albania sono contrari, e ci prendono in giro, pure gli Albanesi.
    Il Ponte sullo Stretto invece voglio proprio vederlo e, se anche fosse, sarebbe la madre di tutte le stupidaggini di governo del paese, con la velocità media dei treni sull’isola inferiore ai 40 km/h….
    Anche Ponza ha la sua occasione di confrontarsi con la complessità: parleremo ancora di Cala dell’Acqua, dell’opportunità rappresentata dall’ex sito minerario e di comunità energetiche…

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