Ambiente e Natura

L’agro pontino, com’era

segnalato dalla Redazione

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Abbiamo recuperato questo articolo da La Stampa, di qualche anno fa, ma sempre interessante e attuale; specie per chi ha letto Canale Mussolini di Pennacchi (sul sito recensione in quattro puntate: Canale Mussolini in “Cerca nel sito”).

Agro Pontino, c’era una volta l’Amazzonia italiana
di Mario Tozzi – Da La Stampa dell’11 agosto 2017

La palude bonificata dal fascismo ha cancellato boschi, laghi e spiagge. L’urbanizzazione ha portato chilometri di strade ed edilizia selvaggia

Se vi guardate attorno una volta che ci siete entrati dentro, non penserete neanche di essere in Italia. Alberi sorprendentemente sottili e un poco spogli, cespugli e roveti, ma anche felci e lecci in un intrico che fa pensare a una giungla yucateca. E i piedi sempre in acqua. Una foresta allagata di pianura, a pochi chilometri da Roma, l’ultima rimasta in Italia. La Selva di Terracina è quanto resta della nostra Amazzonia perduta. Solo un secolo fa qui c’erano 80.000 ettari di foresta planiziale, splendidi laghi costieri, animali e piante di ogni tipo e dune di sabbia candida su un mare trasparente. Oggi ci sono una foresta di seconde case, perfino sulla duna, chilometri di strade, anche sulla sabbia e nei boschi, e cinque città della più straordinaria opera di bonifica che gli italiani abbiano mai messo in piedi. Un sogno di fatica e volontà di migliaia di uomini, la realizzazione plastica di un regime e il più grande massacro di alberi mai perpetrato dagli uomini in tutto il continente europeo.

L’ignoto
Le paludi pontine, come si chiamavano prima, erano un ambiente selvaggio e malsano per h. sapiens, una terra nella quale si aveva paura ad avventurarsi. Regnava la malaria e i pochissimi che ci abitavano (nel 1927 gli abitanti erano 937, cioè 1,25 per kmq), soprattutto cacciatori stagionali, vivevano in condizioni ai limiti dell’umano. Una “vergogna”, secondo il regime fascista, che andava cancellata. Ci avevano già provato i romani, per recuperare la Regina Viarum, la via Appia, che qui si impantanava. Ma non ci riuscirono, così come non vi riuscirono i papi. Il fascismo sì. Sia grazie alla tecnologia più moderna, sia perché c’era uno stato nazionale che possedeva autorità e risorse. Per il regime la bonifica diventa lo strumento ideale per raggiungere diversi obiettivi: conquistare nuovi terreni da coltivare, arginare l’emigrazione incontrollata e cancellare la vergogna di un territorio che veniva considerato degradato.

La bonifica integrale inizia nel 1927. I lavori da compiere sono titanici: si tratta di prosciugare le acque su 135.000 ettari complessivi, dei quali circa 80.000 appartenenti all’Agro Pontino vero e proprio. L’impresa non si ferma davanti a nessun ostacolo: vengono impiegati 120.000 lavoratori. Si costruiscono migliaia di km di canali di drenaggio e più di 1000 km di strade pubbliche.
La bonifica e la successiva colonizzazione vengono esaltate continuamente dalla propaganda fascista. Nascono come ruralizzazione e, di fatto, anti-urbanesimo, ma si concretizzano in una nuova idea di città e in una colossale infra-strutturazione. È forse il merito più straordinario di cui il regime si fregia.
Per compiere questo disegno, dal nord arrivano nel Lazio migliaia di famiglie. In breve colonizzano tutta la pianura e si stabiliscono dove un tempo nessuno osava mettere piede. Non è più tempo di capanne fatte con la paglia e il fango, ora nell’Agro Pontino sbarcano i grandi architetti e crescono le città di fondazione: nel 1932 Littoria, nel 1934 Sabaudia, nel 1935 Pontinia, e infine Aprilia, nel 1937, e Pomezia, nel 1939. A qualche chilometro l’uno dall’altro, nascono 16 borghi rurali, sparsi in punti strategici. Sono piccoli nuclei di case con qualche negozio, la posta, la Casa del Fascio e l’immancabile Dopolavoro. Vengono battezzati con nomi che ricordano le battaglie della Prima Guerra Mondiale: Borgo Grappa, Borgo Piave, Borgo Sabotino. Tutto attorno vengono attribuiti 3000 poderi con le case coloniche, 1800 dei quali assegnati a veneti e friulani, gli altri a ferraresi. Quasi nessuno a laziali o campani, primitivi padroni di quelle terre, ora esautorati da una popolazione esogena. La bonifica è un esempio paradigmatico di globalizzazione, con relativo annullamento delle aspirazioni delle popolazioni locali.

A Sabaudia vado in cerca dell’ufficio postale, un esempio straordinario di progettazione razionalista visitato da turisti di tutto il mondo. Seguo con lo sguardo le linee morbide delle coperture e il profilo in mattoni, le fasce di colore azzurro e le superfici vetrate con le zanzariere: un ufficio postale unico per armonia e razionalità. Entro dove c’erano gli sportelli: tutto è progettato e realizzato appositamente, perfino il girasoldi alla cassa, quasi un peccato che non sia ancora in funzione.
Mi domando che cosa è stata la bonifica, la redenzione di una terra maledetta o un crimine ecologico? Di sicuro, nella Pianura Pontina la modernità si è abbattuta con la violenza di un’operazione militare. Ancora oggi la maggior parte del territorio della pianura pontina finirebbe sott’acqua, se non ci fossero gli impianti idrovori costantemente in funzione. E 27.000 ettari rimarranno sempre sotto il livello del mare.

Ritorno nella campagna. Basta una mezz’ora di canoa per scoprire il fiume Cavata che parte dalle pendici di Sermoneta, intatta come nel Medioevo. Non c’è nemmeno bisogno di pagaiare: la corrente mi porta all’interno di una fitta vegetazione riparea e all’ombra di grandi platani e pioppi. è un mondo incantato e silenzioso che non ti aspetti, un altro lembo residuo di quella Amazzonia italica poi cancellata. Un residuo salvato dal recupero ecologico iniziato con la costituzione del Parco Nazionale del Circeo e proseguito, fra gli Anni ’70 e ’90, dopo il sacco della costa degli anni precedenti (le ville sulle dune, i laghi costieri assediati su cui insistono assurdi progetti di sfruttamento turistico).

La deturpazione
Scendo verso la costa. Una spiaggia tra le più belle del Tirreno: una decina di chilometri di sabbia bianca protetta ancora dalle dune, seppure deturpata da alcune costruzioni. Ma anche una strada che spacca quelle dune, su cui parcheggiano incredibilmente migliaia di auto: tutela e finanziamenti internazionali non vengono concessi proprio per la presenza di questa strada che potrebbe benissimo essere eliminata con un efficace sistema di navette e parcheggi all’interno.
Prima delle dune osservo quello che resta dei laghi costieri prosciugati: una pianura in cui, a tratti, vedo pascolare grandi bufale scure. Quelle bufale d’acqua che furono sterminate durante la bonifica, e che ora sono state reintrodotte e allevate per produrre mozzarelle, spesso trasformando di nuovo in acquitrini i terreni precedentemente prosciugati dagli antenati.

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