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Dal Cimiterodi Francesco De Luca . “So’ gghiuto a mare ca tenevo sette-otto anne. Mio padre, allora, andava a pescare aragoste in Sardegna. Mi tolse dalla scuola e mi portò con lui. Il maestro Grassucci lo rassicurò che sarei stato promosso. Ha il volto grinzoso di chi ha sentito il sole cuocergli il viso. Capelli bianchi e sguardo fiero. “Cca… voglio esse mise cca… Figlieme ‘a Portoferraio chiamma… ma io nun ce vaco. E si po’ moro? Ie voglio vede’ ‘u mare…” Mi faccio forza e gli dico: “Ma perché? Sai bene che con la morte non vedi più niente. Starai sepolto e… là non c’è da sentire né da vedere …” “Pecché ‘a morte ie ‘a canosco – risponde. L’ho vista altre volte in viso. Quando nelle Bocche di Bonifacio incontrammo un mare che non ci doveva stare. Il ponente non era previsto e io avevo messo la prua per la Toscana. Sì… ‘a Tuscana… se mettette na tempesta a bell’e buono. Indietro non potevo andare, soltanto avanti. ‘A varca s’a vedette c’u mare e nuie vedètteme ‘a morte cu’ ll’uocchie. Da poppa la barca veniva sollecitata tanto che le onde entravano e inondavano il ponte e la facevano sbandare. Altre onde a flagellare il piccolo scafo. Inerme. Il motore al minimo e noi aggrappati agli appigli, sperando di non capovolgerci. ‘A morte steve llà… e chella vota ‘nce vulette. “ ‘U no’ … – è venuto il nipote – ‘a nonna se ne sta ienne…” Questo piccolo cimitero, intasato di loculi e affollato da volti fintamente allegri, riesce a dare un senso alla ‘pietà’. Quel sentimento che già i Latini avevano ben definito nella coscienza. Insieme, chi alita e chi no, chi è infastidito dal vento e chi lo è stato, in una catena di sentimenti che ci accomuna, noi e la terra che ci ha visto nascere. Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
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