Quando sono tornata a Ponza, dopo i cinque anni in Liguria, molti mi hanno detto: – Sei pazza. Ma ti rendi conto che Ponza non ha nulla da offrire? Che non ci sono stimoli culturali, che si vive senza certezze (sanità, trasporti, scuola stessa), che il tessuto sociale è finito, non esiste più. Ognuno vive nella sua individualità. Ponza non è più un’isola-cortile su cui tutti si affacciano, in cui tutti collaborano, si aiutano, litigano anche, ma convivono. Ponza è diventata un’isola-condominio dove ognuno è chiuso nel suo guscio e ti conosce solo se entri nel suo confine.
Ebbene, io sono tornata. Non ho un lavoro ben retribuito, noi insegnanti dobbiamo saper fare i tuttologi, gli psicologi, le madri e i padri, dobbiamo trasmettere il sapere ma non dobbiamo pretendere di essere pagati decentemente, quindi… non ho attività turistiche né case da affittare.
Perché sono tornata? Per mia madre, certo, ma soprattutto perché questa è la mia casa, è la mia isola e qui vorrei che il mio lavoro avesse uno scopo.
Mi chiedo: ma tutti quelli come me che potevano restare, dove sono? Tutti quelli che hanno scelto altri orizzonti perché qui guadagnavano meno, ora perché si lamentano?
L’isola è un luogo difficile. Mettiamocelo in testa: l’isola non può essere come la terraferma semplicemente perché non lo è.
E decidere di andare via perché si guadagna poco, perché non ci sono abbastanza medici, non ci sono abbastanza scuole, non ci sono strade lisce, non ci sono le rotonde, non ci sono le navi adeguate, ebbene, sono in realtà alibi. Alibi che ognuno si costruisce per poter dire che se n’è andato per disperazione.
No, per disperazione se ne va chi non ha casa, chi non ha come vivere, chi viene cacciato con il foglio di via.
Chi se ne va avendo qui una casa, un lavoro seppur stagionale, una parentela, se ne va perché non ama la vita sull’isola.
E andandosene dà uno schiaffo all’isola stessa, perché essa perde un altro pezzo, e ogni persona che se ne va non viene rimpiazzata. E non venendo rimpiazzata crea il deserto intorno a sé, e nel deserto non si fanno investimenti, non si attirano ricchezze, non si può chiedere di avere i servizi della città.
Se in città come Roma, capitale d’Italia, si sono tagliati ospedali, si sono chiuse scuole, ma come pensate mai che possano essere aperte a Ponza se chi può se ne va!?
Ci vuole coraggio a restare, ci vuole coraggio a vivere su un’isola isolata, dove le analisi te le fai il mercoledì se va bene, se arriva l’aliscafo, dove le scuole per “disattenzioni amministrative” quest’anno non hanno nemmeno i registri di classe.
Ci vuole il coraggio di resistere, l’umiltà di credere di poter fare il proprio meglio nel proprio piccolo e la speranza che chi se n’è andato si renda conto che ha creato un vuoto e venga a riempirlo, per non dover poi vedere quel vuoto venduto al miglior offerente.
vincenzo
4 Febbraio 2015 at 09:40
Questa è la settimana della svolta nel dibattito in Ponzaracconta!
Dopo Sandro Russo, Giuseppe Mazzella, oggi anche Franco De Luca e Polina hanno definito un destino isolano; ma a mio avviso bisogna condividere la stessa analisi per riuscire a delineare un percorso di recupero per l’isola e la sua comunità residente.
Ma una cosa l’abbiamo definita: la difficoltà di vivere nell’isola e quindi anche se inconsapevolmente tutti i veri residenti vivono una realtà che devono rimparare a condividere (come nell’isola fattoria fino agli anni sessanta) per poi riuscire a comprendere che per difendere i diritti di base devono unirsi, e poi per prospettare un futuro migliore devono inventarsi un nuovo soggetto politico isolano e governare il nuovo.
Ma cari amici ancora non del tutto a mio modo di vedere abbiamo compreso qual’è il vero male dell’isola che io ho individuato essere la cultura dominante ed è questo che va in qualche modo ancora determinato.