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A piezz’ a piezz’ se ne cade ’a parracina… Piano piano vanno via persone conosciute nella bella fanciullezza/adolescenza.
Prima il maestro Scotti che ho avuto come insegnante fino alla terza elementare, adesso Peppe ’i sigarett’ ed il ricordo lo accomuna anche al fratello Silverio.
Li ricordo in mezzo alla nuvola di polvere che saliva dalla stiva del bastimento – detto anche motoveliero – quando ’u paràncol’ sollevava, legati, stretti come in un ultimo abbraccio, sacchi di vrenna, granone e patate, casse d’acqua ed altro; oppure, come ho già scritto, anche vitelli o, per meglio dire vitelloni, oppure qualche piccolo mezzo motorizzato.
Mi piace ricordare quando, loro, gentilissimi, acconsentivano che io salissi a bordo per la “traversata” da Formia all’isola natale.
Ricordo… attraversavo, in fretta e titubante, il breve tavolone di legno che fungeva da passerella. Poi il sospiro di sollievo una volta fatto il piccolo salto per mettere i piedi in coperta.
Quel giorno i marinai “staccavano la cima” (toglievano gli ormeggi) alle dieci o alle undici del mattino. Ci aspettava una navigazione di “appena” 5 ore.
Una volta a bordo Peppe o Silverio mi lasciavano fare.
Io, fino a che il motoveliero non usciva dall’imboccatura del porto, mi tenevo lontano dagli uomini che manovravano, allungando, però, l’occhio alla cabina dove c’era il timoniere.
Sentivo già aria di familiarità quando Peppe o Silverio davano gli ordini, a voce, anche a colui che stava giù nel locale dove il motore compiva il suo dovere. Era così diverso dai comandi in uso sulla nave: quelli erano più “distaccati” e “freddi”.
Un tremolio festoso agitava le assi di legno e già assaporavo l’incanto di una “galoppata” familiare.
In navigazione, mi andavo a sdraiare, su un sacco di iuta, sulla larga prua, inebriandomi di sole e di vento. Verso mezzogiorno, appena fuori il promontorio della Trinità, quando già cominciava a “scorrere” la spiaggia di Serapo, zio Michele, che a quel tempo faceva parte dell’equipaggio, mi chiamava perché il pranzo era pronto; gustavo il piatto di pasta asciutta ed un pezzo di carne, tagliato grossolanamente, messo nello stesso piatto. Alla fine non poteva non mancare l’immancabile “scarpetta”.
Accettavo volentieri, senza complimenti, sia perché non c’era motivo di opporsi, sia perché mi piaceva stare insieme a loro e partecipare a quel modo semplice e misurato del vivere.
Dopo, mentre ognuno riprendeva le proprie incombenze, io andavo di nuovo sulla prua a sonnecchiare.
Questa situazione, per me inconsueta, mi spingeva, anche, ad altre cose: mi sporgevo per vedere la prua di legno che fendeva l’acqua e la grandezza del “baffo”, oppure il mio occhio, potendo spaziare per ogni dove, si inoltrava su tutta la superficie del mare in cerca di qualcosa di inconsueto.
Non mi importava la lentezza del natante, anzi ero contento di osservare – come al rallentatore – tutto ciò che mi circondava o che mi “veniva incontro”. Era un assaporare, lentamente, qualcosa che piace. E di questo sono molto grato a coloro che me ne hanno data facoltà.
Dopo aver sbrigato le faccende, qualcuno dell’equipaggio, durante il tragitto, forse per alleggerire la noia del viaggio o forse per divertirsi, “mollava” una lenza con la speranza di prendere qualche tunnacchiella o altro pesce.
Giunto nel porto il “bastimento”, a volte, non attraccava come al solito al molo, parallelamente alla banchina (’i chiatt’), ma si fermava in rada, davanti alla centrale, per scaricare la nafta.
In tal caso saltavo sulla lancia che, come cagnolino al guinzaglio, ci aveva seguito lietamente, or di qua or di là, a poppa, per tutto il tragitto. Poi, dopo aver tolto le scarpe ed i calzini e avermi rimboccato i pantaloni, assaporavo la frescura della battigia della spiaggia di Giancos o per meglio dire “l’acqua di casa”.
Certamente moltissime altre persone, penso, hanno avuto questa esperienza anche con il mare tempestoso e con il vento teso che induceva il comandante ad alzare la vela!
Si sa, le procelle non li fermavano; se non, penso, soltanto quelle… burocratiche.
Per questo possono essere presi come esempio, ancora oggi, anche in altri ambiti.
A me piace ricordarli e salutarli con una poesia di Nazim Hikmet:
Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare
mi porto un po’ della tua ghiaia
un po’ del tuo sale azzurro
un po’ della tua infinità
e un pochino della tua luce
e della tua infelicità.
Ci hai saputo dir molte cose
sul tuo destino di mare
eccoci con un po’ più di speranza
eccoci con un po’ più di saggezza
e ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare.
Ciao,
Pasquale