Archeologia

Biografia di un paese (2)

Preistoria

di Ernesto Prudente

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I primi passi dell’essere umano sulle rocce delle isole Pontiae si perdono nel  tempo. Risalgono a migliaia e migliaia di anni fa. Fu la curiosità dell’ignoto a spingere l’uomo a imbarcarsi su una piroga e a pagaiare verso quelle isole che dal continente, dove viveva, si stagliavano davanti chiare e nette. Tanto tempo è passato ma noi, oggi, riusciamo ancora a percepire l’eco dei loro rumori.

Era l’epoca in cui l’uomo non aveva il minimo sentore di uno spaghetto al sugo di fellone, né conosceva il sapore di una fetta di merluzzo dorato e fritto. Conosceva, però, le patelle, i rufoli e un particolare tipo di “fiorentina” a suo uso e consumo.

Era il periodo in cui si alimentava con i frutti che riusciva a trovare lungo il suo peregrinare e con la carne di quegli animali che riusciva ad abbattere e le cui pelli, senza concia, servivano a proteggerlo dalle intemperie meteorologiche.

Il certificato di nascita di quegli oggetti litici, rinvenuti da diversi ricercatori e studiosi agli inizi del secolo scorso e anche successivamente, porta la loro origine a circa ottomila anni or sono.

Ciò significa che migliaia e migliaia di anni prima della fondazione di Roma, prima della  nascita di Cristo, l’uomo ha messo piede su queste terre che a me piace definire nostre.

Mi viene  voglia di dire che, questi appassionati studiosi, hanno redatto anche un certificato di residenza.

Attraverso i reperti rinvenuti si è potuto accertare  che l’uomo primitivo si è fermato a Palmarola, a Ponza e a Zannone .

Era gente che proveniva dal promontorio del Circeo o dalle zone limitrofe.

Sicuramente la loro prima traversata verso le isole fu un approccio dettato dalla curiosità, dal desiderio e dall’interesse di conoscere quelle terre circondate dal mare. Sicuramente non avrebbero mai pensato di poter lasciare la vastità continentale per la ristrettezza di un’isola.

Per la  disposizione delle isole nel mare  è semplice affermare che conobbero prima Zannone, poi Ponza ed infine Palmarola.  E fu proprio a Palmarola che scopersero una pietra il cui uso immediato  mutò il loro sistema di vita e le loro abitudini.

Una scoperta dovuta al caso. Balù, uno dei componenti la spedizione, appena mise piede a Palmarola, nella zona di Vardella, venne attratto dal colore di una pietra. Era un ciottolo, arrotato dal mare, con una scorza in parte butterata e in parte lucente di colore nero intenso.

Spinto dalla curiosità si  avvicinò e lo raccolse. Strofinando con un dito la patina che si era formata sulla parte liscia notò una tale  lucentezza  che riusciva a riflettere la luce del sole. Rimase esterrefatto e sbalordito. Non gli era mai capitato, né mai era successo ad altri, di fare un incontro del genere.

Abituato a lavorare la pietra, istintivamente fu portato a prendere un sasso e a percuoterla.

La pietra si sfaldò senza frantumarsi. La percussione aveva prodotto una serie di lamelle i cui bordi erano affilatissimi cosa che fino ad allora non era mai successo con le pietre che usavano o che erano state usate prima.

La sua meraviglia superò ogni limite.

Ne aveva frantumate e lavorate pietre! Alcuni suoi compagni dal sorgere al tramonto del sole, non facevano altro che percuotere il sasso prescelto, con uno più duro, con la speranza di ricavarne  un oggetto utile.

La pietra che si lavorava comunemente da millenni era la “selce”. A quella pietra,  scoperta e rinvenuta a Palmarola, venne, poi, dato il nome di “ossidiana”.

Selce e ossidiana, due pietre con struttura diversa.

Gli storici hanno definito Paleolitico (pietra vecchia) il periodo dell’uso della selce  fissando in  Neolitico (pietra nuova) quello dell’ossidiana.

Ambedue queste epoche sono durate diversi millenni.

Balù, dopo aver girato e rigirato fra le mani quei rasoi affilatissimi, li depositò su un sasso e si diede alla ricerca di altre pietre simili. Le notò, sempre per il colore e  la lucentezza, incastrate nelle pareti  di terra ammassata.

Erano pezzi più piccoli del primo e non presentavano butterature.

Li scrostò con facilità anche con l’aiuto di un pezzo di legno.

Da intagliatore raffinato prese un sasso e si diede a lavorarle. Come avvenne con la precedente, la pietra nera non si frantumò, si scheggiò come a sfogliarsi ed anche, in questo caso, i bordi risultarono taglienti e le punte affilate.

Capì di aver scoperto qualcosa di meraviglioso di cui non conosceva ancora la portata.

Pensò subito di partecipare la sua gioia ai compagni, che si erano avviati verso l’alto.

Li chiamò a voce spiegata tanto che in breve tempo furono nelle sue vicinanze.

Il suo viso era splendente. I suoi occhi irradiavano gioia e contentezza.

Con poche parole, l’oratoria era un’arte sconosciuta, spiegò ai compagni quello che aveva scoperto e mostrò i risultati del suo ritrovamento.

Gli oggetti ricavati passarono di mano in mano suscitando stupore e  sbalordimento. Tutti, con accanimento, si diedero alla ricerca di  pietre simili che avrebbero, come poi è successo, cambiato totalmente il loro modo di vivere.

La caccia alle pietre venne bloccata dall’urlo di Andalù, il capogruppo, che impose a tutti di prendere posto sulle piroghe per fare ritorno a Ponza, per l’occasione, campo base.

A Ponza avevano rinvenuto, nelle precedenti escursioni, alcune grotte che usarono per i loro pernottamenti.

Sia durante il tragitto che  nella notte seguente  il discorso fu tutto sulla scoperta di questa nuova pietra e sul suo uso.

All’alba del giorno seguente, approfittando delle buone condizioni marine, si imbarcarono per il rientro. Con loro imbarcarono, con molta cura, anche i manufatti di Balù e quelle  poche pietre grezze che erano riusciti a racimolare.

Presero il mare seguendo sempre la stessa rotta con il costeggiare la parte occidentale di Ponza e di Zannone. La remata, quel giorno, fu più possente e più vigorosa del solito. Avevano qualcosa di molto importante da mostrare alla gente che era, come al solito, in attesa.

L’approdo sulle coste continentali  fu, come sempre, indescrivibile.

La gioia, la felicità, la contentezza, il giubilo, la letizia che si potevano leggere sul volto di ognuno di questi pionieri vennero trasmessi a quelli, grandi e piccini, che erano accorsi al loro arrivo.

Balù spiegò ripetutamente, anche con dimostrazione pratica, i risultati della sua involontaria scoperta.

Tutti quelli che, sparpagliatamente, vivevano nella zona si riunirono  per valutare appieno questa nuova scoperta e il modo migliore per sfruttarla.

Erano scesi a Palmarola, chi sa quanti anni dopo la conoscenza di Zannone e Ponza, sempre spinti dalla curiosità dell’ignoto e sempre  in cerca di bacche e animali, invece, inconsapevolmente, scoprirono   un qualcosa che avrebbe mutato le loro abitudini, il loro modo di vivere.

Un fatto analogo si è poi ripetuto, in questo lungo cammino della vita dell’uomo, migliaia e migliaia di anni dopo, quando Cristoforo Colombo, diretto nelle Indie si trovò davanti il continente americano la cui involontaria scoperta, anche allora, incise profondamente sulla storia dell’uomo.

E come per la gente del dopo Colombo, anche gli uomini primitivi che vivevano nella zona continentale prospiciente le isole si diedero ad attrezzare, subito e con fervore, le loro “unità navali” per una maggiore e migliore possibilità trasporto. Alla piroga, barca primaria, affiancarono la zattera che presentò subito notevoli vantaggi perché riusciva a contenere più persone, aveva una maggiore stabilità, non imbarcava acqua e poteva sfruttare, con l’impiego di vele primitive ricavate dalle pelli di animali,  l’azione del vento per la navigazione. Soprattutto la zattera aveva una maggiore capacità di carico senza il pericolo di affondamento.

Quel marinaio imparò che al mattino il vento soffiava dalla costa verso le isole e che nel pomeriggio il suo corso era in senso contrario. Ciò, oltre a  facilitare il suo lavoro, rendeva più agevole la navigazione.

Una volta organizzata “la flotta”, la cui sistemazione era salita a priorità assoluta,  e quando le condizioni del mare lo  permettevano, essi erano sempre in viaggio.

La méta era sempre Palmarola anche se, per fattori diversi, non mancavano le soste, più o meno prolungate, dettate dalle necessità per improvvisi mutamenti delle condizioni meteomarine, a Ponza e a Zannone.

La scoperta dell’ossidiana permise, per le peculiarità del minerale e per il rapido tempo di lavorazione,  di realizzare strumenti e utensili di vario genere e di migliore impiego  il che spinse quella gente a  mettere in opera una vera industria, di molto superiore a quella della selce.

L’uomo primitivo ha vissuto due fasi storiche che sono state classificate in Paleolitica (epoca della pietra antica) e Neolitica (epoca della pietra nuova).

La differenza tra questi due periodi, distanti tra loro migliaia di anni, consiste nel passaggio dalla pietra scheggiata a quella lavorata.

Sia sulle isole che sul continente tutti si cimentarono  nella produzione di questi nuovi attrezzi.

La lavorazione della pietra rappresenta la prima industria umana

Il lavoro consisteva nel colpire l’ossidiana con un’altra pietra o con un legno per provocarne la sfaccettatura che consisteva  in lamine con i bordi affilati. Non bisognava arrotare niente. Era come  un bulbo che, sotto l’azione della percussione, regalava lamelle e scaglie  affilatissime. Cose mai viste prima.

Una lavorazione vera e propria, totalmente diversa,  la richiedevano le frecce e le lance che, oltre a dover essere appuntite e taglienti,  dovevano essere fornite di  un codolo per poterle  legare, con cordicelle vegetali, ad un’asta di legno.

Questa pietra, che, in seguito, è stata denunciata all’anagrafe della mineralogia con il nome di ossidiana, e i luoghi del suo ritrovamento segnano un percorso importantissimo nel cammino della storia dell’uomo.

L’ossidiana è il risultato del raffreddamento immediato della pasta, fusa e incandescente, eruttata dal vulcano.

Una pietra talmente originale da essere catalogata  come vetro vulcanico.

In Italia, oltre che a Palmarola, l’ossidiana è stata rinvenuta a Lipari, a Pantelleria e in qualche sito della costa occidentale della  Sardegna.

Tutti luoghi marini. Forse sarà stato proprio il mare  a determinare l’immediato raffreddamento del magma vulcanico.

Le varie ossidiane, in ragione della loro provenienza, presentano, tra loro, diversità di colore tanto da essere facilmente individuabile il luogo di origine.

I luoghi delle isole ponziane  dove rimangono ancora evidenti i segni della  lavorazione sono :  a Ponza ( Fieno e Monte Guardia),  a Zannone ( zona tra il Varo e il Convento ), a Palmarola (tutta la zona, alta e bassa, centromeridionale dell’intera isola).

Queste zone  timbrano ul certificato di residenza di questa  pagina di storia universale.

Ma c’è ancora altro. Tanto altro.

Come per un passaparola, la notizia della scoperta di questa nuova pietra e il suo uso valicò i confini della zona costiera continentale e si inoltrò all’interno, nel centro dell’Italia.

Oggetti di ossidiana proveniente da Palmarola sono stati trovati un po’ dovunque e non solo nella parte dell’Italia centrale.

Di quei tempi e con i mezzi disponibili, non  era possibile partire al mattino dal Circeo e ritornarvi  prima di notte con un carico di ossidiana  per cui alcuni di questi individui, sotto la pressante e considerevole richiesta furono costretti a trasferirsi sull’isola con il preciso compito di raccogliere pietre e tenerle pronte per il trasporto in continente.

Le pietre bisognava cercarle, su un terreno accidentato, e certe volte scavarle,  per cui ci voleva tempo.

Non esisteva, né ci sono indicazioni, almeno a Palmarola,  di una miniera di pietra nera.

Quando tutto andava per il meglio, per un viaggio di andata e ritorno,  ci volevano, minimo, due giornate di luce solare a cui bisognava aggiungere il tempo per la raccolta..

La necessità di avere sempre disponibile una certa quantità di ossidiana per poterla  barattare con altra gente, modificò il modo di vivere degli scopritori che furono costretti a trasferirsi sull’isola.

Lo sbarco e la  permanenza sull’isola dell’uomo preistorico segnarono, come una timbratura a fuoco, diversi momenti importanti della sua storia.

Come prima cosa fece il suo impatto con il mare, con quel mare lontano dalla costa. Una conoscenza e un uso che fu costretto a pagare spesso  con la vita.

La ricerca e la raccolta dell’ossidiana con il successivo trasferimento sul continente, per la continua e assillante richiesta da parte di quelle popolazioni che vivevano nella zona centrale della penisola,  aumentava di giorno in giorno per cui  non era possibile che il carico di una piroga o di una zattera  fosse completato nel corso di una intera giornata solare.

Il tempo solare tra partenza, navigazione, arrivo, ricerca e raccolta della ossidiana, era troppo misero ed i  mezzi inadeguati,  per cui nacque la esigenza di soggiornare sulle isole.

Il baratto tra la pietra, sia grezza che lavorata, con i prodotti nutritivi della terra era troppo importante. Il valore ed il prezzo dell’ossidiana  potrebbero benissimo  paragonarsi  a quelli attuali del petrolio.

Disporre di ossidiana voleva dire di  avere nelle mani  la più significativa arma di ricatto.

Così quell’uomo fu costretto a sovvertire il suo modo di campare. Abituato a vivere allo stato libero, come un cavallo selvaggio, senza una fissa dimora, andando randagio da un terreno all’altro in cerca di bacche e di animali per cibarsi, fu obbligato a stare, almeno per alcuni giorni, con grandi difficoltà, prigioniero sull’isola.

Una prigionia imposta dalla impossibilità di un “arrivi, prendi e ritorni”.

Questo continuo navigare, con gli annessi  e i connessi  relativi, quasi sempre negativi, lo affaticavano al di sopra delle sue umani capacità e possibilità per cui fu costretto a  creare, a  mettere in atto,  per la sua esistenza, sistemi e modi, diversi e differenti  per una condizione di vita migliore.

Dopo un lungo periodo, forse di decenni, forse di secoli, impossibile stabilirlo, di andare e venire, con grande dispendio di vite umane, quell’uomo decise di stabilirsi sull’isola e questo lo condusse automaticamente a mutare il suo comportamento, la sua condotta, il suo tenore di vita.

Da itinerante in cerca di cibo e di animali, per il suo sostentamento, quell’uomo fu costretto, per le nuove esigenze che stravolsero le sue  vecchie abitudini a trasformarsi in coltivatore, a divenire un allevatore, a diventare un cacciatore in forma stabile.  Questa serie di passaggi lo costrinsero ad essere  ingegnere e costruttore perché, essendo le isole prive di sorgenti, nacque la necessità di crearsi depositi per la raccolta dell’acqua piovana e di migliorare le condizioni delle spelonche per garantirsi un vantaggio nella sicurezza e nella protezione dagli agenti atmosferici come la pioggia, il freddo, il vento ed anche  da eventuali attacchi di animali feroci.

Siamo in un periodo che oscilla intorno  all’ottavo  millennio prima di Cristo. Un periodo caratterizzato dalla lavorazione della ossidiana, la pietra di origine vulcanica che, per la sua duttibilità, consentì a quell’uomo di ricavare oggetti e utensili per gli usi più svariati. Ed è anche  il periodo della invenzione dell’arco, della ruota e dei primi oggetti in ceramica di cui alcuni scarti sono presenti a Palmarola.

Questo periodo è caratterizzato, soprattutto, dal fondamentale e graduale cambiamento del modo di vivere  dell’uomo che passa da una economia parassitaria  a quella basata sull’agricoltura, sull’allevamento, sulla pesca.

E’ stata l’isola a trasformare l’uomo da essere errante, senza fissa dimora, che si spostava da un luogo all’altro, in cerca di frutti, bacche e animali, in animale stanziale.

I confini dell’isola e la lontananza della stessa dalle coste continentali non gli permettevano il girovagare quotidiano esterno al territorio dell’isola.

Palmarola, per la presenza dell’ossidiana, Ponza e Zannone, stazioni intermedie con il continente,  hanno dato l’avvio a questa trasformazione di vita.

Su queste isole, e poche altre,   l’uomo fu costretto a fermarsi il tempo necessario per il recupero di una partita di ossidiana da trasportare in continente. La fretta era una cattiva consigliera per cui  quell’uomo, per eliminare i disagi di avventure che spesso imponevano il sacrificio della vita, pensò bene di trasferirsi sull’isola per periodi non certo brevi.

Il tragitto Continente – Palmarola e viceversa non avveniva in linea retta ma costeggiando Zannone e Ponza dove avevano possibilità di rifugio, in caso di imprevisti peggioramenti delle condizioni marine che rendevano difficoltoso e pericoloso il proseguire del viaggio.

Durante queste soste forzate non rimanevano inoperosi. Si davano alla lavorazione della pietra o scavavano fossati per la raccolta dell’acqua piovana. Sia a Ponza (Punta Fieno e  Monte Guardia) che a Zannone (Zona sottostante la “pietra del fuoco”) sono sati rinvenuti, e sono tuttora visibili, considerevoli scarti di ossidiana e numerosi oggetti litici come coltelli, raschiatoi, punteruoli, punte di frecce e di lance.  Tutti oggetti di ossidiana proveniente da Palmarola dove, attraverso la presenza di ciarpame e di rifiuti, i siti di lavorazione dell’ossidiana sono più numerosi.

L’uomo diventa contadino sull’isola come sull’isola diventa allevatore.

E’ l’isolamento dell’isola che gli impose, perché l’indomani trovasse qualcosa, di preparare il terreno alla coltivazione delle piante e dove poteva, per gli utensili che aveva a disposizione,  gradinare il pendio delle colline con la creazione delle parracine.

Se l’uomo non avesse conosciuto l’isola e fosse vissuto sempre sul continente non avrebbe avuto la necessità urgente di rendere agricolo il terreno. Bastava spostarsi di pochi  metri, come in fondo faceva, per trovare frutti naturali e animali.

Sull’isola, data la ristrettezza del territorio, i frutti naturali avevano vita breve per cui nacque il bisogno e la esigenza di provvedere alla raccolta attraverso la semina.

Sull’isola molti prodotti della terra arrivavano anche per lo scambio di qualsiasi genere alimentare con  l’ossidiana.

Con tutti questi reperti rimane accertata la partecipazione delle isole ponziane alla vita preistorica  ed un così remoto insediamento  esprime una grande importanza  per riscontrare nella natura, o attraverso la natura, l’impronta dell’intelligenza dell’uomo e le sue capacità di adattamento.

Ernesto Prudente

[Biografia di un paese. (2). Continua]

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