Confino Politico

Le Fosse Ardeatine (5)

di Gino Usai

La terza vittima innocente “ponzese” delle Fosse Ardeatine fu l’ing. Francesco Savelli, nato nel 1890 ad Asciano, in provincia di Siena. Un suo interessante profilo è stato tracciato su questo sito da Ernesto Prudente (leggi qui).

Nel febbraio del 1935 Savelli scoprì il giacimento di bentonite a Le Forna e il 28 ottobre 1935 verbalizzò davanti al Commissario Prefettizio di Ponza, cav. Bruschelli, la scoperta del prezioso materiale.

Savelli non perse tempo: fondò la SAMIP (Società Anonima Mineraria Isola di Ponza) e si mise subito all’opera perforando Le Forna di pozzi e gallerie. Savelli con la sua miniera creò subito molti posti di lavoro nell’isola ed entusiasmo intorno a sé. Era la prima e unica miniera di bentonite bianca al mondo.

Credo che nessuno immaginasse a quel tempo la devastazione del territorio e le conseguenze ambientali e sociali che la miniera determinerà nei decenni successivi.

All’inizio i benefici furono tanti per l’isola, e tutto sembrava bello. I ponzesi non erano più costretti ad emigrare e il posto di lavoro garantito permetteva di restare a casa e vivere dignitosamente, nonostante la durezza della miniera; ma il lavoro sul mare e l’emigrazione in America non erano meno pesanti. Anche molte donne vennero assunte, le prime operaie della storia  di Ponza. La SAMIP per le sue maestranze organizzò un piccolo ambulatorio e a sue spese fece aggiustare la chiesa di Le Forna.

Il materiale estratto veniva trasportato con i velieri a Gaeta, dove nel 1937 nell’Arsenale, in prossimità del porto, era stata organizzata una raffineria di bentonite. Anche lì le condizioni degli operai erano molto dure, esposti senza alcuna precauzione a lavori pesanti e nocivi che procuravano la silicosi.

Nel novembre del 1938 Savelli partecipò con un suo padiglione alla “Mostra Autarchica dei Minerali Italiani” e illustrò a Mussolini le virtù della preziosa bentonite bianca ponzese. Sembra che da questo incontro sia nata l’idea, per favorire lo sviluppo della SAMIP, di chiudere il confino politico a Ponza, cosa che avvenne puntualmente pochi mesi dopo, nel luglio del 1939.

In quegli anni la produzione della SAMIP raddoppiò di volume e il numero di operai salì alla considerevole cifra di 300 unità.

Alcuni testimoni mi hanno raccontato che a Ponza, nel 1939, giunse il Prefetto di Littoria. Una grande folla si radunò nella piazza del Municipio, alla Punta Bianca, e al grido di “Viva il Prefetto” gli chiesero l’abolizione della colonia confinaria ritenuta un ostacolo allo sviluppo turistico dell’isola. Guidavano la manifestazione Aristide Baglio, Vincenzo Silvestri, Aniello Laddomada e Silverio Martinelli. Anche i fratelli Aniello e Bettina Guarino, figli di Totonno, corsero in piazza a manifestare.

Totonno Guarino aveva una macelleria in Corso Principe di Napoli, di rimpetto alla panetteria di Maria Grazia Migliaccio (oggi casa Scarpati) e macellava le bestie in una grotta sotto il tunnel di S. Antonio (quella che ha il cortiletto che affaccia sulla banchina). Totonno si adirò con i figli, perché riteneva la chiusura del confino una sciagura per la sua famiglia e per il suo negozio, che riforniva di carne l’intera colonia confinaria. Ogni settimana a Ponza giungevano due mucche da macellare, una era per lui e l’altra per il suo collega Luigi Di Monaco. Con la chiusura del confino Totonno ebbe un crollo delle vendite, come accadde a tutti i commercianti dell’isola. E allora disperato urlava contro i figli: “Avete voluto togliere il confino? Adesso mangiate paliero!”

In realtà, racconta Corvisieri, in quell’occasione, si era nei primi giorni di luglio del 1939, giunsero a Ponza in pompa magna sul cacciatorpediniere “Generale Cantore” l’ex ministro della cultura Pietro Fedele, Presidente del Consiglio di Amministrazione della Samip, con un codazzo di autorità ministeriali, civili e militari, con tanto di stampa e di operatori cinematografici a seguito. Si recarono in visita alla miniera e poi al Municipio. Il resoconto filmato di quell’ avvenimento fatto dall’Istituto Luce è pubblicato nella sezione “Filmati” di questo sito. Scopo della visita era rafforzare la presenza della SAMIP a Ponza e chiudere la Colonia Confinaria: (Guarda qui)

Fedele confidò a Savelli di aver convinto Mussolini al grande passo. Infatti qualche giorno dopo, il 6 luglio, giunse dal Ministero dell’Interno ai prefetti di Napoli e Littoria il seguente telegramma: “d’ordine superiore dev’essere subito sgomberata la colonia di Ponza”.

Ma c’era poco da gioire per la SAMIP, per Savelli, per i sostenitori dello sviluppo turistico, per i ponzesi di qualsiasi condizione e per il mondo intero: il primo settembre di quello stesso anno, una terribile e devastante  guerra andava ad iniziare, trascinando il genere umano verso l’inferno.

Ma la nascita e l’evoluzione della SAMIP non fu tutta rose e fiori. Fin dall’inizio, come racconta Silverio Corviseri nel suo saggio “Zi Baldone”, Savelli venne ostacolato dalle consorterie politiche del tempo legate al ministro della Polizia Arturo Bocchini, che portarono alle dimissioni di Fedele da Presidente della SAMIP, subito sostituito da Terenzio Macchia. Anche Savelli dovette dimettersi da Amministratore Delegato e da Direttore. Ma senza le adeguate competenze, la nuova dirigenza della SMIP condusse l’azienda verso un periodo d’incertezze.

Corvisieri parla di spirito di vendetta della polizia nei confronti di Savelli: “…fu continuamente sorvegliato, multato, diffidato e minacciato di rappresaglie ancor più gravi fino a quando non si decise a farsi da parte. Ma in questo modo la polizia fascista trasformò in un militante antifascista un ingegnere imprenditore  che per molti anni non aveva mai immaginato di doversi battere contro il regime e che non aveva mancato di ossequiare il fascismo forse per convinzione o forse, com’è più probabile, per quieto vivere”.

Savelli non era tipo da arrendersi facilmente e nel gennaio del 1942 tornò alla guida della SAMIP come amministratore delegato, facendo nominare presidente suo zio, il senator Giorgio Nobili. A questo punto piovvero su Savelli un diluvio di inchieste e di denunce.

Si era ormai in piena guerra e la miniera lavorava senza sosta. I viveri erano razionati e gli operai malnutriti. A settembre di quello stesso anno Savelli decise di offrire la mensa gratuita agli operai. Polizia e carabinieri lo denunciarono perché i cibi in quel tempo di guerra erano razionati e lui aveva trasgredito le rigide regole del razionamento. Savelli fu quindi costretto a chiudere la mensa della raffineria di Gaeta, diretta da suo figlio Vittorio, il quale dalle autorità venne minacciato di essere sbattuto al confino se non avesse subito riattivato il servizio mensa.

Fu così che Savelli, pur essendo stato in gioventù un fervente fascista della prima ora, maturò la sua avversione all’apparato poliziesco e al regime e si avvicinò al Partito d’Azione al quale, nel 1943, mise a disposizione la sua tipografia  a Roma per la stampa di volantini antifascisti e del giornale “Italia Libera”. La scesa in campo di Savelli nell’agone della politica, per un’Italia più giusta e libera, lo portò al sacrificio supremo.

Scrive Corvisieri: “Il 5 febbraio 1944, in seguito a una spiata, le SS piombarono all’alba nella sua abitazione e lo condussero nel carcere di via Tasso dove fu ripetutamente torturato; dopo alcuni giorni fu trasferito nella prigione di Regina Coeli da dove sarebbe uscito soltanto per essere portato alle Fosse Ardeatine. Da una cava, quella di Ponza, che lo aveva gratificato, a quella romana del massacro. Durante la detenzione, era stato più volte selvaggiamente preso a nerbate nonostante fosse malato di calcolosi ad entrambi i reni. Vani furono tutti i tentativi di farlo ricoverare nella infermeria di Regina Coeli. Riuscì tuttavia a scambiare clandestinamente qualche biglietto con la moglie. La mattina del 24 marzo il suo nome figurava nell’elenco dei 335 prigionieri destinati al massacro delle Fosse Ardeatine. La sua miniera a Ponza nel frattempo aveva chiuso i battenti a causa della guerra”.

***

Il 24 marzo 2011 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha deposto nel Sacrario delle Fosse Ardeatine una corona in onore delle 335 vittime dell’eccidio, e ha detto: «Questa cerimonia la possiamo oggi considerare parte integrante delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. In questi 150 anni ci sono anche gli anni terribili della seconda guerra mondiale, con questa vicenda che è la più emblematica della ferocia che assunse la presenza nazista in Italia».

Anche il papa, Benedetto XVI, tre giorni dopo, il 27 marzo, si è recato alle Fosse Ardeatine per  celebrare il 67esimo anniversario dell’orrenda barbarie. Dopo aver deposto un cesto di fiori davanti alla lapide che ricorda l’eccidio, il Papa ha pregato in ginocchio davanti alle tombe delle vittime. Successivamente, rivolgendosi alla folla convenuta e al presidente dell’Associazione Nazionale delle Famiglie Italiane dei Martiri caduti per la Libertà della Patria, Rosina Stame, ha detto: “Ciò che qui è avvenuto il 24 marzo 1944 è offesa gravissima a Dio, perché è la violenza deliberata dell’uomo sull’uomo.

(…) “Come i miei predecessori, sono venuto qui a pregare e a rinnovare la memoria. Sono venuto ad invocare la divina Misericordia, che sola può colmare le voragini aperte dagli uomini quando, spinti dalla cieca violenza, rinnegano la propria dignità di figli di Dio e fratelli tra loro”

(…) “Esiste la possibilità di un futuro diverso, liberato dall’odio e dalla vendetta, un futuro di libertà e di fraternità, per Roma, l’Italia, l’Europa e il mondo”.

(Le Fosse Ardeatine. 5. Fine)

Gino Usai

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