Cinema - Filmati

Premi David di Donatello. Viva il Cinema

segnalato da Tano Pirrone e Sandro Russo

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Centosettantuno film italiani di lungometraggio di finzione iscritti; 26 quelli diretti da registe donne; 61 le opere prime; 138 i documentari; 495 i cortometraggi. Basta partire da questi numeri del concorso per raccontare l’importanza e la valenza della 69ᵃ edizione dei Premi David di Donatello.
E, come sempre, Rai sarà a fianco dell’Accademia e di Cinecittà per raccontare, venerdì 3 maggio, la cerimonia di premiazione, in diretta in prima serata su Rai 1 condotta da Carlo Conti con Alessia Marcuzzi in compagnia di tanti ospiti prestigiosi.
L’evento si è svolto negli iconici studi di Cinecittà, sempre di più punto di riferimento per le produzioni nazionali e internazionali grazie a un rilancio industriale e creativo che la rende leader a livello globale. A ospitare la diretta è stato il leggendario Teatro 5 di Cinecittà, “tempio” della grande cinematografia nazionale e internazionale, che è diventato per una notte la casa dei David [ https://www.rai.it/ufficiostampa/ ].
Qui di seguito il reportage della serata, di Arianna Finos e il commento  di Concita De Gregorio, entrambi da la Repubblica

I premi del cinema italiano
Trionfo ai David per Garrone e Cortellesi
di Ariann Finos – Da la Repubblica del 4 maggio 2024

Sette statuette al film già candidato all’Oscar che racconta l’odissea di due giovani migranti, mentre continua il successo di Paola Cortellesi al suo esordio alla regia. Cinque riconoscimenti a Bellocchio, tre a ‘Palazzina Laf’

Sette David di Donatello a Io capitano di Matteo Garrone, il titolo più premiato, tra cui migliore film e regia. Ma c’è anche Paola Cortellesi, sei premi al fenomeno C’è ancora domani, tra cui attrice protagonista, regista esordiente, sceneggiatura.

La grande favorita, premio del pubblico con oltre 5 milioni di spettatori, delle diciannove candidature porta comunque a casa un robusto bottino, un tributo importante, anche se numericamente ridimensionato rispetto ai pronostici.
Mentre agguanta la statua da regista esordiente scherza: «Ho fatto un debutto alla regia alle soglie della menopausa, mi auguro che esordienti giovani abbiano il sostegno per raccontare nuove storie».
Cinque premi a Rapito, del maestro Marco Bellocchio, tra cui la sceneggiatura: – «Alla mia età sono moderatamente contento» – sorride dal palco, al fianco di Susanna Nicchiarelli.
Nei riconoscimenti si sono alternati autori affermati ed esordienti.

Palazzina Laf di Michele Riondino. altro attore passato dietro la macchina da presa, ne porta a casa tre, corposi: miglior attore protagonista e migliore non protagonista — Riondino stesso ed Elio Germano — e la canzone, bellissima, di Diodato, La mia terra.
In comune hanno, i film premiati, la capacità di respiro internazionale.
Io capitano ha rappresentato l’Italia agli Oscar entrando nella cinquina e il trionfo ai premi italiani risarcirà l’amarezza del regista per il mancato premio dell’Academy. Rapito, d’altro canto, ha avuto una grande accoglienza allo scorso Festival di Cannes e recensioni lusinghiere.

Paola Cortellesi è stata, anche, la mattatrice della cerimonia dei David di Donatello numero 69.
I sei premi dell’Accademia del cinema italiano sono l’ultimo riconoscimento del suo viaggio iniziato, a sorpresa, alla Festa del Cinema di Roma lo scorso ottobre passando per il mondo: Inghilterra, Francia, Spagna, Stati Uniti, Argentina.
A suo agio fin dal tappeto rosso, circondata da ballerini-David pailettati e piroettanti al Teatro 5 di Cinecittà, l’attrice-autrice prende in giro sarcastica il malcapitato presentatore Fabrizio Biggio, sul palco della cerimonia condotta su Rai 1 da Carlo Conti e Alessia Marcuzzi sale più e più volte nella serata: mai un’incertezza, mai ripetitiva, sempre una battuta.
Quando vince come protagonista scherza, «mi ha raccomandato la regista» e poi «qui è tutto un magna magna, sempre gli stessi sul palco».
Il primo premio che le arriva, già assegnato, è del pubblico. E lì, sul palco, in quel primo ringraziamento. Con il suo garbo semplice, spiega la sua filosofia che è anche una risposta a chi sorride un po’ a denti stretti per il suo trionfo.
«Voglio ringraziare gli spettatori, si sognano sale piene ed emozioni condivise. E i miei produttori, che di fronte a un film in bianco e nero, in romanesco, coi balletti e con le botte hanno voluto farlo. Non mi piace chi considera il pubblico una massa di estranei, lo siamo noi tutti e mi piace pensare che ci sia chi ha combattuto, chi ha fatto degli errori, chi non la pensa come me. Grazie ai cinque milioni che hanno fatto il gesto eroico di uscire di casa, pagare un biglietto, cercare parcheggio per vedere il nostro film, sceglierlo, fidarsi, come quel signore di Torino che ha detto “sono uno di quei bambini che mandavano di là” e la signora di Genova che ha detto “io sono stata Delia ma non lo sono più”».
I film vincitori guardano a storie personali e familiari inserite in quella grande, pescano le foto in bianco e nero sbiadite dal nostro vissuto, le nostre nonne, la loro condizione, i mancati diritti. Raccontano gli oppressi nelle fabbriche anni Settanta, la violenza del potere religioso che sradica un bambino dai genitori, sono istantanee d’autore, drammatiche preziose, di un presente globalizzato. Hanno al centro le donne, i bambini, gli immigrati, gli operai.
Elio Germano, al quinto David su cinque candidature, chiama Riondino sul palco, «non possiamo fare a meno di fare delle lotte insieme, questo film è stato un po’ una lotta. E abbiamo capito dagli incontri con il pubblico che è un film attuale, un film sul lavoro, che sembra dimenticato dal cinema, e che invece è entrato violento nel territorio e nelle persone. I film non cambiano le cose ma magari ce le fanno guardare».
Riondino: «Palazzina Laf, Comandante, Disco boy, ai David ci sono film girati in Puglia che ci ricordano che non c’è solo la fabbrica, il cinema può essere un’altra prospettiva».
Alla fine, a salire sul palco per il premio alla miglior regia e per quello al miglior film ci sono Matteo Garrone con gli attori Seydou Sarr e Moustapha Fall: «È un film che nasce dall’idea di ascoltare storie di chi di solito non viene ascoltato, è stato fondamentale farlo insieme a chi ha realmente vissuto quella odissea contemporanea».

Il commento
Se il cinema dà lezione
di Concita De Gregorio

«Il cinema non può cambiare le cose ma può cambiare lo sguardo», ha detto Elio Germano ai David di Donatello, quasi tre milioni di persone davanti alla tv.
Può cambiare lo sguardo sulle cose. Quanto servirebbe, mamma mia. Che bel Paese sarebbe l’Italia della politica, di chi governa, se somigliasse almeno un poco al cinema italiano candidato e premiato ai David.

Parlerebbe di donne, di diritti da proteggere, racconterebbe la Storia, il desiderio di felicità di chi parte attraversando continenti, deserti e mari. Di guerre di religione, di violenza del profitto, di ricatto del lavoro in cambio di vita e salute.
Parlerebbe di amore e di politica, sì anche di politica intesa come tensione verso un orizzonte comune, condiviso e migliore. Di illusioni e di disillusioni. Di discariche di rifiuti tossici riversati proprio sopra la bellezza suprema, sotterranea e segreta.
Di bellezza, parlerebbe. Invece no. Invece parla ogni giorno, l’ennesima campagna elettorale, di risse cupe, di ambizioni personali, di candidati armati di fucile o in divisa militare, di partiti in guerra con se stessi, al loro interno e nella loro stessa coalizione. Non c’è da stupirsi se il diritto di voto viene esercitato sempre meno.
Se c’è voluto il film di Cortellesi per ricordare ai più anziani e spiegare ai più giovani quanto è costato, ottenerlo: alle donne, in specie — alle donne costa sempre tutto di più. «Ringrazio i cinque milioni di persone che sono uscite di casa, hanno cercato parcheggio, hanno pagato il biglietto per vedere questo film», ha detto lei.
Il cinema, del resto, si fa per il pubblico. Perché cambi «lo sguardo sulle cose» nel maggior numero possibile di persone, non per l’acribia di una manciata di critici, non per il sopracciglio alzato di chi confonde l’insuccesso con il genio, considera volgare tutto ciò che è popolare: un alibi di latta che autoassolve chi non sa e non può generare desideri.

Spesso i grandi talenti non hanno avuto successo in vita, è vero, ma ho una cattiva notizia: non basta l’insuccesso per definire un talento. E poi il successo genera invidia: ti applaudono per cinque minuti, che sorpresa, poi non te lo perdonano. Del resto le mosche si vedono solo quando infastidiscono elefanti. Bisogna avere pazienza con le mosche, gli elefanti ne hanno moltissima.

Dunque sì. Ha ragione Paola Cortellesi: aver avuto cinque milioni di spettatori con una storia in bianco e nero ambientata nel ’46 è un fantasmagorico risultato ed è riuscito solo a lei. Il suo film è formidabile, ne abbiamo parlato qui al suo debutto prima che tutto accadesse. Entusiasma il pubblico nel mondo e avrebbe meritato una candidatura agli Oscar se non fosse che la regista è un’esordiente alla regia, un’attrice comica «vicina alla menopausa», ha riso di sé, certo ci saranno state ragioni tecniche del resto sempre superabili, nel Paese in cui ogni ostacolo si aggira, ma pazienza.

Quel che conta è il risultato popolare, per una storia che parla del diritto di voto alle donne ora che a votare la metà degli italiani non ci va. I premi «sono tutto un magna magna», la cito ancora.
E però a qualcosa servono. A generare curiosità, per esempio.

Io capitano di Matteo Garrone è una storia bellissima, è un film che piace (di più) ai cinefili perché certo, Garrone ha i titoli giusti, è un regista laureato. Non importa che il premio maggiore (miglior film) abbia qui il sapore di un risarcimento per l’Oscar mancato, come è evidente. Importa di più che sia una storia che parla al presente, che racconta in controcampo, dal punto di vista di chi parte e non di chi chiude i porti e lascia morire in mare chi è sul punto di approdare, di chi è responsabile di Cutro per esempio — cioè noi, questo governo democraticamente eletto e lasciato eleggere da chi non ha espresso il suo voto.
«Le lotte si fanno insieme», ha detto ancora Elio Germano.

La mattina il Presidente Sergio Mattarella, parlando ai candidati al Quirinale, aveva scandito per chi lo dimentica che il cinema «esprime libertà, quella da assicurare anche a chi non condivide i nostri gusti, a chi la pensa diversamente». Esprime «valori plurali», «valori di umanità, con sentimenti che aiutano a rafforzare il senso di comunità».
Ecco, il senso di comunità. Il valore del dissenso. I diritti, di nuovo.

Palazzina Laf , bellissimo film di Michele Riondino, è stato assai premiato. Racconta di Taranto, dell’Ilva, di chi muore di lavoro: lo fa senza un filo di retorica e parla del mondo com’è, come non dovrebbe più essere. Speriamo che torni in sala e che molti possano ancora vederlo.
Speriamo che molti vedano La Chimera di Alice Rohrwacher (sul sito, leggi qui), David-ombra al miglior film non premiato, meno male che c’è Justine Triet.

Una lezione, dalla regista reduce dal successo degli Oscar per Anatomia di una caduta, salita sul palco dei David (miglior film internazionale) a dire non di sé ma di Rohrwacher, appunto. Di che maestosa artista sia. Il miglior discorso dal palco, quello di Triet, il più disinteressato e generoso. Andate a vedere La Chimera, se potete, perché la bellezza e la poesia sono le sole armi che restano in questo tempo cupo.

Marco Bellocchio con Rapito, la conversione forzata al cattolicesimo di un bambino ebreo, ha vinto i premi tecnici. Un maestro, una grande storia. Nanni Moretti con suo congedo dalla passione politica, dalla militanza politica in favore dell’amore, Il sol dell’avvenire, nessuno. Anche questo ingiusto canestro vuoto è un segno triste del tempo. Ritrovare il fuoco, a sinistra, è difficile assai — al momento.

«È per Lauretta, questo film», ha detto Cortellesi. Sua figlia bambina. La splendida Romana Maggiora Vergano nel film. A loro bisogna consegnare il testimone.
I giovani talenti premiati ai David si sono visti appena, tuttavia: hanno declinato i loro nomi e sono usciti. Eppure è a loro, invece, che è destinato tutto.
Speriamo siano forti abbastanza, rivoluzionari e liberi. «L’ingresso di nuove generazioni produce ricchezza», ha detto Mattarella. Certo. Lasciamole entrare, però.

[Di Concita De Gregorio, da la Repubblica del 5 maggio 2024]

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