Ambiente e Natura

Into the wild/12. Il ritorno alla natura selvatica

proposto da Sandro Russo: “Com’è stato che natura e uomo ‘civilizzato’ hanno preso strade diverse”

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Il Manifesto. Cultura. Into the wild/12
Il caso dell’orsa JJ4 e il suo contrastato rapporto con l’altra specie – quella umana – ha dato l’avvio a questa serie di pagine culturali che indagano la relazione con il selvatico da diverse prospettive. C’è quella «reale» (che comunque sconfina nell’immaginario), e quella della finzione letteraria, come il puma di Hollywood, o storie dai tratti leggendari: dalle fiabe alla scoperta (spesso non veritiera) dei «bambini delle foreste»
per l’intima familiarità con la selva dello scrittore uruguayano Quirogapassando per le simbologie risvegliate dai lupi alle porte della città, E poi ci sono le orse di Artemide, i meravigliosi incontri sottomarini, il desiderio di tornare «indigeni»l’empatia con animali e le fantasie equine di Turgenev a Tolstoj. Senza dimenticare le commistioni di uomini e maiali irlandesi l’utopia vegetale di riunire diversi mondi in un unico giardino assai «indisciplinato».

 

Cultura. Into the wild/12
Fuga dalla città per «farsi indigeni»
di Claudia Bruno – Da Il Manifesto del 27 agosto 2023

Un percorso di letture che invitano a nuove vite per un incontro fra specie. «L’occhio della natura selvatica è ben posato su di noi», scrive l’inglese Etain Addey nel suo memoir. C’è anche il ritratto di designer, architetti, fotografi, artisti cresciuti tra New York, Berlino, Londra e Mumbai che hanno deciso di trasferirsi nei posti più remoti del pianeta

Henri Rousseau il Doganiere, «Scimmie nella giungla», 1906

Se al centro della fronte avessimo un occhio magico che ci consentisse di rimpicciolire la scala dei nostri pensieri, guardare il pianeta dall’alto e da fuori, probabilmente nessuno comprenderebbe davvero il motivo per cui una specie dovrebbe rintanarsi dentro agglomerati di sogni inespressi, gineprai separati da foreste e deserti, scogliere e grandi mari. «A volte vedevo me stessa come un roditore del sottobosco, un mammifero lavoratore pensato per nutrire animali più grandi» racconta la protagonista del romanzo Mammut (Nottetempo, 2022), il terzo della scrittrice catalana Eva Baltasar, che con i precedenti Permafrost e Boulder aveva già iniziato a comporre una personale geologia dello stare al mondo.

La ragazza senza nome vive a Barcellona, intrappolata in un «immenso ingranaggio sputa e strappa» che la tiene in cattività, dove lavorare, che si tratti di intervistare anziani per una ricerca o servire caffè, equivale a consegnare a qualcun altro quanto si possiede di più prezioso. «Volevo l’orizzontalità degli habitat ideali, avevo bisogno di provocare l’onda, mulinelli in grado di risucchiare la nebulosa seminale»: è il desiderio imponente di generare un altro corpo che la fa andare a letto coi maschi e organizzare feste di fecondazione artificiale malgrado sia attratta da persone del suo stesso sesso. Una pulsione inumana, che la avvicina a un’idea di sé lontanissima se messa a raffronto con gli algoritmi guida della gabbia che la opprime.

Così, «quasi l’unico modo di andare avanti fosse la fuga» la ragazza che non riesce a rimanere incinta lascia tutto e parte a bordo di una vecchia Peugeot comprata a pochi soldi da uno sconosciuto, che la conduce una pagina dopo l’altra dove «le strade finiscono sempre in mulattiere tortuose di terra battuta» e fino ai boschi, a cui dedica camminate lunghe pomeriggi interi. «Inizio a notare che gli alberi parlano di me tra di loro in un linguaggio che mi sfugge» dice a un certo punto, è l’ingresso nel regno del «non so più cosa voglio, ma so di cosa ho bisogno».

Una legge irresistibile a cui diventa difficile sottrarsi, che la affiderà alla sua postura estrema, la ricerca di una radice prima – «vivrò qui sopra, aggrappata alla roccia come una radice, succhiandole la linfa fino a raschiarmi ogni dito, e ogni dente, e ogni pensiero». L’iniziale prospettiva di lasciarsi scivolare fuori centro si ribalta: il mondo è qui, «arrivare in cima è mettere piede su un palmo gigante, accedere all’immensità». Campi enormi e cieli smisurati fondono il paesaggio interno alla materia circostante.

Nessun romanticismo, la verità della natura è nuda e cruda, un richiamo ancestrale e imprevisto di cui è quasi impossibile parlare. Nel suo memoir pubblicato nel 2006 (Una gioia silenziosa, Ellin Selae), la scrittrice inglese Etain Addey, discendente di «una stirpe di puritane lavoratrici dello Yorkshire» migrata da Londra a Roma negli anni 70 per poi stabilirsi in un podere abbandonato nella Valle di Gubbio e diventare una contadina, ne rintracciava uno stato sentimentale indicibile.
«La gioia silenziosa di questa vita trabocca di parole che tentano di raccontarla» scriveva poco prima di spiegare come aveva lasciato il suo lavoro in una multinazionale. «Ero venuta qui perché sentivo, in modo poco chiaro, che un giusto vivere non mi era possibile in città, da stipendiata, senza che potessi avere a che fare con la materia, senza che potessi affondare le mani nella sostanza. Mi sembrava che, fra me e il mondo, ci fosse un velo che mi impedisse di farne parte».

Ritrovarsi ponteggio di un’architettura «senza limiti interni, senza necessità, dove tutto si può comprare» può arrivare a provocare la nausea. È accaduto a molti, che in quegli anni hanno sentito l’esigenza di lasciare le città, ripopolare le terre dalla California all’Australia, dall’Europa al Sud America. Nell’introduzione alle pagine di Addey, Giuseppe Moretti, tra i più noti esponenti del pensiero bioregionale in Italia, la definiva una rivoluzione invisibile, dove le ragioni individuali andavano a confluire in una consapevolezza diffusa, in qualche modo collettiva. Un movimento radicale eppure vicino nei sentimenti a quello che oggi coinvolge una schiera sempre più fitta di professionisti «creativi».

Nel suo reportage City quitters. Creative pioneers pursuing post-urban life, l’etnografa londinese Karen Rosenkranz, ne ricostruisce un variegato ritratto, raccogliendo attraverso dodici paesi e cinque continenti le storie di una generazione che ha fatto del nomadismo digitale uno stile di vita. Designer, architetti, fotografi, artisti cresciuti tra New York, Berlino, Londra, Roma, Los Angeles, Mumbai, che hanno deciso di trasferirsi con i loro nuclei familiari nei posti più remoti del pianeta – campagne ma non solo, foreste, villaggi, deserti popolati da un numero esiguo di abitanti. Forse più che di una generazione, rappresentanti di una classe allo stesso tempo privilegiata e precaria in via di definizione.
Rosenkranz, ne mette in luce l’intuito e le contraddizioni – abbandonare le città non è coinciso in questo caso con l’abbandono netto di un sistema di valori, quanto con una riconversione d’intenti. Ma in fin dei conti non fa molta differenza se per tutti a spostare il senso è l’occasione di osservare come vive il mondo vero, osservarne le trasformazioni, camminare.

«La frustrazione scompare velocemente quando sei circondata dal silenzio» racconta la designer Kyre Cheven, trasferitasi con il compagno e due figli in un villaggio di sei persone in Sardegna dopo anni di attività tra gli Stati Uniti e Milano. «Ho imparato di più sull’umanità dalle piante, dagli animali e dai paesaggi selvatici di quanto non abbia fatto stando accanto ad altri esseri umani» spiega Rachel Budde, erborista che ha lasciato New York per trasferirsi prima a Oakland e stabilirsi in seguito in un paese californiano di tremila persone.
In questi racconti c’è sempre un pastore, un contadino disposto a mostrare come si accende un fuoco, come si pianta un seme. È il lessico minimo dell’esistenza, l’unico talismano contro l’imprevisto della vita. «Ci ho messo del tempo per accettare che con il mondo materiale non puoi barare» scrive Etain Addey nelle sue pagine di appunti e ricordi. «O c’è la giusta quantità di piccoli pezzi di legna secca che serve o non c’è», non è «come l’ufficio pubblicità, dove si compiono magie nere con le parole».

La filosofa australiana Freya Mathews parlerebbe di «riabitare la realtà», «farsi indigeni» di un territorio di elezione, abbandonare l’assunto per cui la ragione sia prerogativa di una specie e intessere la relazione con il mondo come un incantamento, preferendo l’incontro all’assedio, il mistero alla conoscenza, l’amore al disincanto.
Nei suoi scritti (Per amore della materia, Magi, 2018; Riabitare la realtà, Fiori Gialli, 2013), sulla scia di Leibniz, Schopenhauer e Spinoza elabora una teoria contemporanea del panpsichismo, estendendo a tutta la materia, vivente e inanimata, l’idea stessa di pensiero intenzionale. Non si tratta di animismo, ma di un «erotismo esteso», espressione che riprende dall’etnografa Deborah Bird Rose, a indicare che solo lasciandoci coinvolgere in un processo di innamoramento possiamo mettere davvero in conto che ogni cosa sulla terra ha una sua psiche. Niente di più distante dalla noia spesso attribuita alla campagna, lontano dal rumore delle città si viene subito assorbiti da un lavoro incessante.

«L’occhio della natura selvatica è ben posato su di noi – scrive ancora Etain Addey – ma per scoprirlo bisogna accantonare il cinismo e avere la pazienza di osservare cosa succede e poi riflettere a lungo per capirne i nessi. Questo lavoro, se lo vogliamo chiamare così, richiede una vita in cui ci sia molto silenzio e molto tempo: le attività ripetitive e ritmiche sono utili per questo processo, ci vuole una condizione mentale ricettiva, simile a quella del sonno, o del sogno».

È quanto accade a Simon e Isabel, protagonisti del romanzo L’occhio della montagna – il terzo della scrittrice irlandese Sara Baume, secondo pubblicato in Italia nel 2022 da NNE dopo Fiore frutto foglia fango (2018) – che in una limpida mattina di gennaio lasciano le loro anguste abitazioni di Dublino, e accompagnati da due cani molto amati arrivano al cospetto di un vecchio caseggiato a bordo di un furgone ricolmo di scatole. La casa, a cui decideranno di affidare il loro «unico futuro», è situata ai piedi di un monte da cui costantemente si sentono osservati. Della loro vita precedente sappiamo molto poco – un lavoro nel reparto imballaggi di una fabbrica di televisori, una frenetica routine da cameriera.

«Era stato nei luoghi pubblici, con degli sconosciuti sullo sfondo, che avevano iniziato a parlare della possibilità di vivere in un posto dove non viveva nessun altro». Poi la perdita progressiva di contatti con i familiari e con gli amici, la costruzione di una famiglia «tutta loro». Quello descritto da Baume con una prosa a tratti impressionista e votata all’accumulo è un orizzonte fisico e mentale, ricco di presenze nascoste, di topi che si rintanano nelle caldaie, di «tepori muschiati» e «fetori oppressivi», di materassi stesi a terra e ragnatele sospese, scatoloni ricolmi di cianfrusaglie non più necessarie rimasti accantonati. Ma anche di parole – «scala mobile», «busta paga» – che cadono in disuso, dell’euforia che sgorga dal saper fare a meno, della brughiera che si spinge vorticosa fino alle scogliere.

Chilometri e chilometri di niente, direbbero i proprietari di cottage estivi e seconde case lasciate ad ammuffire al gelo. «Bell e Sigh» ci camminano dentro come due sonnambuli al centro di uno spazio amniotico, «un ovale di nulla, un occhio aperto» che contiene nello stesso sguardo il mondo intero.

[Into the wild/12 – Fine]

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