Storia

L’epopea navale inglese

proposto da Fabio Lambertucci

 

Nei giorni scorsi Fabio Lambertucci ci ha partecipato un suo commento ad un articolo sulla marineria inglese apparso sul n° 192 di Focus Storia, mensile che segue e con cui spesso collabora (leggi qui).
Di qui l’interesse per l’articolo cui il commento si riferiva, che appena ha potuto ha estratto e ci ha fatto pervenire.
Grazie a Fabio, e a Focus Storia, naturalmente.

Per mare e per legno
di Giuliano Da Frè

Temistocle, statista e ammiraglio ateniese che sconfisse i Persiani a Salamina nel 480 a.C., convinse alla guerra i riluttanti alleati ellenici rivelando loro che l’oracolo di Delfi aveva pronosticato la vittoria del “vallo di legno” costruito  da Atene in quegli anni, ossia una flotta di 200 triremi. In età moderna un nuovo vallo di legno prese forma alla fine del XVI secolo, assicurando la nascita di un impero marittimo britannico, durato fino al 1945. Una flotta che però era mossa non dal sudore dei marinai a remi, come sulle navi ateniesi, ma dal vento che ne gonfiava le possenti velature.

Fine di un’era
Il sole del 20 novembre 1827 tramontò sulla baia di Navarino, nel Peloponneso, ingombra dei rottami di decine di velieri turchi ed egiziani, affondati da una flotta anglo-franco-russa comandata dall’ammiraglio inglese Edward Codrington, allievo del grande Nelson. In quegli anni la Turchia fronteggiava l’insurrezione della Grecia – la cui lotta per l’indipendenza supportata da Regno Unito, Francia e Russia – e quella di Navarino sarebbe passata alla Storia come l’ultima grande battaglia tra vascelli a vela. Da trecento anni quel tipo di nave dominava i mari. Ma proprio in quegli stessi paraggi, poche ore prima, una delle prime corvette a vapore, la Karteria, realizzata in Inghilterra per gli insorti greci, aveva più volte sconfitto i turchi, potendosi muovere in maniera indipendente dal vento. Gli osservatori che la videro all’opera ne celebrarono le innovazioni tecniche e nel giro di una generazione tutte le marine mandarono in pensione i velieri da guerra, sostituiti da navi a vapore, presto dotate di scafi in acciaio. Tra le più restie ad abbandonare i maestosi giganti di legno – in quegli anni insediati anche da artiglierie di nuova concezione – ci fu la nazione che su di essi aveva fondato il proprio impero: l’Inghilterra.

Alle origini
La flotta inglese fu nota, dal 1660, con il leggendario appellativo di Royal Navy (o Senior Service).
In quanto isola, l’Inghilterra già nei secoli precedenti aveva impiegato flotte da guerra, ma soltanto con la dinastia Tudor (al potere dal 1485 al 1603) furono gettate le basi per la creazione di una forza permanente. Il re Enrico VIII fondò arsenali e fonderie di cannoni e varò alcune delle più grandi navi da guerra dell’epoca sfruttando lo sviluppo del naviglio a vela, il più indicato per operare in Atlantico a scopi commerciali, esplorativi e militari. Nel Mediterraneo, invece, la galea a remi, lontana erede delle gloriose triremi ateniesi, avrebbe tenuto duro fino al XVIII secolo.
Nel Quattrocento la piccola caravella si era invece identificata con il potere marittimo dei portoghesi, decisi a circumnavigare l’Africa per raggiungere le Indie e creare l’impero delle spezie lusitano.
Tre caravelle avevano poi permesso a Cristoforo Colombo e alla Spagna di buscar el levante por el ponente e approdare nelle Americhe. La Santa Maria, tuttavia, era una più grande e complessa nau, un naviglio di transizione verso le caracche, che sarebbero state la nave da guerra standard all’inizio del XVI secolo, con i loro alti castelli a prua e poppa e tre o quattro alberi oltre a decine di cannoni. Più agile e robusto, il galeone rappresentò dopo il 1550 l’evoluzione della caracca, nonché l’arma principe delle flotte spagnola e inglese quando tra Filippo II e la risoluta regina Elisabetta I si giunse alla guerra totale.

Vencible armada
Il re di Spagna era padrone di una forza navale, ampliata nel 1580 con l’acquisizione del Portogallo, sia oceanica (caracche e galeoni), sia mediterranea, ma nel suo arsenale prevalevano le galee, che nel 1571 avevano contribuito alla vittoria di Lepanto sui turchi. Filippo radunò così una grande Armada ottimisticamente denominata Invencible per tentare, nell’estate del 1588, l’invasione del suolo inglese.
La flotta spagnola fu battuta dalle tempeste e dai galeoni guidati da uomini che, come Francis Drake, per 20 anni avevano scorrazzato sui sette mari a caccia di navi spagnole cariche di tesori, formando la prima generazione di comandanti professionisti, non soldati di terra prestati alle flotte.
La vittoria non comportò un automatico predominio navale inglese: sotto gli Stuart, nella prima metà del XVII secolo, i fondi per armare velieri scarseggiavano. A creare un proprio impero marittimo furono in quei decenni, i vicini ed ex alleati olandesi.
Dopo aver tagliato la testa a re Carlo I, il dittatore puritano Oliver Cromwell si trovò per le mani la grana della rivalità marittima tra Inghilterra e Olanda, sino ad allora combattuta a colpi di trattati. L’olandese Grozio (Huig de Groot), padre del moderno diritto internazionale, introdusse un concetto dal nome eloquente, Mare liberum: nessuno Stato poteva impedire la libera circolazione marittima ad altre nazioni, con l’unico limite del reciproco rispetto delle libertà altrui. L’inglese John Selden controbatté con il principio di Mare clausum (“chiuso”): ogni nazione poteva appropriarsi della zona di mare davanti alle proprie coste. Cromwell sposò le idee di Selden varando un imponente programma di riarmo navale.

Foreste galleggianti
La scelta di Cromwell provocò la reazione olandese e lo scoppio della prima di tre guerre combattute tra le due potenze. Questi conflitti furono contrassegnati da un gran numero di battaglie navali. E se nel 1654 a prevalere fu Londra, nel 1667 e nel 1674 furono gli olandesi guidati dal loro più grande ammiraglio, de Ruyter, a imporsi.
Nel 1690 anche la flotta francese batté quella inglese a Beachy Head, ma fu l’ultima umiliazione: nei 125 anni successivi sarebbero stati quasi sempre i vascelli di Sua Maestà britannica a prevalere su francesi, spagnoli, olandesi, danesi e russi.
Le guerre navali del 1650-1700 segnarono una svolta e non a caso il grande teorico americano Alfred T. Mahan (1840-1914) partì dallo studio di quelle battaglie per fissare i princìpi della strategia navale. Gli scontri del XVII secolo arrivarono a coinvolgere oltre 200 vascelli in una giornata di battaglia infernale e per queste foreste galleggianti che si fronteggiavano con migliaia di cannoni, gli ammiragli inglesi codificarono precise regole di ingaggio: le Fighting Instructions del 1653.
Per 150 anni queste norme rappresentarono una “vacca sacra” da non mettere mai in discussione: diversi ammiragli inglesi che le avevano ignorate, seppur vittoriosi finirono sotto processo. Uno, nel 1757, finì fucilato sul cassero della sua nave “pour encourager les autres”, come scrisse caustico Voltaire (a questo proposito il commento citato)
La flotta inglese fu articolata in squadre simboleggiate dai colori rosso, bianco, blu, coordinate tramite codici di segnalazione a bandiere. La formazione tattica si basava sulla linea di fila, cui era meglio attenersi senza fiatare.
Nel XVIII secolo le flotte contrapposte divennero più piccole – a Trafalgar nel 1805 si sarebbero fronteggiate in tutto 60 navi da battaglia di tre nazioni – ma il naviglio, possenti vascelli di linea e agili fregate destinate alla ricognizione ed a attaccare o difendere i convogli mercantili di un traffico commerciale in parte già globalizzato, divenne sempre più costoso.
Nel 1759 per realizzare l’ammiraglia di Nelson, il vascello da 104 cannoni Victory, oggi nave-museo a Portsmouth, furono tagliati 6mila alberi, tra abeti, olmi, pini e querce (il fatto che in Inghilterra non ci siano grandi foreste è anche “colpa” della Royal Navy). Oltre ai bulloni in ferro lunghi fino a 2 metri e 17 tonnellate di rame per proteggere la carena.

Arruolati a forza
La Francia, dopo la sconfitta nella Guerra dei sette anni, ammodernò la flotta con decine di vascelli, ottenendo grandi successi. Ma la spesa impoverì il Paese, contribuendo al malcontento che portò alla rivoluzione del 1789.
Per la Royal Navy, supportata da solide finanze che permettevano di armare 300 navi, il problema era invece mettere insieme gli equipaggi, che arrivavano a mille uomini.
Una paga regolare e il bottino in caso di vittoria, o anche solo tre pasti al giorno innaffiati da una generosa razione di grog (apprezzata mistura di acqua e rum), potevano tentare poveri ed emarginati. Ma la vita di bordo era durissima, diretta da ufficiali con un semidivino diritto di vita di morte, pronti ad usare il terribile gatto a nove code o l’impiccagione alla minima infrazione, e ogni domenica le funzioni religiose erano accompagnate dalla lettura dei temibili articoli di disciplina. Si capisce come non fossero molti i volontari.
La routine di bordo era scandita da pericoli e fatiche già in tempo di pace (immaginate di arrampicarvi su un albero alto 40 metri in piena tempesta per manovrare enormi vele sbattute dal vento), ma una battaglia poteva ridurre in pochi minuti in un mattatoio il ponte colpito da decine di proiettili. Senza contare la concorrenza delle compagnie mercantili, che offrivano buona paga, avventure galanti, o bordelli in ogni porto, e una disciplina lasca.
Per completare gli equipaggi agli ammiragli restavano – in assenza della leva – due vie: svuotare le prigioni inglesi dei peggiori farabutti, oppure ricorrere alle press gang, l’arruolamento forzato a base di bastonate e di cinture dei pantaloni tagliate per evitare la fuga di chi incappava in questi rapimenti legalizzati.
Solo dopo gli ammutinamenti del 1797 la situazione dei marinai migliorò. Merito anche delle vittorie che, come a Trafalgar il 21 ottobre 1805, volsero a favore di Londra la lunga sfida contro Napoleone e garantirono prestigio ai combattenti sui mari.
Nei vent’anni successivi, fino all’avvento delle navi a vapore, i vascelli garantirono ancora la Pax Britannica.

[Di Giuliano Da Frè, da Focus Storia n° 192]


Per saperne di più:
Storia delle battaglie sul mare di G. Da Frè, Odoya;
I grandi condottieri del mare di G. Da Frè, Newton Compton;
La guerra sul mare di J. Glete, il Mulino;
Ascesa e declino della potenza navale britannica di P. Kennedy, Garzanti.

Appendice (a cura della Redazione)
Patrick O’Brian, pseudonimo di Richard Patrick Russ (1914 – 2000), è stato uno scrittore, saggista e traduttore britannico. Deve la sua fama nel mondo alla saga storica ambientata durante le Guerre napoleoniche, incentrata sui personaggi del capitano della Royal Navy Jack Aubrey e del suo fraterno amico ed inseparabile compagno di viaggio Stephen Maturin, medico di bordo, naturalista, letterato nonché agente segreto.

Tre copertine di libri di Patrick O’Brien

1991. Caccia notturna (The Nutmeg of Consolation), trad. Paola Merla, Coll. La Gaja Scienza, Milano, Longanesi, 2004

1995. Doppia missione (The Commodore), trad. di Paola Merla, Collana La Gaja Scienza, Milano, Longanesi, 2007

1998. I cento giorni (The Hundred Days), trad. di Paola Merla, Collana La Gaja Scienza n., Milano, Longanesi, 2008

1984 – Ai confini del mare (The Far Side of the World ), trad. di Paola Merla, Collana La Gaja Scienza, Milano, Longanesi, 2001

Master & Commander – Sfida ai confini del mare (Master and Commander: The Far Side of the World) è un film del 2003 diretto da Peter Weir, tratto dalla Saga di Aubrey e Maturin, saga letteraria marinaresca d’ambientazione napoleonica di Patrick O’Brian, incentrata sulle avventure del capitano Jack Aubrey e del medico di bordo Stephen Maturin, interpretati rispettivamente da Russell Crowe e Paul Bettany.
Il film ha ricevuto dieci candidature ai Premi Oscar.

Clicca per commentare

È necessario effettuare il Login per commentare: Login

Leave a Reply

To Top