Defunti

Addio Peppe

di Pasquale Scarpati

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Ognuno percepisce ed esterna il dolore in modo diverso. C’è chi lo manifesta in modo evidente, chi lo trattiene e lo serba in sé come cosa più cara che penetra e rimane nell’intimo. Ambedue esprimono affetto e ricordo.
Affidare all’etere ciò che si sente nel proprio intimo sembra quasi contraddire in parte ciò che ho scritto prima. Ci ho riflettuto ed ho deciso che non posso non esternare ciò che sento ed ascolto dentro di me perché quando si è vissuto insieme per lunghissimo tempo, non possono non affiorare certi momenti.
Momenti di gioia e di spensieratezza, quando il viso di allarga al sorriso e alla risata, quando si alza il calice per brindare con un buon bicchiere, quando si raccontano barzellette, quando, insomma, si sta allegri e si chiacchiera e si chiacchiera…
Tra l’altro (sarebbe lungo elencare): il matrimonio con mia cugina Eva, la nascita di Silverio che, neonato, veniva cullato ed allattato a casa mia con mia madre e zia Sabettina indaffarate intorno al piccolino ed alla puerpera, il matrimonio di Silverio e Linda e l’accoglienza festosissima per Dora e Valentina, luce dei nonni a cui brillavano e brillano gli occhi solo a nominarle.
Momenti più seri quando si parlava di argomenti che richiedevano maggiore riflessione; momenti tristi quando il viso si allunga perché pezzi ci lasciano e si staccano da noi ma con la speranza di vederci lassù.
Questo era Peppe per me.
La sua voce sonora che mi/ci accoglieva: – Uhè, Pascali’, comme iamm!
– E tu comme stai?
Lui, sereno: – Tutto bene, ’ngraziamm’ a Dio.

Tutto bene! Un eufemismo da un po’ di tempo a questa parte. Mi sono sempre chiesto: – Ma chi gliela dà la forza!?
– Della sua – pensavo – ne vorrei avere un pochino anch’io.
Apparteneva a quella generazione “tosta”, che si era fatta le ossa fin dall’infanzia.
Su e giù: faticann’, ma volentieri.
La fatica: mai un peso anzi un dovere per lui per poter anche vedere la gioia negli altri che “apprezzavano” il suo indefesso lavoro.
Era uno di quelli che soleva dire: – Va’, divertiti, perché qua ci penso io.
Lo diceva e lo metteva in atto volentieri; per lui il lavoro non era sacrificio, non era gravame, era scioltezza, era il senso di una vita vissuta intensamente insieme ad Eva e attorniato dalle persone a cui trasferiva il suo bene ed era contraccambiato.
Faceva parte della sua quotidianità, del suo modo di essere, del suo sistema di vita poiché fin dall’infanzia la vita era stata dura.
Quando nella larga bocca del forno veniva gettata la legna spaccata a mano in precedenza e la farina, impastata, si “arrotava”, in un gioco di polsi, con ambo le mani durante le lunghe notti invernali passate in vigile attesa.
Le estive, quelle brevi, portavano la luce già alle 4 del mattino ed era subito tutto un tramestio per caricare il furgone, per spaziare dal Porto a Calacaparra e poi, come se non bastasse, avere a che fare con la terra.
Questa è la sua vita fatta di amore per il lavoro, per la famiglia, per gli affetti. Non vi può essere maggior bellezza di questa.
Una bellezza soprattutto interiore ma che nello stesso tempo non può essere trattenuta. Essa deve per forza estrinsecarsi, affacciarsi all’esterno coinvolgendo coloro che stanno vicino. Non ci vogliono parole (a volte esse sono superflue anzi stonano); basta, infatti, soltanto uno sguardo per capire… ed il viso, anche se madido di sudore, esprime consapevolezza.  Offre pace e serenità come il profumo del pane buono che, ancora caldo, si lascia accarezzare e docilmente si lascia spezzare con le mani ed assaporare con un leggero crepitio.
In lui io non ho mai visto il “male di vivere” o almeno lo ha saputo celare con grande forza d’animo.
Così sereno sta e così lo voglio ricordare.
Me mancarrai, Peppe, t’u dice Pascalìn’

 

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