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Robinson “triplete”. La città e la campagna (3)

Presentato da Tano Pirrone

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Per la prima parte (Michele Serra), leggi qui [1]
Per la seconda parte (Renzo Piano), leggi qui [2]

 

Dalla presentazione:

Su Robinson, supplemento a la Repubblica di sabato scorso 21 novembre è uscita una tripletta di articoli, uno più interessante dell’altro, sulla dicotomia città – campagna (ma ci sono anche le isole… dove le mettiamo?).
Eccoli:
– La natura ci salverà se noi la salveremo
di Michele Serra
– 
Una città invisibile chiamata Europa
di Renzo Piano
– Questo paese di santi, poeti e provinciali
di Aurelio Picca

[3]

Aurelio Picca, il provinciale
di Tano Pirrone

Se qualche volta avevo prima di allora incontrato il suo nome, avevo sorvolato, con colpevole ma comprensibile superficialità, iscrivendolo alla lista degli ACI, gli Autori di Copie Invendute, cioè quelli che se fanno cinquecento copie, hanno fatto il loro dovere e la direzione marketing dell’editore è soddisfatta.

Poi, in uno degli appuntamenti immancabili che nei giorni della settimana dal lunedì al venerdì ho con l’insuperabile rubrica di RaiTre “Quante storie”, varata da Corrado Augias ed ora gestita con bravura da Giorgio Zanchini, trovo di turno il Nostro, intervistato a proposito della sua ultima fatica letteraria “Il più grande criminale di Roma è stato amico mio”. Ho seguito attentamente, registrando (non si sa mai) la trasmissione, e dopo aver letto parte del suo libro (indispensabile zapping di carotaggio) e qualcosa d’altro dei suoi scritti (soprattutto le sue poesie, ché Aurelio Picca nasce poeta, se non vi dispiace e la cosa non vi allarma eccessivamente) ho stabilito che sì, l’incongruenza fra il Picca che di presenza parla, presenta e difende, precisa con puntiglio, e il Picca che scrive, racconta in prosa e versi, sembra esserci una divaricazione: lui è paesano, scrittore di provincia, velletrano (!), e parla e gestisce da popolano, da tiziocheconosci, è grezzo, animato, rapido, pronto alla battuta ed ancor più alla risposta, esuberante, polemico.

Invece la sua scrittura è fluida, liquida, conquista gli anfratti, s’imbuca, sparisce, riaffiora, passa fra gli ostacoli, li supera, li leviga, conquista spazi, li bagna, scompare, riappare. Fascinazione di una scrittura in movimento, godibile, espressiva, continuamente scomposta e ricomposta, attraverso le tante e colte letture che ne fanno esperto conoscitore della letteratura italiana, dai tempi del romanzo con l’Obelisco manzoniano, eretto e stabile, giù giù per il residuo ottocento ed il secol breve fino ai perigliosi giorni nostri, che sono anche il vivo dei suoi giorni.
La sua lingua è conforme al suo animo di osservatore, ma mai dall’alto o comunque dall’esterno: è sua, ma si sente sporca dallo stare in mezzo, dal partecipare come uomo ancor prima che come autore, di chiarissimo, ineluttabile successo.

Il suo articolo su Robinson del 21 novembre è un’ineludibile occasione per leggerlo e per leggere (o rileggere) gli autori citati, non tutti da bestseller o di recentissima attualità, ma grandiosi per quello che raccontano e per come lo raccontano. Non posso dilungarmi oltre, ma vi prego prendete a caso uno dei “provinciali” (compreso Picca) e fra i suoi libri sceglietene uno, a caso, leggetelo e parliamone.

[4]

Questo paese di santi, poeti e provinciali
di Aurelio Picca

– In Italia c’è un solo scrittore metropolitano: Manzoni. Gli altri? Il loro segreto è la campagna
– Guido Cavani si perde in terra di Garfagnana. E Silvio D’Arzo con le sue ombre, il suo animismo, le streghe? Viaggio in Italia di Guido Piovene bisognerebbe averlo in tasca al posto del navigatore.
– E Paolo Volponi che, come tornava nella Urbino del Duca, subito voleva ripartire per la Milano di Olivetti. E Giuseppe Berto?
“Il cielo è rosso” sarà un libro per il venturo neorealismo che l’Italia dovrà affrontare

Semmai Milano dovesse crollare, il Famedio di Alessandro Manzoni resterebbe immobile, erto, come se invece delle sue spoglie non solo contenesse l’energia dell’unica Città-Metropoli italiana, ma l’invenzione della Lingua Italiana (dopo Dante), del romanzo composto con decine di cambi di registro, di personaggi scolpiti nelle interiora e nei profili del Bene e del Male. Manzoni, per scendere nella banalità, terrebbe testa a una esplosione atomica, figuriamoci se non sappia reggere questo psicopatico di Covid.

È da tempi insospettabili che mi aggiro in viaggi che chiamo cimiteriali o da deriva psico-geografica. Da quando avevo vent’anni.
A caso scoprivo borghi, cittadelle, città. In una parola: la Provincia. La famosa provincia italiana. E oggi che le città sono sotto attacco, sociologi, paesaggisti, commentatori, riscoprono come luoghi esotici ciò che è stato il Dna culturale, letterario, artistico dell’Italia.

Ai ciechi serviva il Covid per capire che la concentrazione urbana era già da un pezzo infognata nella saturazione e ripetizione delle idee. Avviata a una ultra e virtuale modernità. Ho citato Manzoni per dire che è uno dei pochissimi scrittori che viene da una Città e non provincia. Infatti, se appena scaliamo di un secolo e riacciuffiamo il Novecento ci rendiamo conto che una moltitudine di narratori e romanzieri proviene dalla sterminata provincia dove ora vorremmo tornare a vivere. Come se la grande letteratura dimenticata, clandestina, sepolta alla svelta, ci chiamasse.

Anche Italio Svevo era in luogo appartato, tutto a Est, si dice di cultura mitteleuropea, pur nella importantissima “dama cicatrizzata” di Trieste. Nei suoi tre romanzi (Una vita; La coscienza di Zeno e l’inarrivabile Senilità), il capo d’industria Ettore Smith, fu anonimo fino a quando Eugenio Montale si dedicò a lui. Eppure Svevo costruisce una lingua muscolare e psicologicamente inedita da essere usata come enciclopedica chiosa alla lingua prima di Manzoni. Ma se si annovera Svevo tra gli scrittori da Capitale di Stato o Regno, Guido Cavani (narratore da un solo romanzo), si perde sul Passo san Pellegrino in Alpe, nel remotissimo santuario di Pellegrino e Bianco in terra di Garfagnana che plana a Modena, città dello scrittore. È in queste contrade selvagge e di marmo di Carrara che si nasconde come una serpe Zebio Còtal ( titolo del romanzo e protagonista). Una bestiaccia che attraversa l’inferno della natura e della vita.
E Silvio D’Arzo con le sue ombre, il suo animismo, le streghe? Viaggio in Italia di Guido Piovene bisognerebbe averlo in tasca al posto del navigatore. Barocco, lusso e dettagli tracciano la rotta. Un viaggio in Italia di Ceronetti, al cospetto fa la parte di un burattino del suo teatro ambulante. Guido Piovene ci indica come in una beffa le strade di Urbino: a destra, salendo verso piazza Rinascimento, c’è Via volta della morte; a sinistra: Via Balcone della vita.

Per restare a Urbino ecco Paolo Volponi che, come arrivava nella città del Duca, subito voleva ripartire per la Milano di Olivetti. Moravia disse che Memoriale e La macchina mondiale non era riuscito mai a finirli di leggere. Epperò nel Lanciatore di giavellotto c’è l’immensa inquietudine della Urbino stretta dalle Cesane, col cielo nero, con il sangue magico di Federico da Montefeltro.
E Giuseppe Berto?, per tornare in Veneto dove è di casa pure Andrea Zanzotto con la sua giostra nevrastenica e molecolare; da concentrato e esplosione psichica. Il cielo è rosso sarà un libro per il venturo neorealismo che l’Italia dovrà affrontare. Va letto nelle scuole che verranno. Parla di bambini costretti dalle bombe e dalle macerie a vivere come topi. A reinventarsi famiglia e comunità disperse. Una lotta umana in piena regola.

Di Luciano Bianciardi voglio raccontare un solo aneddoto, altrimenti piango. Evaldo Violo, ex direttore editoriale della Bur, ricordava che in una riunione culturale che vedeva seduti accanto Feltrinelli, Bianciardi e Oreste Del Buono, Giangiacomo attaccò una filippica ” rivoluzionaria”. A tempo scaduto, Bianciardi si alzò verso la porta per andarsene. Prima di aprire cercò il suo cappottaccio unto e sforacchiato. Non lo prese. Indossò il cammello mozzafiato dell’editore e se ne andò. Nessuno batté ciglio.

Mario Tobino con L’angelo del Liponard è degno di un racconto di Conrad; non è inferiore a Maupassant, a Verga. Plasma in una sintassi che gioca a inventarsi virgole e punti e virgola, una storia marinara di sensualità cocente, di sopraffazione e seduzione, di impotenza e arroganza. Appunto un angelo caduto in un mare divorante. Fenoglio! È facile dire: Una questione privata se non si sgombra il campo dalla fuga nella ambiguità dell’italiano anestetizzato per essere ” globale” di Italo Calvino.

Anna Maria Ortese è nata a Napoli. Ha scritto: Il mare non bagna Napoli per poi sparire dentro i suoi occhiali dalle lenti scure e i copricapo a forma di conchiglia. Una murata viva, una fuggiasca. Fino a Rapallo… Nel libro d’esordio già dice con lucida spietatezza quanto disprezzi il mondo e il conformismo letterario ( siamo nel 1953). Dipinge ritratti memorabili dei suoi amici di Sud, la rivista dei giovani letterati napoletani: La Capria, Patroni Griffi, Domenico Rea, Luigi Compagnone. Proprio La Capria con indosso pullover dai colori sgargianti. Ma è don Mimì Rea, nato a Napoli e poi dai tre anni ai ventotto a Nocera Inferiore, paese Vesuviano che chiamerà in ogni suo scritto Nofi, a emergere lungamente in un ritratto surreale ma di umanità spessa e irriproducibile come le opere che salutano con un Addio. Rea ha scritto racconti che mettono in crisi i Sillabari di Parise. Leggete: Gesù, fate luce. Il sulfureo, il plebeo Rea che sforna in Una vampata di rossore un italiano da oro zecchino. Sapeva a memoria Basile, il Decameron. Quando da ragazzo andavo a casa sua a viale Petrarca, non mi regalava libri bensì cravatte. Anzi, sfilava un cassetto del comò colmo e mi induceva a sceglierne una.

Quando conobbi Idolina Landolfi, primogenita di quell’uomo elegante che indossava il cappello come pochi, al secolo Tommaso Landolfi nato a Pico Farnese, sepolto in tomba a forma di piramide, avevo già letto Racconto d’autunno, Rien va e anche Le due zittelle, storia di una scimmia trafitta con un pungiglione… La conobbi dopo che ero stato a conoscerne tre di zitelle dai capelli bianchi e purissimi, sempre a Pico, parenti non ricordo di che grado con Tommaso. Andai a trovare Idolina che era sera. Fui costretto a schiacciare con le gomme dell’auto qualche rospo dei centinaia che ricoprivano la strada della tenuta Guicciardini dove lei viveva sperduta. Con Idolina ero d’accordo che l’indomani saremmo andati insieme a Milano. Dormii da lei. Al mattino mi disse che aveva passato la notte con il fucile carico.

Immagine di copertina – Sole d’autunno Ottobre (1903) è il titolo del dipinto dell’ungherese Károly Ferenczy (1862-1917) tra i fondatori della colonia artistica Nagybánya attiva a cavallo tra Otto e Novecento

[Robinson “triplete”. La città e la campagna (3) – Fine]