- Ponza Racconta - https://www.ponzaracconta.it -

Chi sa scrivere dei bambini. Enzo e il raccontino dell’Andrea Doria

proposto da Sandro Russo
[1]

 .

Che tutti siamo stati bambini e che tutti ce ne dimentichiamo sono due luoghi comuni tanto diffusi che non metterebbe neanche conto parlarne, se non fosse per l’entità e i modi della dimenticanza.
Perché poi l’incanto di quell’età dorata – non sempre: mi viene in mente una raccolta di racconti di Michele Mari (leggi qui [2] e qui): “Tu, sanguinosa infanzia” (2009) – in parte si riscopre. Ad una certa età molti provano a richiamare e a rivivere quelle sensazioni (la frase fatta è: “sto recuperando il bambino che è in me”); infine perché molti si cimentano anche a mettere per iscritto, in varia forma, i propri ricordi d’infanzia.

[3]

Enzo è uno che ci riesce bene.
Dai suoi racconti viene fuori bene il bravo bambino che era, rispettoso e assennato – ricordo ancora La cortesia del pane [4] -, che ha assorbito le parole e soprattutto l’esempio di mamma e papà… Ricordiamo che solo una cosa ha respinto… quando Tatonno gli ha messo in mano un fucile e gli ha detto: Spara! Lì ha disobbedito… Non è mai diventato un cacciatore!

L’ultimo suo raccontino La poltrona letto e la nave dei sogni è tenero e documentato, sulle case e i luoghi dove ha abitato, come pure sulla vicenda dell’Andrea Doria, e ha la sua originalità nel fatto che, una volta tanto, viene raccontato un mondo in cui gli adulti ‘eccezionalmente’ riescono a fare a un bambino proprio il regalo che più di ogni altro egli desidera.
Nella maggior parte delle storie di bambini, gli adulti con i regali “non ci azzeccano” proprio.

Proprio a questo proposito voglio riportare quattro paginette del romanzo della “nostra” Annalisa Gaudenzi, Mandria notarile (recensito qui [5]). Lo snodo in cui, nelle bozza di lettura che lei mi ha mandato prima della pubblicazione, sono stato “tirato dentro” nel racconto e ho cominciato a leggere con rinnovato interesse.

[6]

È un punto abbastanza iniziale (le pagine da 24 a 27). Nelle pagine precedenti abbiamo fatto la conoscenza con una avvenente notaia dai capelli rossi Sucre (Zucchero) che va a riscattare delle mucche al mattatoio comunale. Ci viene raccontato qualcosa della vita dei suoi genitori e poi riviviamo un momento la sua vita di bambina, quando all’età di cinque anni la madre improvvisamente scompare (forse si perde in India) e lei rimane da sola, nella grande villa Amigdala nella campagna marchigiana insieme a un padre affettuosissimo, Giulio, che fa quanto può per renderle la mancanza meno dura. Solo che, forse per il troppo amore per la bambina, qualche volta sbaglia la mira. Per quanto… non è detto!
Ma leggiamo…

Il padre — per chetare quei suoi gemiti tanto pietosi che sente a volte anche di notte, in mezzo a tanta campagna solitaria — si lambicca il cervello, e finalmente un primo pomeriggio dell’estate, sempre del 1984, fuori dal cancello di Villa Amigdala, convoca un trattore: un veicolo cingolato arancione, Fiat 25 C, con un carrello rivestito da due coperte malconce, legate più che cucite.
Sucre è immersa tra i suoi giochi in soffitta, un ambiente quasi vuoto, lasciato a grezzo coi mattoni a vista. Regno di ragni dalle zampe a filo che iniziano a roteare all’impazzata se vengono sfiorati, e difatti la bimba sta molto attenta a non disturbarli, un po’ per rispetto, un po’ per schifo. Insomma sta là, col cono da fatina appoggiato su una poltroncina in vimini, ormai tutto sbrindellato, e lei a terra a escogitare favole per le sue Barbie. Un rumore di cingoli sul brecciolino dello stradone la richiama verso le finestre e quell’argavagnu laggiù, vicino al cancello, corredato da quel gran gabbione impacchettato a casaccio (ma a celare chissà cosa…), non può non colpirla, nel poggio agreste dove vive.
Pure le cicale sembrano azzittite. Solo il Sole irremovibile continua a picchiare coi suoi raggi appuntiti. A tutta velocità e senza alcuna cura Sucre butta le bambole nel disordine di un cestone e dalla soffitta si fionda al piano terra. Non osa procedere perché teme un clamoroso liscio busso del padre: mai e poi mai, se ci sono sconosciuti, po’ gì furastica, può andargli accanto. Deve, al contrario, correre in casa e aspettare che lui rientri. Perciò, seminascosta dal portone del garage, resta a fissare il padre vicino al cancello. Intanto Giulio è concitato col guidatore: la conclusione dell’affare è prossima. Il trattorista, con un cappello di paglia aggraziato da una penna di fagiano, dall’alto del trabiccolo sta orientato verso l’interlocutore in basso. Indossa una camicia azzurrina, pulita e stirata, a maniche lunghe, più adatta forse a un appuntamento in banca. L’eleganza tuttavia là si esaurisce, perché sotto l’uomo veste dei pantaloncini beige, che lasciano sbucare due gambotte pelose e goffe.
Il celeste impressiona Sucre, che lo ritiene il colore dei Maghi, ma avendo sul copricapo quella lunga piuma cangiante (sicuramente di pavone!) può essere pure uno Stregone… E chissà cosa tiene nascosto dentro quella Cassa Incantata!?
Oppure… Chi? Non ci sono minuti per illudersi, ma attimi, perché subito il Mago-stregone manovra le leve di un verricello e il retro si apre. Evviva! La bambina esulta tra sé e, presa dall’euforia, decide che è tempo di scapicollarsi per scoprire il mistero. Perciò quatta quatta, sfruttando la copertura offerta dal cordolo della siepe, raggiunge silenziosa i due uomini. «Lu fiènu, sci, e l’aqua pure’rcordate. Nu la mannà ju pe’ le jeppe, che se ’nfrociano e dopu? Chi te l’arporta su?»
Si diverte il Mago-stregone a dare indicazioni a Giulio, che mostra viva partecipazione, ponendo quesiti e riflessioni. Terminata la spicciola formazione teorica, il padre la chiama a gran voce. Eccola sbucare all’istante, senza la minima tattica. Giulio sta per rimproverarla, ma lei lo neutralizza prendendogli la mano. E stringendogliela forte. Mantiene però lo sguardo ipnotizzato sul carrello. Qualcosa deve apparire, no? O addirittura… qualcuno! Il trattorista intanto è sceso, s’è infilato dentro il box, ha maneggiato ganci e corde e un rumore di passi stridenti sulla rampa avvisa che quell’enigma sta scendendo: cosa sarà mai? Presto svelato: a raschiare sul ferro sono gli unghioni cheratinosi di una vacca bianca, di razza Marchigiana, ipertrofica, colossale, che cala con grande lemma e senza tanti complimenti. E Sucre? Un salto indietro dallo spavento, un’altra occhiata fugace e dopo via! Un fulmine, via via, tutto d’un fiato, su, fino in soffitta! «No! Una mucca? Una mucca nooo! Ma io che ci faccio? Ma io speravo, ma io volevo… la mamma!» a piagnucolare fino a sera, barricata con tutti i cesti dei giochi a sprangare l’accesso.

All’ora di cena Giulio sale da lei e sgombra senza difficoltà l’esile barriera difensiva. Con estrema calma (qualità che in genere non lo contraddistingue) s’avvicina alla poltroncina in vimini dove Sucre sta buttata tutta rossa, volto e capelli, arruffata e mocciolosa. Non le dice nulla. Solo le accarezza il capo a lungo e poi sempre taciturno scende in cucina. Non che non sia capace di parlarle, ma in quelle faccende così delicate a lui manca, evidentemente, il tocco materno. poi comunque è smarrito e pure pentito. Credeva di farle una grande sorpresa, un dono speciale, a lei che piacciono tantissimo gli animali, che ne riporta di più assurdi e strani a casa (mentre un po’ paura dei cani ce l’ha, purtroppo, trasmessale dalla madre). E invece? Un bel guaio. E che ci fa, adesso, con quella vestiò? La bestiona, intanto, senza complicarsi la vita, s’è avvantaggiata sulla cena e quel po’ di erba nei dintorni se l’è fatta bastare. Giulio non che abbia mai fatto il mandriano, ma qualcosa di elementare sa. Così ritorna in giardino e, dopo averla rintracciata, la prende per la cavezza, conducendola sotto al patio. Un vecchio materasso a terra e una vasca rosa piena d’acqua (dove Sucre faceva il bagnetto da neonata) e per stanotte s’arrangi così. Nessun timore che fugga? No: tutto recintato il parco intorno all’Amigdala e poi le vacche non hanno velleità esotiche. Nel frattempo in soffitta, bella impiastricciata di moccio, Sucre si è finalmente calmata. Pure frignare costa fatica e poi muore dalla sete, una vera arsura! La calura la soffoca, sebbene sia arrivata la sera a stemperare l’afa. E la fame? Che fame! Ha saltato la merenda e non ha neanche mezzo cracker di riserva là sopra, che papà non vuole, perché richiamano le pentigà, i topi.
Ma chissà che sta facendo… (tirata di naso) lei, sì, la Mucca. Affamata di cibo e curiosità, Sucre sbircia nell’area sottostante. Niente! E poi ormai è quasi buio. E va bene: occorre farsi coraggio e scendere. Shhh! Silenzio! Deve arrivare al primo piano e passare accanto alla cucina, senza farsi accorgere, che papà sta spadellando ai fornelli (che pizza, i soliti spaghetti col parmigiano!) e scivolare lesta di sotto.
Papà l’avrà messa in garage? No, in garage non c’è. Allora? Qui le cose si complicano. Potrebbe stare solo nei poderi. Ma sono molto estesi, come fare per scovarla? E poi ancora pochi minuti e papà sale in soffitta. Qua bisogna fare un blitz fuori, dai dai! Ops!
Un capitombolo da circo e si ritrova a faccia in giù. Dove ha inciampato?
Si volta: è incappata in un bloccone duro, di oltre un metro per quasi due. Oddio: è Lei! Come raggiunta da un ordine (prendono calci in genere per questo) la vacca si premura di alzarsi dal materasso. Quelle corna, quel corpaccione immenso, oh no! Mi schiaccia! Ora si vendica, aiuto!, pensa Sucre. Invece la bovina non si muove. Sta ritta sulle quattro zampe e l’osserva, coi suoi occhi marroni, così scuri e pieni che solo il cioccolato può tanta dolcezza. Poi storce il muso. E l’annusa. L’annusa? Eh sì, perché le narici sono dilatate. I due musi sono vicini. Sucre respira quell’onda calda e colma d’odori salmastri, speziati, socchiudendo le palpebre. Che profumo buonissimo… E può vedere quanto è bella questa capocciona dai capelli rasati e pettinati tutti in ordine. Mmmh, le viene una gran voglia: «E io… t’accarezzo!», ma la sfiora solo, la lambisce. Gli sguardi s’incontrano. Gli occhi sono gli uni dentro gli altri. Dura quanto? Dura tanto. Fino a che quell’immensa bambagia fa la mossa di riadagiarsi pacifica, con massiccio aplomb, sul suo giaciglio.
“Batuffola” la chiameranno, a conferma del fatto che si può essere soavi anche pesando 700 chili. Sucre si appressa soffice come una lumachina e senza più alcun timore si accuccia nel suo grembo. Appoggia la testa sulla corta pelliccia e sente subito tanto calore. «Mamma, tu sei come una mamma…». E con questa certezza s’addormenta.

***

Appendice del 30 luglio 2021 (cfr. Commento di Sandro Russo)

[7]

Recensione di C. De Gregorio. I bambini della luna. Di Giovanni Maria Bellu [8]

Immagine dell’articolo (da la Repubblica). “La bicicletta rossa”, installazione a Torino dell’artista greco Eleni Kolliopulu