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La storia raccontata dai film (19). L’isola simbolo di tutte le guerre (seconda parte)

di Sandro Russo e Gianni Sarro
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Per la prima parte, leggi qui [2]

Credo che in questa non programmata alternanza tra me e Gianni Sarro sui due film sulla battaglia di Iwo Jima, di Clint Eastwood, la preferenza (non dichiarata finora) del “maestro” vada a “Flags…”, mentre io sono stato irresistibilmente attratto da “Letters…”
Continuiamo quindi il confronto, con l’analisi dei film, analizzando, più che la trama, i messaggi profondi che essi trasmettono…
S. R.

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Sandro Russo – Trovo che Letters from Iwo Jima sia il più coinvolgente dei due, e non so quanto c’entri l’isola che è lo sfondo costante della resistenza senza speranza dei combattenti giapponesi contro le preponderanti forze americane.
Ma il progetto di fare due film da opposti punti di vista c’era fin dall’inizio?
Gianni Sarro – Non proprio. Ha raccontato il regista che trovandosi sull’isola per le riprese del primo film (Flags of our fathers – ndr), in tutta l’isola – nelle fortificazioni e nei tunnel ancora visibili e in parte esplorabili – aleggiasse così forte la presenza dei tanti uomini che ci avevano vissuti e ci erano morti che è venuta l’idea di raccontare la storia anche dal loro punto di vista

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S. – Sì, un recupero della loro memoria. Infatti così comincia il film. Un ricercatore di un gruppo in tuta bianca che a sessant’anni dai fatti sta esplorando uno dei tunnel, scopre qualcosa che era stato malamente sotterrato; prova a scavare un po’ con un bastone e poi con le mani ed affiora una sacca militare che ad un esame sommario si rivela essere pieno di lettere: alcune ricevute, altre mai spedite.
G. – Sono (in gran parte) le lettere del comandante giapponese riprese dal romanzo Picture Letters from Commander in Chief di Tadamichi Kuribayashi, raccolte e pubblicate in Giappone nel 2002 (Clint Eastwood ha aggiunto l’introduzione all’edizione americana del 2007). Comunque il lavoro di Eastwood è notevole per diversi aspetti. E’ stato il primo regista a trattare lo stesso evento da prospettive opposte, in due film distinti e temporalmente sovrapposti; inoltre è stato il primo regista occidentale, a girare un film interamente in lingua giapponese, con attori locali, tutti pressoché sconosciuti a parte il personaggio del comandante Kuribayashi (Ken Watanabe). Un evento più che originale, unico, nella storia del cinema.

L’isola dall’alto (ricognizione aerea d’epoca)

La spiaggia dall’alto, in una scena del film (la didascalia dice: ora sa come batterli)

S. – Viene descritto nel film l’arrivo sull’isola di Kuribayashi, circa un anno prima della battaglia cruciale, il suo nuovo piano strategico: abbandonare la fortificazione della spiaggia per concentrarsi sul contrattacco successivo, una volta che gli americani fossero sbarcati in massa; scavare fortificazioni e tunnel per mettere in comunicazione le diverse parti dell’isola e di lì attaccare da ogni parte il nemico.
G. – Sì, e contemporaneamente il film ci presenta l’alter ego del coriaceo generale nella persona del soldato semplice Saigo, il fornaio che ha lasciato in patria la moglie incinta e che vorrebbe salvare la pelle. Ma l’isola è una trappola e le parole del comandante in capo sono state chiare e definitive: Non pensiate di uscire vivi da qui! Doveva aggiungere anche dopo infinite sofferenze, perché nel film vediamo i soldati soffrire la dissenteria, il caldo e la fatica, la fame e la sete.

[4]La collina 362-A vista dall’alto e da nord- le linee tratteggiate indicano il sistema sotterraneo di tunnel

L’arrivo delle navi americane (una scena del film)

S. – Un anno attendono i giapponesi l’arrivo degli americani e quando l’imponente flotta si staglia all’orizzonte, sanno che il momento è arrivato: vengono a portar loro la morte.
G. – Sì, sull’isola il pensiero – e forse l’unico momento di riposo della mente per i combattenti (dal comandante al soldato e da entrambe le parti, anche per gli americani nei lunghi giorni del sanguinoso assedio) – è scrivere lettere ai familiari, che forse non saranno mai recapitate.

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S. – La foto qui sopra, anch’essa presa dal vero sull’isola nel febbraio ’45 (una lunga sequenza di foto chiude il primo film e su di esse scorrono i titoli di coda) è stata commentata a lezione, e ben si lega al tema di Flags… Quello dell’importanza della fotografia.
Perché la foto è un momento. Congela un istante nel corso del tempo. In questa, scattata ai militari che mettono su una rudimentale cassetta postale per inviare le lettere a casa, non si sa se la A di IWO JIM sarà mai aggiunta.
G. – Questo ci riporta alla famosa immagine intorno alla quale si muove tutto il primo film. Faceva parte di una sequenza di foto fatte sulla cima del monte Suribachi, prima e dopo l’innalzamento della bandiera… Di quella scena fu anche girato un breve video, ma solo quella foto rimase a immortalare il mito della vittoria (che come abbiamo già detto, nel momento in cui fu scattata la foto era più una speranza che una realtà).

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[7]L’arrivo alla spiaggia dei mezzi americani, al binocolo del comandante Kuribayashi e (sotto) lo sbarco – Due scene del film

S. – Infatti, a lezione è stato anche puntualizzato come un’immagine, che è quanto di più casuale, aleatorio e fugace si possa immaginare, diventa il focus su cui si costituisce il mito, al contrario definitivo ed eterno.
G. – È vero. Quando scattiamo una foto, noi cristallizziamo un momento. Congeliamo quell’attimo specifico. Tutto quello che è avvenuto prima e dopo appartiene al racconto orale. Il mito, di cui giustamente parli, nasce grazie alla narrazione orale. Lo scatto da solo non racconta niente.

S. Questi aspetti però – come nasce una foto ‘iconica’, come si genera un mito, anche il loro uso ‘propagandistico’ per raccogliere fondi per finanziare la guerra in corso – sono più focalizzati in Flags, il film girato temporalmente per primo (e costato molto di più: 55 milioni di dollari, contro i 15 del secondo).
G. – Certo. All’inizio di questa bella chiacchierata, accennavi alla mia predilezione per Flags of Our Fathers, tuttavia considero eccezionale anche il secondo capitolo. Con Lettere da Iwo-Jimo, ipotetico controcampo di Flags, Eastwood crea un allineamento di noi spettatori al punto di vista dei soldati giapponesi. Scatta un meccanismo di identificazione, di simpatia che non ci porta più a connotare i soldati giapponesi come nemici – in particolare quel meraviglioso personaggio che è Saigo (il cui fine ultimo non è essere un eroe, bensì quello di sopravvivere alla mattanza e tornare a casa a conoscere la figlia, nata mentre lui combatte -, ma semplicemente come uomini al pari dei soldati americani. Alla fine del film non pensiamo più a “noi” e a “loro”, ma come a un insieme di uomini che per circostanza straordinarie si trovano a combattersi.

S. – La chiusa del film dopo tanta tragedia – Letters from Iwo Jima, intendo -, è poetica e, se possibile, consolatoria. Allude al potere lenitivo sul dolore del riconoscimento e della memoria del sacrificio.
Sono le centinaia di lettere che cadono dalla sacca sepolta per sessant’anni e spandono le parole che in esse erano rimaste come raggelate, sulla terra che tanto sangue ha dovuto assorbire.

[8]Il gruppo scultoreo del cimitero di Arlington: “Raising the Flag on Iwo Jima”. Il Marine Corps War Memorial (anche detto Iwo Jima Memorial), è il monumento situato fuori le mura del cimitero nazionale, nella contea di Arlington, Virginia. È dedicato a tutti i marines morti per la difesa degli USA dal 1775 in poi.

[9]A confronto con la retorica della morte gloriosa del sacrario di Arlington, la nuda realtà del cimitero americano di Iwo Jima, dietro cui incombe sinistra la sagoma del monte Suribachi. A differenza dei caduti americani, la maggior parte dei caduti giapponesi non si sono neanche potuti ritrovare e seppellire.

[10]Quasi automatica l’associazione con questi versi del nostro Giuseppe Ungaretti, che si riferiva all’altra terribile guerra, quella del ’15-’18. Ogni guerra è terribile, ma alcune sono più terribili di altre

Epilogo
Nel 1994 l’imperatore Akihito, che con l’ascesa al trono ha dato inizio all’epoca Heisei, del Raggiungimento della pace, visitò l’isola di Iwō Jima rendendo omaggio ai caduti. Lasciò una breve poesia, nella quale è impossibile non scorgere un omaggio all’ultimo messaggio di Kuribayashi (*), che fu allora censurato ma anche in seguito non venne mai ufficialmente divulgato:
Gli uomini che combatterono col cuore e con l’anima
Ancora dormono nel sottosuolo
Di questa triste isola.

(*) – Nella versione ufficiale il jisei (**) del comandante Kuribayashi riporta:
Frecce e pallottole esaurite, mortificati siamo caduti.
(**) – Jisei si chiama in giapponese l’ultima poesia, quella composta quando il mondo attorno comincia, silenziosamente, ad allontanarsi e si resta soli con se stessi di fronte al passo più difficile. Ha una lunga tradizione nella cultura giapponese.

Memoriale giapponese a Iwo Jima (foto presa nel 60° anniversario della battaglia, nel 2005)

Il trailer ufficiale del film:

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