di Francesco De Luca
Entro nel Cimitero alle 10 di mattina. La temperatura è gradevole, senza vento. Anche gli anziani possono uscire. Il mare ci avvolge di azzurro. Tutta la collinetta della Madonna è circondata dal colore del mare.
Avveduti i Romani ad innalzare la Villa augustea su questo piccolo promontorio che sovrasta l’ingresso nell’isola.
Accorti gli Amministratori che decisero che qui si consumasse il sonno eterno dei Ponzesi.
Entro e vengo circondato da visi amici che occhieggiano dai marmi. Noto che oggi quasi tutti i loculi hanno la foto a colori.
Sono volti che ammiccano un sorriso. Abbozzato, frenato. Vi si legge un latente dispiacere. Che mi agita. Sono tentato di tornare indietro. E invece è sibillino l’invito che mi mandano: “vieni… vieni a stare un po’ con noi …” mi pare di sentire.
Piombo in uno stato di leggera narcosi. Le persone mi passano accanto. Hanno fiori, lumini. Tanti anziani. Pochi bambini.
Eppure noi, da piccoli, fra le cappelle giocavamo a nascondino, mentre sui loculi interrati prendevamo la cera dei lumini, per farci i martellucce ( piccoli martelli ). E quella volta fui sgridato da una signora perché in quel luogo è proibito giocare. Quella donna mi minacciò ed io fuggii. Ma più aspro fu il rimprovero di papà. La sera, tornato a casa, mio padre mi riprese: “ I morti vanno rispettati… anche se non sono presenti….”.
Come… non presenti… ma lo erano stati la notte del 1° novembre, a casa mia. Avevano lasciato infatti i doni nelle scarpe. Erano venuti col buio ed erano evidenti i segni della loro visita. C’era anche un biglietto. Nonno Aniello me lo aveva lasciato. Non l’ho mai conosciuto, nonno Aniello… eppure lui si preoccupava per me e mi invitata ad essere buono… ubbidisci a mamma e papà – aveva scritto.
Nel Cimitero cerco con gli occhi il pozzo. Come cantava… una volta… quel catino. Oggi è muto. L’acqua è stata portata in ogni dove dalla rete idrica, e le donne… una volta… lì rinnovavano l’acqua nei vasi coi fiori.
Mi intrufolo nelle cappelle per riconoscere, attraverso le immagini delle preci, le persone… e ricordo quella donna. Seduta sullo sgabello mi disse: tu n’è canusciuto a figlieme. E’ muorto quanno è gghiuto a ffà ‘u surdato. Teneva vint’uno anne. Con lo sguardo mi indicò il bel viso del giovane. La foto stava sul piccolo altarino, e lei se lo coccolava con la presenza, e ad ognuno ripeteva la storia.
Scendo e rivado, come un sonnambulo, alla cappella dove mio padre ambiva essere sepolto. E’ la cappella De Luca, che sfida il vento e guarda con sussiego il mare frangersi sullo Scoglio Rosso.
Ci rivado per cosa? I miei genitori sono tumulati altrove e su quella punta non c’è nessuno ad accogliermi se non il venticello di levante che pure una voce ce l’ha. E’ quella della vita che corre su questo piccolo lembo di terra. Dove abbiamo corso e sudato, ci siamo fermati e corroborato, con un moto nel petto: quello di amare.
Scendo nel soccorpo… sulla lapide l’immagine di mio fratello Antonio non è serena, vi colgo un disappunto. Ha lasciato la vita e non voleva… non voleva… perché è troppo bella per farne a meno…
E poi c’è Nino, e Silverio, e, nel Cappellone, le donne, quelle che mi hanno carezzato, quelle di cui ho ammirato l’ignoranza scolastica e la saggezza domestica, quelle che hanno accompagnato i miei passi con occhi protettivi: Fra’ … scrive ind’ u core… sento ancora il monito di zia Veruccella, vestita sempre di nero.
Sono travolto da tanto amore, incespico, e decido di andar via.
Davanti alla chiesetta mi ferma un sobbalzo. Entro e vedo l’immagine di don Luigi Dies: colui che diede alla nostra giovinezza un senso.
I sentimenti mi squassano l’animo. Siedo sul banco e mi soffermo a pensare: dum veneris iudicare saeculum per ignem (mentre tu verrai a giudicare il mondo col fuoco); tremens factus sum ego ed timeo (tutto tremante io sono e atterrito) – cantava don Luigi, accompagnandosi con quell’armonium sgangherato (è ancora lì), ed io ascoltavo e depositavo nel cuore. Così, per gioco, come fanno i ragazzi. Perché sono ancora lontani, a quell’età, il dolore e il pianto, la morte e la perdita.
Oggi il gioco è finito.
Mi rinfranco: ho toccato con mano il brutto e ho assaporato il bello.
Che vita sia!
NdR: la foto di copertina è di Enzo Di Fazio







