Ambiente e Natura

Alla scoperta delle giungle urbane

segnalato dalla Redazione un articolo di Andrea Di Salvo da Il Manifesto

Da sempre interessati ai multiformi aspetti delle piante e del modo di raccontarle, ospitiamo sul sito la recensione di un classico del verde urbano, proposto da Andrea Di Salvo (1), Cultore e coltivatore di giardini, conosciuto attraverso Emanuela Siciliani-Musco, al suo esordio su Ponzaracconta. Oltre alla Botanica segnaliamo sul sito, come argomento attinente, l’interesse per le esplorazioni urbane di luoghi abbandonati (leggi qui) e il guerrilla gardening (2)
S. R.

Eliot Hodgkin, La Haberdashers’ Hall, Giorno della Vittoria in Europa, 1945, Imperial museum

 

La ricchezza della giungla urbana
di Andrea Di Salvo

Per quanto di primo acchito si presentino in conflitto con la nostra idea di cos’è o dovrebbe esser la natura, le città, oggi lo sappiamo, si delineano per molti versi come un ecosistema dalle smisurate potenzialità.

Uno sguardo rinnovato e una nutrita serie di studi ci confermano che le metropoli, dove sempre più l’uomo si concentra come specie, comprendono un’ampia percentuale di spazi verdi. Non soltanto nei parchi o nelle alberate, dove le città evolvono in foreste artificiali e ogni soggetto è un ecosistema a sé stante che tiene in piedi habitat per insetti, animali e uccelli, ma specialmente nella molecolare molteplicità di aree abbandonate, terreni incolti, siti industriali dismessi e poi ancora, spartitraffico, reticoli di cigli delle strade e di linee ferroviarie, margini, argini, terrapieni, cunette, fenditure dell’asfalto dove le erbe si affollano: raramente fin qui presi in considerazione e studiati da questo punto di vista.

Eliot Hodgkin. St. Paul’s from a Basement in Bread Street 1944

Per non parlare dei giardini privati, chiave di volta dell’ecosistema urbano. Tipo prevalente nelle città rispetto a parchi e spazi pubblici. Ideati seguendo ispirazioni diverse, finiscono per formare in serie un sistema collettivo, un mosaico di micro habitat unici, un reticolo in continua evoluzione che si offre come un rifugio. Dove le piante sono innaffiate e protette dai rischi di estinzione dell’esterno. Giardini che traboccano di biodiversità, sostenendo un numero di specie maggiore rispetto a parchi o habitat rurali, accrescendone il numero totale: perlopiù piante esotiche (70% non autoctone) importate da tutti i continenti sul filo delle mode floreali, a sostituire, moltiplicata per sette, l’originale presenza autoctona. Una giungla suburbana per troppo tempo sfuggita all’attenzione degli ecologi.

Sappiamo ancora che nel loro incessante susseguirsi di cicli di espansione e stagnazione le città distruggono e ricostruiscono spazi in cui opportunisticamente una vegetazione transitoria cerca habitat sempre nuovi e che questa vegetazione spontanea detiene un valore ecologico molto maggiore della natura curata. Insomma, con le loro periferie e terre di confine, le aree urbane si rivelano, oltreché habitat predominante della specie sapiens sapiens e quello più in rapido mutamento del pianeta, luoghi inaspettatamente ricchi di biodiversità.

Tutto questo ci racconta e argomenta, distinguendo tempistiche e tenendo conto anche dei fenomeni più recenti lo storico Ben Wilson nel suo volume Giungla urbana alla scoperta del lato selvaggio delle nostre città, con uno sguardo globale che include aree come sud est asiatico, subcontinente indiano e Africa (Il saggiatore, pp. 395, € 30).

Eppure a questa nuova consapevolezza del legame profondo tra città e natura, urbanizzazione ed ecosistemi ci siamo approssimati soltanto in anni recenti. E, per paradosso, proprio dopo esser passati per oltre un secolo – a partire dall’Ottocento fino agli anni 70 del Novecento – dalla severa condanna della presenza nelle città del vivente vegetale e animale.

È allora che, nel tentativo di rendere le città più salubri, pulite e ordinate, insomma asettiche, vengono interrati fiumi e ruscelli integrandoli al sistema fognario, bonificate aree contermini di acquitrini e paludi, asfaltate strade espungendone le piante. Ingegneria e tecnologia prendono il posto dei processi naturali ed è in particolare la vegetazione spontanea, caratteristica fin lì del paesaggio urbano, a esser combattuta come spia di un’inaccettabile resa all’incuria e all’abbandono, eliminata per ragioni morali ed estetiche, non solo pratiche.

Eliot Hodgkin, St Paul’s and St Mary Aldermanbury dal cimitero di St Swithin, 1945

E tutto ciò mentre invece, per gran parte della loro storia – spesso dalla fondazione sul delta di fiumi e in zone umide ricche di biodiversità – le città han mantenuto un forte legame con la natura entro cui sono immerse, con un’agricoltura diffusa e di prossimità, recuperando tra orti e frutteti urbani cibo, combustibile, ingredienti per medicine, opportunità per procurarsi materiali da costruzione, pascolare, cacciare, occasioni di svago e ricreazione.

Da sempre, le città sono inoltre abitate da piante spontanee, meno disciplinate (sul sito leggi: Le piante pazze). Molte di quelle che poi avremmo chiamate erbacce figurano nella dieta urbana dell’Europa medievale, utilizzate sulle tavole come pure per aromatizzare la birra. A proposito della flora presente nel microclima delle rovine del Colosseo il botanico Domenico Panaroli compila nel 1643 un Plantarum amphyteatralium catalogus dove elenca 337 piante, precisando che i contadini pagavano una tassa per raccoglier lì fieno ed erbe selvatiche. Come già Plinio il Vecchio evidenziava che “del resto, anche la plebe cittadina offriva ogni giorno alla vista squarci di campagna creando una specie di orto sulle finestre delle abitazioni”.

Con l’accelerarsi dell’espansione delle città e l’avvento dell’agricoltura industriale le cinture di orti urbani spariscono e la natura assume il ruolo di antidoto alla claustrofobia metropolitana: tanto nei dintorni di New York come delle città europee o nella brughiera che avvolge Londra le gite fuoriporta nel fine settimana sono un classico. Al tempo stesso, si diffondono piazze alberate e viali pensati come spettacolari vie d’accesso – nella sua rivoluzione di Parigi a metà Ottocento Haussmann ne fa piantare oltre 600.000; dopo i pini, cipressi e lecci messi a dimora per incorniciare i monumenti archeologici della Roma post-unitaria, con la conquista della Libia appaiono in città un gran numero di palme, così come il legame tra vegetazione e potere è innegabile nella Nuova Delhi progettata dagli inglesi. E così pure i moderni parchi cittadini che, pur quando mimano la natura, rintuzzano spontaneità e disordine della vita selvatica, proponendola in una forma perlopiù da esposizione, progettata a tavolino, dove comunque dominano artificio e disciplina e il decoro è imposto per via di ringhiere, pesticidi e ordinanze, a tener lontani ospiti indesiderati, umani o meno che siano.

Rientrano in questo quadro l’ordine irreggimentato del prato all’inglese o tappeto erboso sterilizzato e irrigato a prescindere dal luogo e dal clima, e assieme l’estetica idealizzata del giardino all’inglese e la sua popolarità come emanazione dell’imperialismo britannico.

Dal modello del sobborgo residenziale di primo Ottocento di John Claudius Loudon all’idea di città giardino di Ebenezer Howard (1898); dalle politiche di dispersione di Londra dopo la prima guerra mondiale alla città estesa nelle proposte per Berlino di Max Hilzheimer e il suo piano generale del 1929 di cunei verdi disposti a raggiera, fino al progetto di Broadacre City di Frank Lloyd Wright nel 1932, una serie di tentativi mirano a integrare la natura nell’ineluttabile espansione della matrice urbana.

Con il sobborgo giardino, Loudon propone un nuovo modo di vivere in città, sintetizzato nella sua guida The suburban gardener del 1838: le bifamiliari con veranda, versione miniaturizzata di proprietà di campagna in città, privilegiano nel loro stile di progettazione (gardenesque) l’aspetto decorativo e un eclettico assortimento di piante provenienti da tutto il mondo. Una combinazione di esotiche e autoctone crea nei sobborghi un nuovo tipo di natura, una ricca “internazionale botanica”, in qualche modo una forma di colonizzazione interna operata dalle città. Dato che in certa misura questi giardini dei sobborghi rispecchiano lo stile architettonico degli inglesi dei quartieri di Calcutta e Madras. Uno sviluppo del gusto per l’esotico che contagia anche i meno abbienti (enorme al riguardo è la popolarità del crisantemo tra i lavoratori attorno a metà secolo).

Se è soltanto con gli anni 60 del Novecento, a contemperare le critiche alla componente distruttiva dell’urbanizzazione, che le dinamiche ecologiche del sistema urbano vengon fatte oggetto di studio, è in realtà già con gli esiti delle distruzioni della seconda guerra mondiale che si rileva un’inattesa ricchezza ecologica nel cuore delle città bombardate. Mentre Eliot Hodgkin dipinge i resti di una Londra rianimata di erbacce – le rovine della cattedrale di San Paul come una distesa di fiori di campo –, è del 1945, il pionieristico studio del naturalista Richard Fitter che si prefigge di scrivere una storia naturale di una città, la London’s Natural History.

L’analisi dei processi mediante i quali la vegetazione colonizza nuovi spazi di natura con specie pioniere ruderali e uccelli mai visti prima in città attesta ora come nell’ambiente urbano la relazione con l’uomo crei nuovi tipi di ecologia ibrida. Una biodiversità degli spazi verdi informali che merita la stessa protezione riservata a un’antica foresta.

Eliot Hodgkin, Il muro di Londra da Aldermanbury Postern, 1945

Così, tra oscillazioni e ripensamenti, si afferma il favore per una natura selvaggia non regolamentata. Dalla difesa a fine Ottocento di terre demaniali e brughiere della cintura di Londra o delle riserve naturali a New York alla legittimazione con gli anni 70 del Novecento del giardinaggio comunitario nei lotti abbandonati di Manhattan, alla preservazione del dismesso scalo ferroviario berlinese di Südgelände, diversi sono i movimenti precursori del moderno atteggiamento nei confronti della natura urbana, fino alle scelte di rinaturalizzazione della enorme discarica newyorkese, oggi Freshkills Park, dove si va precisando una concezione nuova del parco pubblico incentrata su biodiversità e ripristino.

Con il riconoscimento e la comprensione del potenziale degli ecosistemi urbani, gusti e preferenze svisano dall’estetica del pittoresco di luoghi scenografici, destinati alla ricreazione, per orientarsi verso la gestione di spazi urbani per scopi ecologici e la creazione di habitat che si auto rigenerano.

Al centro della pianificazione urbanistica, oltre alla conservazione della natura figura una gestione finalizzata ad accrescerne il potenziale ecologico.

Costituire città biofile, capaci cioè di incoraggiare attivamente un ecosistema funzionante, è la sfida per il Ventunesimo secolo. Fino agli estremi – e alle stridenti contraddizioni – del caso di Singapore: città-stato tropicale dove il 56% della superficie è ricoperto di vegetazione in una sorta di sovrapposizione di fantabotanica e tecnonatura, natura semiselvaggia e architettura (i Gardens by the Bay)

E comunque, considerando che non saremo mai in grado di liberarci delle piante infestanti – tanto più quelle della vegetazione cittadina, capaci di adattarsi a stress continui, siccità, inquinamento, suoli degradati, e che ci mostrano come abitare e proliferare in ambienti ostili e inquinati – conviene accoglierle.
Ora poi che inaspettatamente son diventate di moda.

Ben Wilson, Giungla urbana alla scoperta del lato selvaggio delle nostre città, Il saggiatore, pp. 395, € 30, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XV, 43, Supplemento de Il Manifesto del 26 ottobre 2025

Note

(1) – Qui il link alle recensioni di libri a tema botanico, di Andrea Di Salvo: https://www.virideblog.it/

(2) –  Con guerrilla gardening si intende una forma di giardinaggio praticata su terreni sui quali non si ha il diritto legale di coltivare, come terreni abbandonati, aree dismesse o proprietà private. Viene praticato da persone e per motivazioni molto diverse tra loro, dai giardinieri che superano il limite fino a gruppi ambientalisti (da Wikipedia). Sul sito è citato qui e ne ha scritto qualche tempo fa Sandro Russo per Omero (Scuola di Scrittura) in un articolo “Giardini di guerra e di guerriglia” che sembra tornato di attualità e proporremo quanto prima sul sito

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