A Roma si abbattono alberi
segnalato da Fabio Lambertucci da Il Manifesto
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I cipressi del Mausoleo di Augusto, l’«empio crimine» dell’abbattimento
di Annarosa Mattei – Da il Manifesto del 26 ottobre 2025
A Roma Un nuovo capitolo del difficile rapporto fra alberi e archeologia
Mausoleo di Augusto nel progetto di Antonio Muñoz, 1934 – Museo di Roma
L’articolo 9 della Costituzione, spesso citato, «tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione (…) l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni». Augusto certamente lo avrebbe condiviso quando immaginò il suo mausoleo come espressione del rapporto tra città e natura: «un grande tumulo di terra – riferisce Strabone – innalzato presso il fiume Tevere sopra un’eccelsa base circolare di marmo bianco, tutto ombreggiato da alberi sempreverdi fino alla sommità».
In questo senso, è davvero sorprendente che il 30 settembre scorso siano stati abbattuti a gran velocità 59 dei 67 cipressi disposti a corona intorno ai resti del celebrato monumento funebre concepito dall’imperatore per immortalare se stesso e la gens Iulia. Gli 8 rimasti in piedi attendono un verdetto su richiesta dei cittadini e degli attivisti degli alberi, indignati e increduli quanto alle modalità del massiccio intervento.
I cipressi sono alberi molto resistenti, vivono anche oltre duemila anni, evocano in modo simbolico proprio l’idea di eternità e continuità che Augusto intendeva attribuire alla sua persona e alla sua famiglia. I cipressi predisposti da Antonio Muñoz nel restauro del 1938 non avevano novant’anni. Può darsi che in parte non godessero di buona salute, ma c’è da chiedersi come mai a Roma accada spesso che siano sistematicamente abbattuti i grandi alberi prossimi alle aree archeologiche, mentre la crisi climatica globale e l’elevato tasso di inquinamento urbano imporrebbero la necessità di conservare le rovine insieme al loro patrimonio arboreo, nel rispetto pieno dell’art. 9, in cui per tutela del paesaggio si intende anche il paesaggio urbano, equiparato al paesaggio naturale.
La guerra tra gli alberi e l’archeologia è in corso a Roma da tempo e non se ne comprende la ragione se si ripensa al diverso atteggiamento del passato. Basterebbe rivisitare il Palatino, dove i resti archeologici, nel segno di un maestro come Giacomo Boni, vivono in perfetta simbiosi con alberi di alto fusto, con le più svariate specie vegetali e animali, creando un ambiente idillico unico al mondo per la bellezza e la salubrità dell’aria.
Al contrario, lungo la sottostante via dei Fori Imperiali, a partire dalla fine del secolo scorso, in una vasta area già esplorata e studiata negli anni trenta durante gli infelici sventramenti necessari alla messa in opera dello stradone, è partita una campagna di scavi ininterrotta che ha integralmente distrutto i giardini storici di Raffaele De Vico, abbattendo decine di pini, lecci, allori, lasciando irrisolti fossati di scavo al posto degli alberi e del verde.
Perché tutto ciò, se a Roma, già dalla fine del XIX secolo, le rovine e il verde spontaneo componevano un paesaggio unico riflesso nelle vedute e nei testi di innumerevoli artisti e scrittori? Boni, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in collaborazione con l’Orto Botanico, fu il primo ad affiancare alle campagne di scavo la ricerca sui grandi alberi e le specie vegetali esistenti nelle aree del Foro Romano e del Palatino, convinto che il verde abbellisse e proteggesse i monumenti, integrandone anche le parti mancanti.
Lecci, cipressi, pini, mirti, biancospini, liburni, già cari a Virgilio, si moltiplicarono così in cima al Palatino, come nelle ville di delizie romane, mentre bossi, allori e sempreverdi simularono muri e colonne perduti accentuando il fascino dei resti frammentari. Se gli alberi sono da abbattere per la pubblica tutela, o da piantare là dove non sarebbero stati storicamente previsti, va detto che occorre accertare con chiarezza le loro presunte malattie e che, in verità, in molte aree antiche della città, alberi, orti e giardini prosperavano, come sulle pendici del Campidoglio e nella distesa dei Fori, prima che la costruzione del Vittoriano cancellasse anche la memoria dell’intero rione Campitelli.
Quanto ai cipressi del Mausoleo di Augusto, ricordiamo che nel mondo antico gli alberi erano sacri e abbatterli era considerato un empio crimine. L’unico motivo per l’abbattimento di un albero in città è solo la sua morte vera e l’unico rimedio è la sua immediata e degna sostituzione.
Il Mausoleo di Augusto (foto dall’alto), prima dell’abbattimento dei cipressi








Emilio Iodice
29 Ottobre 2025 at 00:05
La tragedia dell’ascia distratta: perché un albero secolare non è mai solo un albero
La recente discussione sull’abbattimento distratto degli antichi cipressi che circondano la Tomba di Augusto è, come sottolinea con tanta perspicacia il dottor Lambertucci, un evento profondo ma sottilmente tragico. Apprezzo la saggezza dell’autore nel descrivere questa tragedia casuale: la facilità con cui scartiamo un bene vivente di incalcolabile valore storico ed ecologico, semplicemente perché è vecchio e sano, e ostacola la praticità o una visione moderna semplificata. Questo atto rappresenta più di una semplice manutenzione del terreno; è un fallimento della gestione a lungo termine.
In una città come Roma, gli alberi non sono solo flora, ma architettura vivente. Sono testimoni silenziosi e fedeli di millenni di drammi umani. Gli iconici pini domestici (Pinus pinea), che definiscono lo skyline romano e conferiscono alla città il suo caratteristico genius loci, sono monumenti culturali insostituibili. Allo stesso modo, i cipressi del mausoleo di Augusto, radicati nel contesto dell’antichità imperiale, offrivano un legame diretto e organico con la storia che nessuna iscrizione su pietra o facciata restaurata può replicare. Quando rimuoviamo un albero che ha ancorato un luogo per secoli, non ci limitiamo a liberare uno spazio, ma cancelliamo un’intera dimensione del tempo storico e della continuità.
Al di là del loro significato culturale, questi alberi maturi sono risorse vitali e funzionali nella lotta per la resilienza urbana. Un cipresso secolare fornisce molta più ombra e refrigerio di qualsiasi alberello appena piantato, offrendo una difesa cruciale e low-tech contro l’intenso effetto isola di calore urbano che colpisce Roma durante l’estate. Sono lavoratori ecologici più efficaci, sequestrano più carbonio, gestiscono più acque piovane e sostengono una maggiore biodiversità urbana. Rimuoverli è una scelta finanziaria miope che porta a un declino immediato e misurabile della salute pubblica e della qualità ambientale.
In definitiva, il dottor Lambertucci esamina un tipo di perdita più profonda e filosofica. La biofilia, il nostro innato bisogno umano di entrare in contatto con la natura, è soddisfatta dalla presenza di forme di vita durature e pazienti come gli alberi secolari. Essi simboleggiano la stabilità e il lento e immenso scorrere del tempo, offrendo una prospettiva di equilibrio nel nostro mondo frenetico. Abbatterne uno semplicemente a causa della sua età è un atto di amnesia culturale e naturale. Non solo perdiamo una parte della natura, ma diminuiamo anche la storia collettiva e la stabilità che queste strutture durature forniscono alla nostra fragile esistenza. Perdiamo una parte di noi stessi quando ignoriamo con noncuranza i pochi esseri viventi che sfidano la natura effimera della civiltà umana.
Questo commento è un potente invito al rispetto: preservare questi antichi giganti verdi non dovrebbe essere visto come un ostacolo al progresso, ma come un investimento cruciale e a lungo termine nel nostro patrimonio culturale e nel futuro dell’ambiente.