Ambiente e Natura

Tempi di Apocalisse

segnalato da Sandro Russo da la Repubblica

Albrecht Durer, I quattro cavalieri dell’Apocalisse (1)

 

Niente paura, è solo l’Apocalisse
di Antonio Spadaro – Da la Repubblica del 21 ottobre 2025

L’Ia e le nuove guerre ci terrorizzano. Così per parlarne ritorniamo al linguaggio religioso e il pensiero si rifugia nelle immagini della fine e della salvezza

Il discorso pubblico torna a essere sempre più di frequente un linguaggio religioso, soprattutto quando parliamo di tecnologia. È come se i numeri, i parametri, le reti neurali non bastassero. Quando parliamo di algoritmi, non ci accontentiamo di grafici e formule: ricorriamo alle immagini più estreme, quelle della teologia. Apocalisse. Grazia. Demonio. Messia.

È avvenuto anche di recente, quando Peter Thiel — imprenditore miliardario e teorico del transumanesimo, vicinissimo a Trump e Musk — in una intervista al New York Times, ha evocato l’Ia come maschera dell’Anticristo, un potere politico globale che, nel nome della salvezza, potrebbe ridurre l’umanità in schiavitù. L’Anticristo, nella sua immaginazione, non è un tiranno sanguinario ma un’autorità seducente, capace di presentarsi come difesa e redenzione. «Un calcolo scientifico o matematico dell’apocalisse ha sostituito la visione mistica dei profeti religiosi», sostiene Thiel.

Dario Amodei — scienziato e cofondatore di Anthropic, nota startup di Intelligenza artificiale — ha scritto un saggio dal titolo Machines of Loving Grace. Descrive un futuro in cui le macchine non divoreranno l’umanità, ma la accompagneranno. Grazia, appunto: una grazia “laica”, fatta di diagnosi mediche immediate, di farmaci personalizzati, di vite più lunghe e sane. Una grazia che libera dall’estenuante lavoro necessario a sopravvivere, per aprire spazi all’immaginazione, alle relazioni, alla creatività.

In due voci opposte si riflette un paradosso del nostro tempo: per immaginare il futuro tecnologico non ci accontentiamo di formule e algoritmi, ma ricorriamo ancora al vocabolario della religione, l’unico in grado di esprimere l’abisso della paura e la vertigine della speranza. Dove Thiel vede il mostro che inganna, Amodei vede il dono che sorprende. Due visioni opposte, eppure entrambe mostrano che il lessico della teologia è tornato a essere indispensabile. Non si tratta di un vezzo retorico, ma di una necessità. Quando la politica sembra incapace di governare il futuro, il pensiero cerca rifugio nelle immagini estreme della fine e della salvezza. È come se fosse più facile immaginare l’apocalisse che una legge elettorale.

Gli hangar desertici che custodiscono i server delle big tech, con le loro file infinite di macchine che lampeggiano in silenzio, somigliano a cattedrali contemporanee. Nei loro corridoi illuminati da luci fredde si compone una liturgia invisibile di energia e dati. Le macchine diventano il nuovo altare davanti al quale si celebrano riti antichi di paura e speranza. Attorno a questi altari si radunano racconti millenaristici: c’è chi attende il Messia tecnologico, pronto a riscattare l’umanità, e chi teme il Demonio, pronto a divorarla. È il nuovo teatro in cui si proiettano le paure e le speranze collettive, un luogo in cui l’immaginazione religiosa non scompare, ma ritorna con forza inattesa.

Queste immagini non sono innocue. Influenzano le decisioni politiche, economiche, culturali. Ogni volta che l’umanità si è trovata di fronte a cambiamenti radicali, ha cercato nelle immagini apocalittiche un linguaggio adeguato a esprimere lo stupore, l’angoscia, l’attesa. Se n’è accorta anche l’Accademia di Svezia che qualche giorno fa ha assegnato il Nobel per la Letteratura al «maestro dell’Apocalisse», lo scrittore ungherese László Krasznahorkai, «per la sua opera avvincente e visionaria che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte».

Oggi le macchine intelligenti assumono i tratti apocalittici. Le si descrive come mostri che sfuggono al controllo umano, come divinità ostili pronte a rivendicare un potere assoluto. Il loro volto è quello dell’Antico Testamento, fatto di tempeste e giudizi finali. In queste visioni, l’I.A. non è uno strumento, ma una creatura arcana, inquietante, che travalica i confini del calcolo per trasformarsi in idolo, nemico, Anticristo tecnologico.

Il fatto che oggi ricorriamo al linguaggio religioso per parlare di tecnologia non deve sorprendere. È sempre stato così: ogni epoca ha usato mito e liturgia per affrontare l’ignoto. La differenza è che, mentre un tempo le apocalissi riguardavano la fine del cosmo o il giudizio divino, oggi la rivelazione passa attraverso il codice informatico e i chip di silicio. Ma la dinamica è la stessa: davanti all’imprevedibile, l’uomo non trova parole nuove e ripiega su quelle più antiche, le uniche capaci di esprimere la vertigine.

Le macchine “intelligenti” diventano specchio della nostra condizione. Ci costringono a fare i conti con la nostra incapacità di raccontarci senza la trascendenza. Se oggi parliamo di algoritmi con le parole dell’Antico Testamento o con le immagini della salvezza, non è perché le macchine siano divine, ma perché siamo noi a non saperci narrare diversamente.

Apocalisse e grazia non sono soltanto figure retoriche contrapposte. Sono le coordinate del nostro tempo. Da un lato, il “demonio” che incarna le paure arcaiche di un potere che sfugge di mano. Dall’altro, il “messia” che promette una nuova era di emancipazione. In mezzo, la nostra responsabilità, il compito di scegliere come orientare la traiettoria delle macchine. Nessuna rivelazione è predestinata. Tutto dipende dalle scelte di chi abita il presente.

Parlare di apocalisse o di grazia non è un esercizio letterario: è un atto politico e culturale. Attenzione: lo stesso linguaggio religioso che oggi usiamo per raccontare l’intelligenza artificiale scorre come un fiume sotterraneo anche nei discorsi politici che attraversano i territori più fragili e incandescenti del pianeta. In Medio Oriente, ad esempio, la retorica del potere si è alimentata di parole che odorano d’incenso e di polvere da sparo, di immagini che evocano il Giudizio e l’Apocalisse. Le offensive diventano crociate, le resistenze jihad, le tregue sospensioni messianiche in attesa della prossima rivelazione. È come se ogni calcolo strategico trovasse forza solo quando riesce a vestirsi di archetipi religiosi che la gente riconosce come parte della propria memoria più antica. E così tutto è possibile: anche sterminare decine di migliaia di innocenti o fare del diritto internazionale carta straccia.

In queste terre, la tecnica più sofisticata innervata di intelligenza artificiale e diabolica, e la fede più arcaica si specchiano l’una nell’altra: i droni solcano lo stesso cielo in cui un tempo si cercavano segni divini, le piattaforme digitali raccolgono le stesse ansie e speranze che un tempo erano affidate ai profeti. E così la politica, per essere compresa e accettata, deve parlare due lingue insieme: quella dei circuiti e quella dei simboli, quella dei dati e quella della salvezza. È in questa fusione inquieta — tra il codice delle macchine e quello delle Scritture — che si gioca oggi il destino della regione, come se il futuro potesse essere compreso solo a partire da un lessico che tiene insieme l’idea di redenzione e quella di catastrofe.

[Antonio Spadaro, da la Repubblica del 21 ottobre 2025]


Nota

(1) – I quattro cavalieri dell’Apocalisse, xilografia di Albrecht Dürer (ca. 1497–98), cavalcano in gruppo, guidati da un angelo, per portare (da sin. verso dx): epidemie (il cavaliere con l’arco), guerra (il cavaliere con la spada), carestie (il cavaliere con la bilancia) e morte (il cavaliere emaciato).

 

Clicca per commentare

È necessario effettuare il Login per commentare: Login

Leave a Reply

To Top