di Francesco De Luca
Ci prepariamo…
a che venga la nave…
a che arrivi il figlio da fuori…
a che mercoledì si possano fare le analisi.
Il mare d’intorno è una gabbia. Ci acquieta perché ne conosciamo gli umori. Ma non ci protegge. Troppe volte l’ abbiamo percorso… per il cuore che sbalza, per la prostata, per le fitte allo stomaco. Con l’animo in subbuglio e con la paura.
Siamo prigionieri volontari. Preferiamo le angosce dei disagi all’opulenza dello straniamento. Isolati per scelta.
Ci facciamo bastare i moniti del parroco, le mosce verdure delle bancarelle, i saluti stentati dei conoscenti, i rari sorrisi dei bimbi.
Insensibili a queste ristrettezze sono i ragazzi. L’isola è un parco giochi. Un variegato eden col cane che abbaia, il vicolo frusciante di vento, la spiaggia maleodorante per il corpo del gabbiano imputridito, la chiesa zittita dal campanello nell’eucarestia.
Sensazioni che il vento rinforza e la casa accogliente cementa nell’animo.
Anno dopo anno si forgia la plastica maschera che avvolge il corpo. I volti rigati dall’intemperie, gli occhi… due fessure come due lucette di bontà sulle vicende. Tutte rigorosamente umane.
Il poco, il giusto, il vero, il bello: non c’è luogo più propizio dove cercarli. Ne senti l’afrore nei refoli del levante, nel rossore del tramonto, negli sprazzi rosati dell’alba, nelle corse vispe dei bimbi, nel saluto grave dei vecchi.
Isolani non si nasce, si diventa.
NdR: le foto a corredo dell’articolo sono di Silveria Aroma








