Gaza

Il conflitto Israele – Palestina. Il punto di vista di Lucio Caracciolo

due articoli segnalati da Sandro Russo da la Repubblica

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Rinfrancato dall’articolo di Giuseppe Mazzella circa l’interesse dei nostri lettori per temi ostici come le due guerre in corso, propongo due articoli di Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la seguita (anche da noi del sito) rivista italiana di geopolitica; il primo di più di un mese fa, sull’onda delle proteste di piazza, quando la guerra sembrava inarrestabile e il secondo di qualche giorno fa, dopo “l’accordo di Trump”, con cui Caracciolo inizia una collaborazione continuativa con Repubblica: ogni domenica con la rubrica Deviazioni.
S. R.

Proteste contro l’invasione di Gaza (da Repubblica)

Israele, il conto con la storia. L’assalto finale a Gaza è un errore strategico
di Lucio Caracciolo Da la Repubblica del 17 settembre 2025

L’assalto alla residua popolazione palestinese di Gaza non è solo un crimine ma un errore strategico di Israele. Figlio della retorica di Netanyahu, finito prigioniero di sé stesso quando ha posto come obiettivo della guerra — ormai più che sovraestesa su innumerevoli fronti, tutti aperti, nessuno chiuso — la distruzione totale di Hamas, fino all’alba del 7 ottobre finanziato in collaborazione con Qatar ed Egitto per dividere i palestinesi. Machiavellismo di cui Bibi andava (va ancora?) particolarmente fiero.

L’assalto a Gaza City si ritorce contro Gerusalemme, mentre ha fatto di Hamas il simbolo della causa palestinese su scala globale. Ma il capo di Israele non può accettare un qualsiasi compromesso perché suonerebbe ammissione di sconfitta. Quando si entra nella logica della guerra totale, potenzialmente infinita perché fine a sé stessa, in genere si finisce male.

Dopo essersi inchiodato alla sua propaganda, il premier israeliano sta trascinando nel gorgo la patria. Israele affronta lo scenario dell’orrore che nelle scuole militari di tutto il mondo è modello da evitare come la peste: la guerra urbana. Aggravata dal fatto che di Gaza City ce ne sono molte: quella di superficie, ormai azzerata, più i vari strati disegnati da centinaia di chilometri di tunnel dove si annidano ancora miliziani di Hamas. Israele si assume davanti alla storia la responsabilità della liquidazione di una popolazione civile trattata quale banda di terroristi. Peggio: “animali”. Non bastasse, Netanyahu sacrifica gli ostaggi, a rischio di finire uccisi per errore dai suoi stessi soldati e/o di essere usati quali scudi umani da Hamas.

Quale che sia l’esito militare dell’operazione in corso, criticata dallo stesso capo di Stato maggiore delle Forze armate che la stanno eseguendo, se ne intravvedono già gli effetti sul piano interno e internazionale. Le crepe nello Stato profondo israeliano, con il Mossad che rifiuta di partecipare all’attacco contro i dirigenti di Hamas a Doha (quindi lo fa fallire) e le aspre dispute fra governo e militari, oltre che tra alcuni ministri, espongono le faglie che da ben prima del 7 ottobre minano la fabbrica sociale e istituzionale di Israele.

Lo Stato ebraico è in crisi di identità. Lo conferma il rifiuto di molti riservisti di andare in battaglia. Il motivo principale per cui Netanyahu apre sempre nuovi fronti senza chiuderne nessuno è che oramai la sua alternativa è fra guerre esterne e guerra civile. L’impossibilità di chiudere con una vittoria decisiva le partite con palestinesi, huti, iraniani e altri più o meno minacciosi nemici può finire per chiudere il cerchio producendo una spirale suicida.

La nuova fase della strage di palestinesi inasprisce lo scontro nella regione. Altro che accordi di Abramo fra Stato ebraico e Golfo. Il vertice arabo-islamico di Doha, convocato in seguito all’attacco di Israele al Qatar, disegna ripercussioni di portata strategica. In attesa dell’annunciatissimo nuovo raid contro l’Iran — ma per ottenere che cosa? — si profila all’orizzonte la minaccia, non immediata ma visibile, di uno scontro fra Israele e Turchia. Rovesciando quella che è stata per decenni la collaborazione sotterranea quanto effettiva fra gli Stati profondi di Gerusalemme e Ankara, Netanyahu ed Erdo?an sono ai ferri corti. Si guardano in faccia a Damasco, dove i turchi hanno appena piazzato presunti clienti — jihadisti riciclati — sul decrepito trono degli Asad. Ma come assicura il ministro Bezalel Smotrich, capo dei coloni più estremisti, la capitale dell’ex Siria spartita in vari pezzi deve tornare a casa, nel Grande Israele comandato da Dio. L’avanzata che ha portato i tank con la stella di Davide a mezz’ora da Damasco esplicita tanta ambizione, coltivata dall’ala teocratica dello schieramento che sostiene Netanyahu.

In parallelo la crescita esponenziale dell’influenza turca in una vastissima area che dall’Asia centrale si diffonde in Africa via Levante anticipa la resa dei conti per l’egemonia mediorientale: Israele contro Turchia. Stato ebraico contro paese Nato a vocazione imperiale, che in teoria se attaccato potrebbe invocare il famoso articolo 5, coinvolgendo gli Stati Uniti in un conflitto con il “gemello” strategico. Ciò che ovviamente non avverrà. Ma già solo poter concepire uno scenario così paradossale rende conto della rivoluzione geopolitica in corso. Di cui nessuno è più in grado di determinare gli sviluppi. Le guerre mangiano chi pensa di dominarle. Proprio mentre Netanyahu scatena l’offensiva su Gaza City, la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite bolla “genocidio” la campagna dello Stato ebraico nella Striscia. Risposta del ministero degli Esteri di Gerusalemme: gli estensori della sentenza sono “clienti di Hamas”. L’autismo del governo lascia immaginare quali saranno, forse per generazioni, i costi in termini di reputazione, quindi di sicurezza, che lo Stato ebraico pagherà per la liquidazione dei gazawi. E per il suo senso di onnipotente impunità. Con conseguenze già visibili per gli ebrei dovunque si trovino. Coloro per i quali Israele fu fondato e che ora sembra aver dimenticato.

Zeitoun (Striscia di Gaza), 17 ottobre (agf) – [immagine dall’articolo di Repubblica on line]

Deviazioni
Gaza, i molti buchi del piano Trump
di Lucio Caracciolo – Da la Repubblica del 19 ottobre 2025

Né gli israeliani né i palestinesi rinunciano all’idea che Io spazio conteso sia loro

II piano Trump è come il formaggio svizzero: pieno dì buchi che ognuno cercherà di tappare o ignorare a modo suo. Nell’infinita e forse infinibile contesa israelo-palestinese è sempre stato così. Perché né gli israeliani né i palestinesi rinunciano all’idea che lo spazio conteso fra Mediterraneo e Giordano sia casa loro. Tutto. Per entrambi qualsiasi concessione è provvisoria. La catastrofe in corso è l’effetto imprevisto e indesiderato della rinuncia di Israele a considerare il fattore umano nell’equazione di Gaza. La ferocia esplosa il 7 ottobre, che ha sorpreso lo stesso Hamas, era anche figlia di decenni di vessazioni subite dai gaziani costretti in gabbia quali “bestie umane”. Molto di più: esprimeva la rivolta delle masse palestinesi che non ragionano secondo i parametri della diplomazia internazionale ma della propria storia e dei propri sentimenti. Sull’altro fronte, altro che guerra di Netanyahu. Fino agli ultimi mesi, quando l’evidenza del genocidio è parsa innegabile anche a buona parte degli ebrei in patria e in diaspora, la grande maggioranza degli ebrei di Israele ha appoggiato la campagna militare voluta da Bibi anche contro l’opinione di capi dell’Idf e del Mossad. Peri quali una vendetta non è una strategia e può vendicarsi di chi l’azzarda. Decine di migliaia di terroristi, tra cui donne, vecchi e bambini, sono stati uccisi dall’Idf a Gaza, mentre i coloni, protetti dai militari che dovrebbero controllarli, ne hanno profittato per accelerare l’espansione degli insediamenti cisgiordani. Caso mai qualcuno ancora pensasse a uno Stato palestinese. Un sobrio bilancio evidenzia che a oggi Israele ha perso. Ha voluto perdersi. Perché ha accettato la guerra di Hamas, così elevato a. marchio globale. Nel sentiero stretto che divide il genocidio dal suicidio, ovvero la guerra esterna contro i civili a Gaza dalla guerra civile fra tribù e poteri israeliani. Non si torna al pre-7 ottobre. La questione palestinese è diventata mondiale in odio a Israele. Trump lo ha detto a Netanyahu: «Bibi, Israele non può combattere il mondo». E il premier israeliano: «Sì, lo capisco». Non ci scommetteremmo. Tre punti sembrano acquisiti. Primo. Harnas, che Bibi prometteva di liquidare sapendo di non poterlo fare, esiste e resiste a Gaza. Né intende disarmare. Perfino Trump ha invitato gli orfani di Sinwar a fungere da provvisori poliziotti nella Striscia. Prossimamente affiancati dai turchi, protettori di Hamas e “alleati” degli americani (ovvero di sé stessi), che dovrebbero avere il privilegio di muoversi nei tunnel tuttora in mano ai miliziani islamisti. Secondo. Israele ha seriamente indebolito ‘l’asse della resistenza” gestito da Teheran per ritrovarsi alle porte di casa un avversario ben più potente. Altro che il “Caro nemico” persiano. I turchi sono a distanza di cannone dalle avanguardie israeliane penetrate in Siria. Dalla moschea damascena degli Omayyadi a Damasco i più disinibiti fra gli artefici del nuovo impero turco guardano alla gerosolimitana al-Aqsa (parola di Bilal Erdogan, figlio del reis). Terzo e decisivo. Israele sta cominciando a pagare il prezzo dell’errore compiuto elevando Hamas a minaccia strategica. Contro ogni logica, Netanyahu ha imposto a sé stesso e alle sue Forze armate di rispondere al 7 ottobre come se fosse un super-Kippur, l’ultima volta che Israele ha davvero rischiato la pelle. Quasi Sinwar potesse conquistare lui al-Agra. Quindi mano libera per trucidare tutti i gaziani che capitino a tiro. Così non solo ha compromesso la sua reputazione (sopportabile), ma il vitale sostegno americano (insopportabile). E lo sta pagando caro.
[Lucio Caracciolo, da la Repubblica del 19 ottobre 2025]

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