Anziani

Una figlia assiste la madre con l’Alzheimer

Una figlia assiste la madre con l’Alzheimer
segnalato da Teresa Denurra da la Repubblica

 

Sono stata la madre di mia madre. Ma aver cura di lei non è stato inutile
di Donatella Di Pietrantonio da la Repubblica on-line del 16 ottobre 2025

Donatella Di Pietrantonio

Ospite di Kum! Festival, la rassegna di Pesaro dedicata proprio al tema, la scrittrice premio Strega torna sul rapporto con la madre malata che ispirò il suo primo romanzo

In un giorno d’estate, durante la costruzione alla buona – si potrebbe dire abusiva – di una rimessa per gli attrezzi agricoli, una trave di legno è caduta sulla testa di mia madre. Ha perso conoscenza, è rimasta una notte in ospedale, ma non sembrava aver riportato conseguenze se non un grosso livido che poi le è sceso per gravità dalla fronte lungo il viso, fino al collo e al petto. Lei però ha sempre datato a quell’incidente l’esordio dei suoi disturbi di memoria, che solo qualche anno dopo l’avrebbero portata a ricevere la diagnosi della malattia di Alzheimer. Quel pomeriggio eravamo insieme, sedute davanti al neurologo. È rimasta indifferente, non era già più in grado di attribuirle un senso.

“La memoria può essere paragonata a un enorme magazzino all’interno del quale l’individuo può conservare tracce della propria esperienza passata, cui attingere per riuscire ad affrontare situazioni di vita presente e futura. Tale archivio non ha caratteristiche statiche e passive ma può essere definito come un costruttore attivo di rappresentazioni sul mondo” (Tomei, 2017). Smarrita nello studio del neurologo, mia madre aveva già perso il suo archivio e non era più capace di costruirsi rappresentazioni del mondo. Ma prima, prima di quel referto scritto e orale, aveva attraversato sconforto e disperazione. Io, la sua unica figlia, con una formazione medica, non trovavo le parole per rassicurarla. La memoria le sfuggiva, e lei ne era consapevole. Mi parte la testa, diceva. È stato il periodo peggiore di una malattia lunga ventidue anni.

Leggo su stateofmind.it i vari tipi di memoria, con i loro sottotipi: working memory, memoria dichiarativa – comprendente quella episodica e quella semantica, memoria autobiografica, prospettica, procedurale. Ricordo mia madre che perdeva tutti questi pezzi. Esempio: quando ha smesso di allacciarsi le scarpe aveva perso la memoria procedurale. Ma poi, a distanza di tempo, non sapeva più di avere dei piedi, e io non so più che memoria svanita era, quella.

Resto anch’io fedele alla sua datazione: dal giorno in cui la trave si è abbattuta su di lei noi non siamo più state la madre e la figlia che eravamo prima. Capita così, con queste malattie: colpiscono in particolare la singola persona ma anche i suoi affetti, l’intera famiglia. I ruoli si rovesciano e, benché si sappia che sta accadendo, non si è mai abbastanza pronte a trasformarsi in madri delle proprie madri. Di nuovo: io non trovavo le parole per curare la paura di quella vecchia bambina che lei diventava.
Per quanto siamo maturi e disposti a invertire le parti, si resta nel profondo ragazzi traditi, abbandonati da queste madri che sfuggono nella malattia. A me lei era mancata da bambina e ora la ferita tornava a infiammarsi.

A fine anni ’90 il termine caregiver in Italia si usava solo in ambienti specialistici e io non lo conoscevo. Ero semplicemente una figlia che si occupava della madre malata. Tutto quello che provavo nel farlo era faccenda mia e mia la colpa di arrabbiarmi con lei, come se lo facesse apposta.

Oggi i caregiver familiari, secondo una recente inchiesta di Paolo Russo per La Stampa, sono sette milioni, un milione e mezzo invece le badanti. I caregiver sono soprattutto figlie e mogli, dovremmo dire le caregiver. Poi anche figli e mariti e in minima parte altri parenti. Si stima che quasi la metà di loro si ammali di malattie croniche in seguito allo stress psico-fisico patito. Molti perdono il lavoro, per la difficoltà di conciliare gli orari con quelli dell’assistenza. Molti si separano. Per quanto mi riguarda avevo una libera professione impegnativa, un bambino piccolo e una madre non autosufficiente. A ripensarlo ora, da lontano, un carico insostenibile. La costruzione della cura intorno a lei è durata anni, adattandosi al progredire della malattia. Mio padre ha collaborato, a un certo punto si è reso necessario un aiuto esterno. Ma la responsabilità, il pensiero costante di mia madre non mi ha mai lasciata. Ridotte al minimo le vacanze, accorciati gli spostamenti. Quanti inviti non accettati: devo andare da mia madre. Alla fine non mi dispiaceva nemmeno più, mi sembrava di voler stare solo accanto a lei, di preferirlo a una cena, una festa, o la domenica pomeriggio al cinema. Ero malata con lei. Ho dormito sempre con il telefono acceso vicino all’orecchio, per accorrere nel caso non infrequente di emergenze notturne.

Grazie alle cure ricevute nel calore di casa sua, mia madre è rimasta così a lungo, a fronte di una sopravvivenza media di otto – dieci anni.

Non ha mai saputo che ho pubblicato libri e che il primo aveva lei come protagonista. Quando mi è arrivato il pacco con le copie fresche di stampa, gliene ho messa una tra le mani. In quel periodo mi riconosceva ancora e mi chiamava per nome, ma ciò che avevo fatto non poteva capirlo. Nel frattempo il suo linguaggio si era involuto, ridotto, attorcigliato. Alla fine combinava sillabe a casaccio, in frasi prive di senso per noi. Ai da daies. L’ultimo che ha chiamato è stato mio padre.

L’evento
Domenica 19 ottobre (ore 12.30) Donatella Di Pietrantonio dialoga con Massimo Natale al cinema Astra di Pesaro, durante l’incontro La parola che cura. L’evento fa parte di Kum! Festival, la rassegna ideata da Massimo Recalcati.

Commento di Teresa Denurra.
Ho segnalato questo articolo perché mi sono rispecchiata nell’esperienza dell’autrice.
Ne sottoscrivo ogni parola .Anche io sono stata la madre di mia madre e questo non è normale né naturale, ma diventa necessario. Lo sfinimento della cura, durato anni, lascia una traccia che non si cancella. Vecchi problemi non risolti nel rapporto madre-figlia si sono chiariti e ricomposti nella realtà di una malattia che non lascia scampo a chi c’è l’ha, ma anche a chi diventa “caregiver”. Quante volte mi hanno appiccicato addosso questa parola. Poi un giorno di fine estate il bicchiere di cristallo si è rotto e lei è morta lasciando il vuoto affettivo che senti quando perdi per sempre che ti ha dato la vita e il vuoto dell’assistenza che ha scandito anni di vita complicata.
Come a me, a molti sarà capitato, magari con altre modalità, di rivivere l’esperienza con un’altra persona cara.

Clicca per commentare

È necessario effettuare il Login per commentare: Login

Leave a Reply

To Top