Gaza

La pace di Trump

segnalato dalla Redazione da la Repubblica

Due articoli da la Repubblica di ieri, 14 ottobre sulla guerra israelo-palestinese: di Gabriele Romagnoli, profondo conoscitore dell’America, sul successo dell’intervento pacificatore di Trump. Insieme a un’intervista a Gilles Kepel, politologo francese esperto di Medio Oriente, recente autore di un libro al riguardo: “Antiterrorisme”.
La Redazione 

La vignetta di ElleKappa su la Repubblica di ieri 14 ottobre 2025

Trump e l’apologia della guerra del presidente pacificatore
di Gabriele Romagmoli  – Da la Repubblica del 14 ottobre 2025

Ieri è stato il suo momento, il suo tempo, il suo D-Day. Donald Trump ha scritto un “nuovo inizio” con un pennarello che pareva una clava. Ha riscritto le regole della pace, ottenuta non preparando la guerra, ma facendola, e festeggiandola da una parte sola, con un solo popolo

Sulla Terra che lui calpesta non tramonta mai il sole. Ha lasciato una base militare nel Maryland prima che scendesse la sera in America ed è atterrato a Tel Aviv, in Israele, al sorgere del giorno. Ha guardato l’alba e ha proclamato che fosse storica, inedita, ma soprattutto sua. Il suo momento, il suo tempo, il suo D-Day. Donald Trump ha scritto un “nuovo inizio” con un pennarello che pareva una clava. Ha riscritto le regole della pace, ottenuta non preparando la guerra, ma facendola, e festeggiandola da una parte sola, con un solo popolo, ma poi con tutti i volonterosi despoti che governano gli altri, con quelli pronti a rendergli omaggio uno alla volta, assisi o in bilico nelle democrazie oppure autoritari che voti non chiedono, duri e puri oppure corrotti. Messi in fila, tutti per uno e uno per tutti. Gli hanno scritto “Grazie” sulla sabbia, si sono messi il cappello rosso al suo cospetto, gli hanno dato la medaglia presidenziale israeliana e il collare del Nilo, lo hanno paragonato a Ciro il Grande e hanno avuto il timore che non bastasse o non conoscesse, allora si sono fermati e hanno lasciato che fosse lui a evocare i miracoli, il paradiso e il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.

Trump non avrà probabilmente mai più una giornata simile, ma nel caso se la inventerà. Fermate otto guerre, come sostiene, potrà pur bloccare la nona: quella tra Russia e Ucraina è già in agenda, anche se le prove generali non hanno funzionato.

L’uomo della provvidenza non poteva che arrivare dal cielo, scendendo a bassa quota per poter vedere una folla entusiasta e grata. Il suo mantra: «La guerra è finita, ok, capito?». Perfino nel momento della consacrazione sa essere truce, nel verbo e nel volto. A metterlo a suo agio sono i nemici; apprezza chi gli tiene testa (come “Bibi”), purché poi l’abbassi. Nei discorsi preparati aveva incluso, e più volte, oltre all’inevitabile parola del giorno, «pace», anche «amore» e «rispetto». Le ha pronunciate in fretta, una smorfia e via, poi spazio all’improvvisazione per ritrovar sé stesso. È venuto a raccogliere l’affetto, la riconoscenza, ma da un lato della barricata. Quanto a Gaza, sarà per un’altra volta. Gli «sembra già di conoscerla», ma è una frase che nessuno che non provenga da lì dovrebbe poter dire. È ai confini dell’immaginabile, proprio dove lui pone questo accordo. Negli studi televisivi di tutto il mondo i commentatori hanno cercato di spiegare come ci sia riuscito, si sono sentiti chiedere se in fondo non abbia seguito un percorso avviato da Joe Biden. La storia non ammette note a piè di pagina. I mattoni all’edificio li ha messi Trump: che sia di cemento armato o di legno compensato lo dirà il futuro, ma il presente gli apparteneva e lo sapeva. Ha cercato di godersi l’attimo, dilatandolo fino all’inconcepibile limite dell’eternità. Se poi le cose dovessero andare diversamente, noi non ci saremo, lui per primo.

Ha imposto il suo fuso orario, sconvolgendo il programma. Ha tagliato corto sul cerimoniale, ricevuto i leader che più riconosceva (Netanyahu e Al Sisi), direttamente nella sua auto nera, dietro i vetri scuri, lasciando balenare, per qualche istante appena, la cravatta rossa, il ciuffo biondo-cenere, un riverbero di luce che si è preso e portato via. Ha decretato che gli altri capi di Stato e primi ministri, radunati a Sharm, avrebbero dovuto attendere. Ha visto oro ovunque: alle sue spalle, in America, nel futuro di Israele, perfino tra le macerie di Gaza. Si è fatto portatore del più vecchio motto per riparare la situazione mediorientale: “Fateci piovere soldi”. La pace è un’occasione economica. E la guerra? Di più.

È affascinante la trasformazione di Trump quando si lascia andare, non muove freneticamente le spalle, rilassa la postura; quando smette di denigrare gli assenti o di inseguire chimere e mostra la sua vera natura, non sfoderandola come un’arma, ma posandola sul tavolo come un giocattolo. C’è qualcosa di infantile nel modo in cui parla, non di «pace» e «prosperità», ma di «guerra» e «miliardi».
Questi sono i giochi, le passioni per cui è nato, le altre i risultati, eventuali.
Se c’era un “gobbo” a suggerirgli le parole, stavolta ha distolto lo sguardo con gioia genuina ricordando quel che ha portato all’esito di una giornata indimenticabile. Ha evocato quasi sognante gli aerei incredibili che hanno bombardato l’Iran, le armi che neppure conosceva ma ha fornito all’amico Bibi, i fantastici generali, («che colpiscono da nord, da sud, da sopra e da sotto»), le generose finanziatrici, la vittoria che gli Stati Uniti hanno sempre riportato nei conflitti mondiali, il primo, il secondo e anche in questo e in quelli che dovessero venire. Per quel che è stato fatto ha usato e nobilitato il più inappropriato dei termini: lavoro. Quel lavoro che Netanyahu voleva «finire» e invece gli ha interrotto sul più brutto perché poteva bastare così, aveva «ottenuto tutto ciò che si può ottenere con la guerra e ora deve ottenere altrettanto con la pace», che assomiglia a un grande affare per tutti quelli che l’hanno voluta e a una resa condizionata per quelli che si sono, per necessità, adeguati.

Compiuta la sua missione e allontanandosi prima che il sole tramontasse, Trump ha decretato il definitivo sopravvento di un’era in cui le pulsioni ideali cedono a quelle pragmatiche, Abramo avrà fede in un dio della forza e dell’opportunità, e un mondo paradossale si troverà pericolosamente sull’orlo della pace.

Il libro. Antiterrorismo – L’ultimo libro di Kepel – Ricard uscito da poco in Francia (Plon Editore)

L’intervista
Kepel “Un colpo mediatico che non fermerà la violenza”
di Gabriella Colarusso – Da la Repubblica del 14 ottobre 2025

Gilles Kepel 70 anni, è un politologo francese esperto di Medio Oriente
Con Barghouti in carcere e il movimento distrutto non c’è più interlocutore dal lato palestinese

«Una vittoria simbolica che, al momento, non costruisce una vera pace», Gilles Kepel, tra i più importanti studiosi occidentali del mondo arabo, guarda con scetticismo al vertice di Sharm el Sheikh.

Siamo all’alba dl un nuovo Medio Oriente, come ha detto il presidente americano?
«Di sicuro siamo al tramonto del vecchio. Trump è riuscito a fare una cosa che sembrava impossibile, ha ottenuto la liberazione degli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi, ma manca il prigioniero più importante: Marwan Barghouti, l’unico in grado di incarnare una Palestina nuova. Nel 2011 Netanyahu fece liberare Sinwar perché voleva un dittatore islamo-fascista che controllasse Gaza e che lui pensava di poter controllare coni soldi del Qatar, in modo che non ci fosse una sola Palestina, ma due. Come disse Mauriac nel ’45: amo tanto la Germania che sono felice che ce ne siano due. Barghouti no, resta in carcere».

Eppure Trump parla già di un nuovo assetto regionale: gli iraniani sconfitti, gli arabi pronti a entrare negli accordi di Abramo.
«L’abbiamo già visto in passato: Israele che trionfa, i palestinesi che non esistono più. Poi le conseguenze sono arrivate con il terrorismo palestinese in Medio Oriente e in Europa. Questo è il rischio più importante oggi: se non si costruisce un accordo che salvi entrambi i popoli si creerà nuova instabilità in Medio Oriente con il rischio di una recrudescenza del terrorismo anche qui in Europa. Abbiamo bisogno di una soluzione che non sia solo un colpo mediatico o per aiutare la famiglia Witkoff e quella Trump-Kushner a vendere progetti immobiliari a Gaza».

Perché Netanyahu ha scelto di non andare al vertice di Sharm?
«A lui non frega nulla del vertice di Sharm, vuole l’allargamento degli accordi di Abramo, cioè mettere la Palestina sotto il tappeto».

Ma è ipotizzabile che i sauditi normalizzino le relazioni con Israele senza uno stato palestinese?
«Per i sauditi il riconoscimento di Israele presuppone la creazione di uno Stato di Palestina».

Il piano Trump fa un vago accenno a un percorso che porti a uno Stato palestinese.
«Serviva a far ingoiare l’amara pillola dell’accordo, ma in realtà con Tony Blair, che in un certo modo è il lord Balfour di questo secolo, si ricostruisce un “mandato britannico” sulla Palestina. Il Piano Trump poi non parla della Gisgiordania, dove i coloni sono liberi di fare ciò che vogliono. Siamo molto felici di vedere gli ostaggi con le loro famiglie e i prigionieri palestinesi rilasciati, ma quello di Trump è un colpo politico e mediatico che non pensa al futuro. Al momento è così. È un punto a favore della sua popolarità in patria, ma lascia il Medio Oriente in una situazione non migliore di quanto fosse prima, se non per il fatto che l’Iran non è più in grado di giocare un ruolo come leader dell’asse della Resistenza».

Si parla di una forza di stabilizzazione araba a Gaza: che forma potrebbe avere?
«I paesi arabi non vogliono inviare soldati per fare la polizia di Israele come faceva l’autorità palestinese. È totalmente nebulosa ».

E Hamas? È possibile che rinunci alla lotta armata?
«Tutta la vecchia guardia di Hamas è stata eliminata dagli israeliani, quelli che rimangono a Gaza sono giovani senza coscienza politica o capacità di fare accordi, più esposti alla violenza. Con Barghouti in carcere, Hamas distrutta, non c’è più interlocutore dal lato palestinese: una catastrofe, perché ciò che rimane è la violenza. Il piano saudita-francese puntava a riconoscere lo Stato di Palestina per costruire un futuro a due Stati, ma Netanyahu non è interessato a questa soluzione».

Che futuro attende Israele?
«Bibi voleva gli ostaggi liberi perché adesso forse questo gli consente di sbarazzarsi dei partiti legati ai coloni e ricostruire una coalizione con il centrodestra o il centrosinistra. Ma Israele dovrà giudicare Netanyahu e le persone che hanno avuto responsabilità il 7 ottobre. il Paese deve ricostruirsi in una fase post -Netanyahu,

Nota della Redazione
Entrambi gli articoli così come la vignetta di copertina sono stati ripresi da la Repubblica, edizione di ieri 14 ottobre 2025

 

2 Comments

2 Comments

  1. Luigi Narducci, “Gruppo Dialettica”

    15 Ottobre 2025 at 17:31

    Luigi Narducci (“Gruppo Dialettica”)
    Avevo espresso le mie riserve sulla pace imposta d’imperio in un precedente commento in data 12.10: “una pace duratura si costruisce sulla giustizia, sulla ricostruzione condivisa e sul riconoscimento dei diritti, non sull’annientamento dei popoli” (leggi qui in Commenti per le relative argomentazioni).

    Quanto ad Hamas
    Penso che Hamas sia un gruppo di potere animato da un’ideologia distruttiva, che non rappresenta il popolo palestinese né ha interesse a dargli voce. Per questo motivo, credo che prima o poi entrerà in conflitto con le forze che oggi dominano Israele e che, sostenute da Trump, condividono la stessa logica di potere e di sopraffazione. Entrambi questi attori non hanno alcun interesse alla liberazione di Marwan Barghouti, l’unico leader che, per carisma e capacità, potrebbe unire i palestinesi e avviare un autentico percorso di pace. Le prime notizie indicano che Hamas si sta già muovendo per riaffermare il proprio controllo su Gaza entrando in conflitto con altri gruppi armati presenti nell’area. Sempre che queste notizie siano fondate!

    Hamas era nata per difendere i palestinesi dall’occupazione israeliana, per dare loro una voce politica e un governo capace di garantire ordine e solidarietà sociale. Con il tempo, però, si è trasformata in un potere autoritario, una struttura militare sempre più lontana dal popolo. Il 7 ottobre ha segnato una frattura: la scelta di una violenza che va oltre la difesa e mostra la degenerazione politica e morale di Hamas, ormai speculare alla logica di sopraffazione del governo Netanyahu. Quando la resistenza perde il legame con il popolo e assume una cieca logica militarista, finisce per riprodurre la stessa logica di annientamento che intendeva combattere.

  2. Teresa Denurra

    15 Ottobre 2025 at 22:51

    La pace di Trump: nel sito ho apprezzato molto la presenza dei contributi di riflessione; riflessione che porta a concludere che apparentemente tutto è risolto, nella retorica esagerata e irritante degli avvenimenti, ma in realtà nulla è risolto. Una pace che può finire in qualunque momento, viste le inquietanti figure coinvolte nel processo. È lecito e doveroso chiedersi che cosa sarà di una Palestina martoriata e di tante altre realtà sconvolte dalle guerre, in questo nostro mondo dove gli interessi economici e politici dei forti schiacciano i deboli. Il concetto di umanità sembra scomparso.
    Credo che bisogna continuare a lottare… e sperare.

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