segnalato da Sandro Russo da la Repubblica

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È ancora il corpo il perno del mondo
di Vittorio Lingiardi – Da la Repubblica dell’11 ottobre 2025
– Con tutte le sue ferite è il nostro principale compagno di vita, anche se nell’era digitale rischiamo di dimenticare la sua sacralità
– Al Festival di Salute il reading spettacolo del celebre psicoanalista
– Gli algoritmi e le alte specializzazioni hanno trasformato le cure: i medici abbandonano il tocco lasciando indietro il malato
Anche se dei corpi ci eravamo dimenticati e a volte ci sembrava più comodo farne a meno, dispensarli dall’impegno delle relazioni – «touch has a memory», dice il poeta Keats –, semmai trafugarli per tristi esibizioni su Phica.eu, insomma mentre ci stavamo smaterializzando in lavori agili e dialoghi intelligenti artificiali, il corpo torna in scena con la realtà brutale della guerra, anche se su Instagram.
Dando ragione a un’altra poeta, Wislawa Szymborska, quando dice che saranno pure cambiati “i modi, le cerimonie, le danze”, ma “il gesto delle mani che proteggono il capo è rimasto lo stesso”.
Da Trieste a Tricase, per un anno ho girato l’Italia col mio libro, che è racconto e preghiera del corpo, Federica Fracassi a dargli la voce. Stasera (sabato 11.10, per chi legge – ndr) saremo a Padova (ore 19 Teatro Verdi) per il Festival di Salute. Un anno d’incontri e di ascolto dei corpi: giovani e meno giovani, appariscenti e discreti, sani e malati, stanchi e danzanti. La processione dei volti, la gioia barthesiana di classificarli nell’illuminazione tipologica: «Il felino, il paesano, il tondo come una mela rossa, il selvaggio, l’intellettuale, il tonto, il lunare, il raggiante, il pensieroso».
E le cose brutte dell’avere un corpo: Foster Wallace elenca il dolore, gli odori cattivi, la nausea, l’invecchiare (non sempre funesto, talvolta lieve), i limiti e la malattia. Cioè “ogni singolo scisma tra i nostri desideri fisici e le nostre reali capacità». Ci sono corpi che combattono per essere visti e corpi che si nascondono per scomparire. Corpi che mostrano il dolore (tagli su braccia con maniche corte) e corpi che lo mimetizzano (maniche lunghe).
Ogni corpo è irripetibile, ma una cosa c’è in quasi tutti: una specie di nostalgia, come l’attesa di un richiamo, di un riconoscimento; un’estrazione dalla solitudine, una ricomposizione, forse riconciliazione, tra i mondi ormai scissi dell’algoritmico e del tangibile, della tecnologia e della relazione, della decorazione e dell’intimità.
Quasi che, stanchi di avatar e cyber-porn, desiderassimo, senza saperlo, un Rinascimento corporale. Tornare ad abitare il corpo psichicamente e culturalmente. Ritrovarlo e rivitalizzarlo, nella politica e nella medicina.
Il corpo mi sembra disabitato e solo. È dappertutto e da nessuna parte. In questo vuoto aumenta la domanda di accudimenti compensatori: massaggi lampo, barber shop, nail shop. E la catena infinita del cibo, mangiare ovunque. Siamo spaesati, sottoposti a torsioni quotidiane tra i corpi troppo finti della rete e della techne, e i corpi troppo veri di guerra, migrazione, reclusione, povertà.
Rischiamo di dimenticare la consistenza, la sacralità del corpo.
Tranne quando si ammala: allora ritorna. Ma poi si perde di nuovo in una medicina d’impegnative e macchinari: sempre meravigliosi, ma devono abitare la relazione medico-paziente. Anche in medicina c’è nostalgia del corpo. Sentirlo curato, da vivente e da morente. «L’indice che palpa le profondità», diceva Foucault. Oggi la medicina ha un compito importantissimo: accogliere il dono della tecnologia e delle super specializzazioni senza dimenticare l’umanità della cura, la fiducia nella relazione. Se le parti sono trattate come separate, non comunicanti e non riunite nella mente del medico, il rischio è curare la malattia, ma non il malato.
Ricevo e-mail così: «Non ne posso più di medici che mi fanno domande mentre scrivono e io imploro con gli occhi guardami, parla con me».
Un lettore mi ha segnalato un racconto brevissimo di Eduardo Galeano, Una lezione di Medicina. Parla di una donna anziana che continua a chiedere al dottore di sentirle il polso. Lui esegue, ma pensa: “A questa vecchia manca una rotella”. Solo dopo tempo capisce che questa donna, aveva solo bisogno che qualcuno la toccasse.
Ecco, toccare i corpi: le ferite, le cicatrici, la profondità delle loro superfici. Si potrebbe fare un’anamnesi, chiedendo al paziente: “mi racconti la storia della sue cicatrici”. Lo si può fare anche con il mondo, la sua pelle è così ustionata, segnata da ferite non cicatrizzate. Facciamoci tutti medici del mondo, non smettiamo di provare a curarle.
Oggi, è ancora la carne «il perno del mondo», come diceva Merleau-Ponty? È ancora con il corpo che conosciamo la realtà e noi stessi? La mia risposta continua a essere sì perché il corpo, a maggior ragione quando lo dimentichiamo, è il nostro principale compagno di vita. Il nostro io, ma anche il primo tu. Viviamo del suo incanto e del suo spavento. In qualunque forma ci appaia, non smettiamo di raccontarlo.
L’incontro
“Se la vita è un dono voglio poter gestire anche la sua fine”
di Elvira Naselli
Ci sono due momenti molto emozionanti che strappano lunghi applausi nell’affollatissima Aula magna dell’università di Padova, dove Umberto Galimberti tiene una lettura sulla medicina nell’età della tecnica. Il primo è quando parla di nascita e morte: perché i movimenti della vita – si chiede il filosofo – sono contrari alla tecnologia della procreazione assistita quando si tratta di far nascere dei bambini, e ancor più al ricorso a donatori, o addirittura alla gestazione per altri e poi si ostinano a tenere attaccati alle macchine corpi che soffrono e che chiedono soltanto di poter morire? Perché se la vita è un dono di Dio – ragiona Galimberti – il dono poi appartiene a chi lo riceve, e può farne quello che vuole. Deve poterlo gestire liberamente. Nessuno può obbligare a vivere contro la propria volontà, bisogna staccare dalle macchine e lasciar andare. Pronuncia la parola: eutanasia. E il pubblico applaude, perché chi non ha avuto un anziano genitore, una moglie, un marito, irreversibilmente malati e con il solo desiderio di staccare?
L’altro momento tocca anche questo il fine vita ed è il momento delle cure palliative, le cure di quando la medicina alza le mani e intervengono i palliativisti, che accompagnano verso una morte senza dolore. «Ma perché non possono farlo gli oncologi che hanno tentato di curare quel paziente – ragiona Galimberti – o perché non possono farlo i medici che hanno sempre seguito una persona per tutta la vita? Perché dare il senso della morte anticipata, con la presenza di medico palliativista, a un malato che sa che è arrivata la sua fine e la legge ogni giorno nei gesti di un medico che arriva solo quando non c’è più speranza.
Il Festival
Sarà trasmesso in streaming su La Repubblica, La Stampa e Huffington Post.
Gli interventi saranno pubblicati sul sito di Salute del vostro quotidiano
Immagine di copertina. Da un atlante medico (dall’articolo di Repubblica)
Vittorio Lingiardi. Corpo, umano (Einaudi 2024; Premio Bagutta 2025)







