segnalato da Sandro Russo
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Stefano Benni, gli angeli e l’ultima intervista
di Paolo Di Paolo – Da Robinson / Repubblica del 07 Ottobre 2025
Stefano Benni (Photo by Sophie Bassouls/Corbis via Getty Images)
Un incontro pubblico su disperazione e comicità. La sua malinconia e lo sguardo ironico sul mondo. Le parole inedite dello scrittore morto un mese fa
È facile supporre che avesse accettato l’invito soprattutto per il nome – assurdo – del festival in questione: “Festival della Disperazione”. In assoluto fra i più eccentrici e imprevedibili appuntamenti nella vasta galassia degli eventi letterari. Ancora attivo, disperatamente – ad Andria, in Puglia – con i suoi corsi di rassegnazione, self-help a rovescio, con il coro dei malcontenti, rituali ansiogeni, concertini di sconfitte esistenziali. Stefano Benni, scomparso un mese fa, arrivò, per una delle ultime o penultime apparizioni pubbliche, con l’idea di leggere, a chiusura dell’intervento, un suo racconto intitolato L’ora più bella. Il perfetto controcanto alla disperazione di partenza. C’era una gran folla ad attenderlo; e qua e là quel segnale tipico di un autentico e profondo legame con certi scrittori: la piletta di vecchi libri sottobraccio. Quando esordii dicendo che era già nelle antologie scolastiche e destinato a diventare un aggettivo – che so, “benniano” – fece platealmente gli scongiuri. La conversazione prese le mosse da un suo racconto intitolato “Le lacrime”: «Le prime apparvero all’alba in periferia, gli addetti alla spazzatura ne trovarono una decina in un prato, stavano per caricarle sul camion pensando che fossero sacchi di plastica, quando si accorsero della loro stranezza. Grandi bolle sgonfie, meduse, traslucide, alcune ovali, altre oblunghe, talune di forma irregolare, come un frutto flaccido e malformato».
A un festival intitolato alla disperazione, bisogna pur partire da questo rapporto fra il ridere e il piangere. No?
«Se non esistesse il suo rovescio, forse il comico non avrebbe senso. La speranza e la disperazione, comunque, sono due condizioni di risveglio. Viviamo come addormentati, poi arriva la disperazione, per esempio una malattia, e improvvisamente capiamo cosa è importante. Ci svegliamo. E anche quando appare la speranza, improvvisamente la nostra vita ci appare più grande, più piena. Non è che comico e tragico corrispondano necessariamente a speranza e disperazione. Però il comico, sì, è una forma di risveglio. E la risata è per certi versi magica, misteriosa, incomprensibile… Non tutti ridiamo delle stesse cose, e nemmeno piangiamo per le stesse cose. Ma in ogni caso ci riflettiamo poco. L’apparizione di queste lacrime, nel racconto che hai evocato, sconvolge completamente la vita di questa cittadina, perché hanno di fronte qualcosa su cui non hai mai riflettuto. Le respingono. E sarà non a caso un bambino a capire cosa sono. A vedere dentro la bolla di una lacrima qualcosa che riguarda tutti».
L’unica gioia è quella degli scampati, l’unico gesto insieme umano e divino è la guarigione, dici in un tuo libro. Me lo spieghi?
«Quando siamo disperati, cerchiamo qualcuno che ci dia speranza e allora chiamiamo l’angelo. Ma c’è un problema: l’angelo non arriva sempre. Ciò che rende meravigliosa la sua apparizione è proprio il fatto che non è sicuro che arrivi. Un angelo che arriva con certezza e che ci cura, ci guarisce, non è un angelo. L’angelo è quello che arriva inatteso e solo per noi. Può arrivare dal cielo, ma può essere un medico, può essere tuo figlio, e allora sì, si prova quella che io chiamo una delle gioie più belle della vita, la gioia degli scampati, di quelli che tornano a casa dalla guerra. Ce l’ho fatta, ne sono uscito, e per un momento tutto il mondo è pieno di speranza, l’angelo stavolta è arrivato. La volta dopo, probabilmente, non arriverà».
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Non so bene come porre la domanda: c’è un modo per chiamarli, gli angeli? C’è un richiamo che funziona?
«Ci sono gli angeli araldici, quelli in cielo, i puttini, e quelli arrivano anche per motivi religiosi, quindi bisogna essere molto credenti, e io non lo sono. Quelli arrivano, ti premiano, ma sono molto insidiosi perché fanno grandi annunci che non sempre sono veri. No, gli angeli vanno riconosciuti. Più che chiamarli a gran voce bisogna guardarsi intorno, accorgersi che l’angelo che arriva per me non è su una nuvola e non ha poteri magici, tutt’al più ha qualche potere curativo. Credo che succeda a tutti di uscire da un periodo molto duro e chiedersi: chi mi ha aiutato in questo periodo? Forse non le persone su cui contavo. Magari invece proprio un angelo imprevisto, una piccola apparizione, una persona che ti è stata vicina in un modo che non ti aspettavi e ti ha guarito. La parola guarigione è una parola meravigliosa, ma non è una parola eterna. Si guarisce, ci si riammala. Però per me è una parola sacra».
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Tu riesci a far sorridere anche sulle disgrazie assolute. In un racconto c’è questo nonnino solo in una clinica. Visto che nessun angelo si presenta al suo capezzale, mette un cartello con scritto: «Si accettano visite anche dai parenti degli altri».
«Quando entri nel mondo del comico, capisci subito che sei in un mondo di contraddizioni. Il comico ha, esattamente a un passo, il tragico. Ecco l’attore comico in scena, mettiamo: gli viene un coccolone, muore, arriva il tragico. Oppure è serissimo, scende le scale, inciampa, tira una bestemmia: sei nel comico. Con grande stupore talvolta ci chiediamo: come fa un comico a suicidarsi? Penso a Robin Williams. O a John Belushi che si strippa di droga. Come fa Charlot a diventare cattivo? Perché negli ultimi anni della sua vita diventò molto cattivo. Come fa un comico che abbiamo tanto amato a finire solo, solo come un cane? Com’è successo? Stanlio e Ollio sono morti da soli, dopo aver regalato gioia a tutti. Sono stati dimenticati. E perché quando noi guardiamo la foto di un comico, spesso il volto di questo comico è triste? Le foto di Totò sono tristi, le foto di Stanlio e Ollio non sono mai allegre, anche quando c’è una smorfia. Perché il comico è una forma di attenzione spasmodica alla vita, è una forma di lucidità spaventosa. In tutti i grandi comici c’è una vena di dolore. Non è necessario soppesarla quando scrivi, viene fuori da sé perché la figura del clown è triste. E perché in tutti i grandi comici – dimmene uno che non sia così – c’è questa sfumatura malinconica che è data da un amore doloroso per la vita».
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Bisogna soffrire per forza, per scrivere bene?
«No, non voglio, non pretendo che un artista sia necessariamente infelice. Questa anzi è un’idea che combatto. Penso che ci siano anche libri che nascono da uno stato di grazia. Posso raccontarti un episodio. Anni fa ero a un Festival dell’Unità, una cosa che adesso non c’è quasi più, ma c’era, era una cosa strana. Si mangiavano salsicce, c’era il fumo delle salsicce, ed eravamo su un palco, parlavamo, e c’era un noto critico d’arte, di cui non faccio il nome perché è ancora vivo (gli auguro di restare vivo almeno per alcuni mesi, no, dai, per alcuni anni). Ebbene, disse: oggi hanno venduto I girasoli o un altro quadro di Van Gogh per 5 miliardi. Poi aggiunse: che meraviglia che Van Gogh abbia sofferto tanto, che abbia fatto una vita così dolorosa, perché da questa sua vita dolorosa è nato questo capolavoro! Allora io, timidamente, presi la parola: senta, io sono d’accordo con lei… però sinceramente se Van Gogh avesse avuto i soldi per i colori, se qualcuno gli avesse comprato un quadro quando era vivo, se avesse avuto una bella fidanzata per un anno, e fosse stato felice anche solo per un anno, be’, io avrei fatto a meno volentieri dei girasoli… Ecco, dei Girasoli a quel punto non me ne frega un cazzo!».






