Racconti

I pennecille

di Francesco De Luca

 

Stamane mi voglio gingillare con questo vocabolo tanto strano e tanto in disuso nel parlare paesano.

Strano lo è perché, per quanto mi sia intestardito a rovistare nella memoria (quella popolare e quella dotta), non sono riuscito a cavarne nulla. Né per quanto concerne la radice della parola, né per la desinenza, né per l’assonanza orale. Niente. Per me è indecifrabile.

In disuso lo è anche. Perché? Perché i pennecille hanno perso di importanza. La loro opera non è più richiesta. Qual è quest’opera? Devo andare indietro nel tempo… non tanto… una cinquantina d’anni fa.

Dopo la vendemmia i filari di vite vengono temporaneamente lasciati al corso della natura. Fino a gennaio-febbraio, quando occorre potare. Si tagliano i tralci vecchi, quelli non produttivi, quelli nocivi. Si affastellano insieme e si fanno fascine. Sono ancora verdi e non rendono nel fuoco. Allora si buttano? No! Servono per alzare pareti fittizie contro il vento. ‘A parracina è bassa e con i fasci d’i pennecille si può contrastare meglio il vento che viene dal mare. E’ legname buono per un uso improvvisato, d’occasione.

Oppure s’aspetta che passi l’anno e allora… i pennecille diventano legno privilegiato per accendere forni e bracieri. Perché è diventato secco e questo favorisce la combustione.

Accatastati sotto un cavo di roccia (zeppenne) sembravano trascurati dal padrone del terreno: zì Nicola. Un uomo di Sopra gli Scotti che portava male i suoi 60 anni. A noi ragazzi dava l’impressione di un vecchio, e come tale da poter raggirare con facilità. Si era alla ricerca di legname di scarto per allestire ‘u fucarazzo di Venerdì Santo (falò, al passaggio della processione).

La banda dei ragazzi di Sant’antonio aveva già innalzato sulla spiaggia d’u summariello il cono di legna, e noi del Porto stavamo ancora indietro. Una gara tacita ci accomunava e ci divideva.

Quell’anno il posto prescelto dai  grandi  (i giovani Ciccillo, Silvano, Gianfranco) era stato individuato giù al Mamozio.

Noi piccoli eravamo addetti a reperire presso le case del Porto la legna inservibile.

Per fortuna si unì la banda dei ragazzi degli Scotti (Totonno Semiscotte, suo fratello Giovanni, Leone, Pierino, Liberato, Nino spaccamuntagna).

Loro conoscevano bene le catene di zì Nicola e le cataste di pennecille. E anche le intemperanze del ‘vecchio’, che, quando menava, faceva male. Perché, in sostanza, bisognava rubare i suoi pennecille.

Totonno, il più piccolo, con la sua aria bonaria, gli si presentò, a lui che zappava, e gli riferì quanto richiesto dalla moglie, ovvero di recarsi d’urgenza a casa. Una menzogna credibile. Innocua per lui, per noi uno scherzo. Zì Nicola non ci pensò su. Lasciò la zappa e si diresse con sollecitudine a casa.

Noi, con altrettanta sollecitudine, prendemmo dalla catasta ognuno un fascio di pennecille, e di corsa scendemmo dagli Scotti.

Non ci fu gara. ‘U fucarazzo di Sant’antonio quell’anno fu più brillante e più duraturo del nostro.

Totonno acquistò ai nostri occhi un prestigio di cui ancora oggi va fiero.

Zì Nicola dovette attendere il momento della Resurrezione per ritrovare nell’animo l’allegria della Santa Pasqua.

In noi l’allegria divampò quando, all’uscita della processione di Gesù Morto, i pennecille crepitavano al fuoco e lanciavano faville al cielo: desideri e speranze dei nostri frizzanti animi.

Oggi, a noi giovani nel ricordo i pennecille servirebbero, ma nessuno affastella più i tralci, e di pennecille non se ne vedono. Come in noi desideri e speranze.

E allora ne scrivo, così da risentirne il profumo.

1 Comment

1 Comments

  1. Sandro Russo

    8 Ottobre 2025 at 06:32

    I pennecille… In tema di differenze culturali, non grandi temi ma cose piccole, di dialetto, la parola messa sotto la lente da Franco mi ha ricordato le diatribe familiari vissute da ragazzino “bilingue” (o trilingue, se consideriamo anche l’italiano).
    In famiglia si viveva la contrapposizione – chiamiamola culturale – tra mio padre, originario di Cassino, dove vivevamo e mia madre, trapiantata da Ponza in Ciociaria. Chissà perché mio padre scelse proprio quella parola, tra le tante “strane” del dialetto ponzese quando voleva prendere in giro mia madre che quel mondo “forastiero” (e il suo dialetto) lo viveva malvolentieri.
    Battibecchi di questo tipo:
    – E che mi potevo aspettare da una che dice “i pennecille”?
    E la pronta risposta:
    – No, perché è più elegante il modo in cui li chiamate voi… le salemènta! (…e qui lei trascinava la parola: le salemèenta)
    (In italiano si dice “i sarmenti della vite” – ndr).
    Per dire… nei matrimoni “misti”, finito il trasporto passionale dei primi tempi, vengono fuori le differenze e le incomprensioni profonde, anche di poco conto, ma alla lunga incidono. E qui c’era una distanza regionale minima! Figuriamoci le discrepanze tra Nord e Sud d’Italia o quelle linguistiche e culturali di paesi ancora più distanti.

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